domenica 30 novembre 2014

COMUNISMO ERMENEUTICO



Ero in una libreria ieri pomeriggio, sul tardi.
Guardo i libri esposti in scaffale e ad un tratto l'occhio mi cade su un titolo: “Comunismo ermeneutico”. Gli autori? Un tal Santiago Zabala (mai sentito nominare) e Gianni Vattimo (lo conosco di fama, un gigante della filosofia).
Per un attimo sono combattuto fra una sorta di nausea intellettuale e la curiosità. Poi la curiosità ha la meglio. Prendo il libro, lo sfoglio, leggo la presentazione sul retro della copertina. Il comunismo ermeneutico “rielabora” Marx alla luce del pensiero di Heidegger, ed ha un suo preciso modello politico: il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales. Da Marx a Chavez passando per Heidegger! Fantastico itinerario! Il nemico, ovviamente, è il “pensiero unico neoliberista”, origine di tutti i mali del mondo. Come tutti sanno è stato infatti il “neoliberismo” a lasciare in eredità al genere umano svariate decine di milioni di cadaveri. I paesi “neoliberisti” sono afflitti, è notorio, da degradante miseria, ed i loro cittadini sono oppressi da sanguinarie dittature. Chi bestemmia è crocifisso o decapitato, e le donne adultere vengono lapidate nei paesi “neoliberisti”, ed ovunque, in qui paesi, esistono campi di lavoro forzato. O forse no, forse sto facendo un po' di confusione, invecchio...

Ma “Comunismo ermeneutico” non è solo un libro di politica, è un libro di FILOSOFIA poffarbacco! E se in politica il nemico è il “neoliberismo” in filosofia lo è il realismo. Il realismo ci vuole tutti schiavi, asserviti ai fatti. Chi è rivoluzionario non può che avversare il realismo, opporsi al concetto stesso di realtà. La realtà ci schiaccia con la sua presunta oggettività, dobbiamo ribellarci alla sua “dittatura”. Dobbiamo sostituire i fatti con le interpretazioni. Lo diceva anche il vecchio Nietzsche del resto che non esistono fatti, ma solo interpretazioni...
E si. A distruggere la nostra libertà non sono i tipini come Mao Tze Tung che a suo tempo stabilì che centinaia di milioni di cinesi potevano leggere solo i suoi scritti, solo quelli, in tutti i campi dello scibile umano. E la libertà non è distrutta da chi condanna a morte gli apostati o impicca gli omosessuali, o da chi, come ha fatto Hugo Chavez, chiude i giornali che osano criticarlo. No, la libertà è distrutta dal mondo che esiste, ed ha la pessima abitudine di non essere come noi vorremmo che fosse. Niente fatti, solo interpretazioni! I fatti dicono che i fondamentalisti islamici hanno fatto crollare le torri gemelle, causando quasi tremila morti? E noi ci ribelliamo alla loro dittatura e diciamo che i responsabili di quei morti sono la CIA ed il Mossad. I fatti ci dicono che gli angioletti di Hammas bombardano ogni giorni Israele coi loro razzi? E noi diciamo che i razzi di Hammas sono armi giocattolo. I fatti ci dicono che il comunismo, ermeneutico o meno che sia, è crollato? E noi diciamo che a crollare è stato un “falso” comunismo, o che a farlo crollare sono state le oscure manovre della finanza internazionale, probabilmente “sionista”. Il mondo smentisce i parti delle nostre menti? E noi lo “reinterpretiamo”, il mondo. Le vie dell'ermeneutica sono infinite.
Però, un dubbio mi coglie. Le interpretazioni, le semplici opinioni addirittura, non sono, a loro volta, dei fatti? E' o non è un fatto che il professor Gianni Vattimo abbia affermato che quelle di Hammas sono “armi giocattolo”? L'interpretazione che Lenin dà del pensiero di Marx è assai diversa da quella che ne danno Kautsky o Turati, questo è o non è un fatto? E se io nego che i fatti esistano la mia negazione non è, essa stessa, un fatto? Chi sostiene la non esistenza dei fatti si trova nella stessa scomoda situazione logica di chi nega l'esistenza della verità, e pretende che questa sua negazione sia vera. Si eliminino i fatti e lo stesso termine “interpretazione” perde ogni senso.

Ho commesso un peccato mortale, me ne rendo conto. Ho parlato di logica. Ma, lo sanno tutti, la logica nega, coarta, sopprime la nostra libertà, esattamente come la realtà, e come i fatti. I veri rivoluzionari della logica se ne fregano. Identità, non contraddizione, terzo escluso... ceppi, catene che impediscono al nostro spirito di librarsi alto, etereo nell'aria pura del comunismo ermeneutico.
La non contraddizione è il principio della vuota, immobile identità. Il principio della vita e del movimento è la contraddizione. Viva la contraddizione quindi, e, al diavolo la vecchia logica fondata sul principio di non contraddizione!
In effetti i grandi rivoluzionari non temono le contraddizioni. Parlano di dispotismo della libertà e di dittatura democratica, proibiscono lo sciopero in nome del potere dei lavoratori, invocano la pace nel momento stesso in cui, armati sino ai denti, invadono stati sovrani. Il professor Vattimo non è da meno. Difende i diritti delle donne e degli omosessuali e, nel contempo, chi le donne le frusta e le lapida, e gli omosessuali li impicca. Vuole la laicità ma ama chi teorizza il califfato. Ammira Karl Marx e Martin Heidegger che non pare fossero molto credenti, ma difende chi condanna a morte apostati e bestemmiatori.
Nella “Metafisica” Aristotele afferma che “se è corretto affermare che l’uomo è non uomo sarà corretto affermare che egli è trireme e che non è trireme”. Se “uomo” e “non uomo” sono lo stesso allora l'uomo è una trireme, visto che di certo “trireme” non è “uomo” e, nel contempo, egli non è una trireme, visto che, sempre di certo, “uomo” non è “trireme”. Si elimini il principio di non contraddizione e non sarà più possibile attribuire un significato determinato alle parole. Dire “uomo” equivarrà a dire “trireme” o “fiume”, o, perché no, “comunismo ermeneutico”. Per questo lo stagirita afferma che il principio di non contraddizione è il presupposto di ogni dimostrazione, di ogni affermazione e di ogni negazione, insomma, di ogni discorso sensato. Però, mi rendo conto di continuare a sbagliare, e a peccare. Si, perché, cosa può contare un Aristotele, figura secondaria nella storia della filosofia, di fronte ad un gigante del pensiero universale come il professor Gianni Vattimo? Probabilmente anche il signor Santiago Zabala, che, per mia gravissima colpa, fino a ieri non conoscevo neppure di nome, ha una profondità di pensiero enormemente superiore a quella del filosofo di Stagira.

Pensavo rapidamente a queste cose ieri, mentre in una grande ed abbastanza affollata libreria, sfogliavo con sommo rispetto il libro “Comunismo ermeneutico”, e ne leggevo rapidamente alcuni brani. Lo confesso. Per un attimo sono stato come travolto da un insano istinto masochista. Ho pensato di comprarlo, quel capolavoro, in maniera da poterlo leggere tutto, e con la dovuta attenzione. Stavo per avviarmi alla cassa per pagarlo quando è tornato, prepotente, quel senso di nausea intellettuale cui ho già accennato, quasi una leggera voglia di, mi si scusi il termine, vomitare. Ho anche pensato: “se lo compro, questo libro, una parte di ciò che pago finisce nelle tasche del professor Vattimo”. Il solo pensiero di contribuire a migliorare le finanze di un simile personaggio ha avuto l'effetto di uno schiaffone in pieno volto, e ha sconfitto il mio insano masochismo. Ho represso la voglia di stracciare il capolavoro che tenevo in mano, lo ho rispettosamente riposto nello scaffale e mi sono allontanato.
Di certo mi sono perso la lettura di un testo che diverrà un classico. Pazienza!

venerdì 28 novembre 2014

NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO




NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO
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Lo ripetono in molti, lo afferma spesso e volentieri papa Francesco e lo dicevano i pontefici che lo hanno preceduto. E molti vedono in questa affermazione una implicita condanna del fondamentalismo islamista.
Però, a ben vedere le cose, che status logico ha l'enunciato “NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO”? Non è molto chiaro.

Si tratta di un enunciato descrittivo? In questo caso sarebbe palesemente falso. In realtà SI UCCIDE IN NOME DIO DIO, si uccide oggi in nome di Dio ed in nome di Dio si uccideva ieri, spesso in maniera spietata, crudele.

L'enunciato
NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO potrebbe essere non descrittivo ma normativo. Non dice come è la realtà, ma come questa dovrebbe essere. In questo senso è sensato ed ampiamente condivisibile.
Però, ha senso un enunciato normativo che resta sempre nel generico? Che senso ha ripetere all'infinito che “
non si uccide in nome di Dio”, senza mai dire chi, in nome di Dio, oggi uccide? Ripetere genericamente che non bisogna uccidere in nome di Dio senza mai nominare il fondamentalismo islamista ricorda chi, nel corso dell'ultimo conflitto mondiale, condannava i massacri di intere popolazioni senza nominare ebrei e nazisti. 

Il continuo ripetere che in nome di Dio non si uccide rischia così di diventare u a sorta di
auto assoluzione della religione. NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO, si continua a ripetere, quindi la responsabile di tutto è, ma guarda un po', l'economia. Chi sgozza, impicca, brucia viva la gente in nome di Dio lo fa, sotto sotto, con altre motivazioni, ben diverse dalla fede. I veri obbiettivi sarebbe il petrolio, il denaro, i profitti. Però, è molto strana la cosa. Ovunque nel mondo c'è gente che ha bisogno di petrolio, e ci sono aziende che cercano di realizzare profitti, e persone che amano il denaro. Però, solo in certi paesi si sgozzano si crocifiggono, si fanno arrostire numerosissimi esseri umani. E, combinazione, gli aguzzini sono persone che professano un certo credo, e le vittime, altra combinazione, persone di fede diversa, o accusate di favorire diverse fedi. Ed ancora, una persona sana di mente può davvero pensare che chi lapida le adultere, obbliga le donne ad indossare il velo, uccide apostati e bestemmiatori mira al profitto? Forse che non si possono far profitti vendendo minigonne? O si pensa ai profitti dei “mercanti di armi”? Sono davvero persone esecrabili i mercanti di armi, ma, dire che si fanno le guerre perché ci sono i mercanti di armi è un po' come dire che gli uomini hanno bisogno di mangiare perché ci sono i fornai...
La tesi secondo cui il vero obiettivo di chi ammazza in nome di Dio non è la fede ma altro è inoltre perfettamente reversibile. Se due paesi si fanno guerra per controllare un pozzo di petrolio un petroliere potrebbe sempre dire che “il vero obiettivo” della guerra non è il petrolio ma la supremazia religiosa e culturale. Chi cerca di spiegare la realtà visibile, controllabile, con il rimando ad un livello di realtà sotterraneo ed in linea di principio non controllabile, dimentica che con un simile metodo si può sostenere tutto ed il contrario di tutto.

In nome di Dio si è ucciso ed ancora si uccide, questa è la triste realtà, nasconderla con chiacchiere sul petrolio, i mercanti di armi o le multinazionali vuol dire solo cercare di cancellare dal mondo il fenomeno enorme del fanatismo religioso ed ideologico.
Occorre
condannare chi uccide in nome di Dio, dire chiaramente che in nome di Dio NON SI DEVE uccidere. Ma per farlo in maniera efficace, occorre uscire dal generico e dalle ambiguità. Occorre chiamare le cose col loro nome, dire chiaramente che oggi sono i fondamentalisti islamici ad uccidere in nome di Dio, condannare le loro azioni, combatterli, a tutti i livelli, compresi quello culturale e teologico.
Se no la litania sul “
non uccidere in nome di Dio” è destinata a restare una insopportabile forma di ipocrisia.

mercoledì 26 novembre 2014

L'INGIUSTO AGGRESSORE

Lo ha detto papa Francesco: “Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto”. Si può fermare un aggressore solo col consenso della “comunità internazionale”. Inoltre, ha sottolineato il  pontefice, fermare un aggressore non significa fargli la guerra: “Sottolineo il verbo ‘fermare’, ha detto Sua santità, “non dico bombardare o fare la guerra. Ma fermarlo”.
Evito, per non apparire irrispettoso, ogni commento sul fatto che si dovrebbero fermare i tagliagola dell'Isis senza usare nei loro confronti la minima violenza (forse qualcuno pensa ad un intervento miracoloso della divina provvidenza) e mi limito ad una modestissima domanda.
PERCHE'? Perché mai una singola nazione non può fermare un aggressore ingiusto? Perché occorre il consenso della “comunità internazionale”? E cosa è questa comunità? La totalità degli stati del mondo? O la sua maggioranza? Quando la Germania nazista ha invaso la Polonia, seguita a ruota dalla URSS di Stalin, la Polonia aveva o no il diritto di difendersi o doveva aspettare che la maggioranza degli stati d'Europa, o del mondo, le desse il beneplacito? Se tre stati invadono un paese che chiede solo di vivere in pace, e se la comunità internazionale assiste in silenzio, lo stato aggredito ha o non ha il diritto alla difesa? E se un alleato dell'aggredito decide di intervenire può farlo o deve prima aspettare che chi assiste in silenzio si svegli?
Più in generale, una aggressione cessa di essere aggressione se una maggioranza di stati non la definisce tale? E se la maggioranza dei paesi che risiedono all'ONU decidesse che è giusto distruggere Israele e far fuori i suoi miserabili cinque, sei milioni di abitanti, una simile azione diverrebbe moralmente lecita solo perché una maggioranza di paesi la ha approvata?
Ancora più in generale, un atto immorale diventa morale se la maggioranza lo approva? La lapidazione della adultere è entusiasticamente approvata, in molti paesi, dalla grande maggioranza della popolazione. Ciò la rende eticamente accettabile? Se vedo un bruto che violenta, nella generale indifferenza, una bambina innocente ho o non ho il diritto, anzi, il DOVERE di intervenire in sua difesa fregandomene, anzi, condannando, l'indifferenza della maggioranza?
Sua santità è un gesuita, è lecito ritenere che abbia letto le opere di Sant'Agostino, eppure sembra condividere la tesi, di derivazione utilitaristica, secondo cui è bene ciò che la maggioranza decide sia tale.

Qualcuno potrebbe obbiettare che decidere a maggioranza è l'essenza della democrazia, quindi che è giusto che la maggioranza stabilisca se è o non è lecito resistere ad una ingiusta aggressione. Però, a parte ogni altra considerazione, una cosa dovrebbe essere chiara: in democrazia la maggioranza non può decidere tutto. In una democrazia autentica, cioè liberale, la maggioranza non può sopprimere i diritti delle minoranze o degli individui. Nessuna maggioranza, anche schiacciante, può decidere, ad esempio, lo sterminio di una certa categoria di cittadini, o negare loro i diritti fondamentali, o impedir loro di difendersi da chi questi diritti vuole invece distruggere.
L'assemblea generale dell'ONU non assomiglia in nulla, neppure alla lontana, ad un parlamento democraticamente eletto, basti pensare che in quella assemblea siedono i rappresentanti di oscene dittature. Ma, anche a prescindere da questo, anche se questa assemblea fosse seriamente paragonabile ad un parlamento mondiale, non avrebbe comunque il diritto di negare ad uno stato il diritto all'autodifesa, né ai suoi alleati il diritto-dovere di aiutarlo in caso di bisogno.

Ma il Santo padre non si è limitato ad affidare, in maniera esclusiva, ad una evanescente “comunità internazionale” il compito di difendere gli aggrediti, senza ovviamente, sparare un colpo agli aggressori. Ha infatti aggiunto: “dobbiamo avere memoria, quante volte sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto la vera guerra di conquista”.
A quali guerre si riferiva, se è lecito chiederlo? Quali potenze hanno trasformato in guerra di conquista la guerra ad un aggressore ingiusto? Si riferiva forse all'URSS che dopo la sconfitta della Germania nazista si è praticamente annessa l'Europa orientale? O aveva in mente Israele che ha in effetti un po' ampliato i suoi confini per meglio difendere le sue città da indiscriminati attacchi terroristici?
Fare una affermazione come quella che si è riportata senza specificare a chi ci si riferisca significa, concretamente, rifiutare qualsiasi intervento militare contro un “aggressore ingiusto”. Stiamo attenti”, questo è il messaggio sottinteso, “quelli che dicono di combattere contro un aggressore ingiusto in realtà vogliono una guerra di conquista”, quindi, per evitare una presunta, ipotetica, guerra di conquista, si eviti di muovere un dito contro l'ingiusto aggressore. Meglio ancora, si cerchi il “dialogo” con questo ingiusto aggressore: forse poi tanto ingiusto e tanto aggressore non è. Non a caso Sua Santità ripropone in ogni occasione il dialogo con tutti, ma proprio con tutti, anche con chi di dialogare non ha nessuna intenzione, preferisce uccidere, uccidere fra gli altri, moltissimi cristiani.
Dietro la continua esaltazione del dialogo, della comprensione, della bontà si favoriscono le aggressioni, si da forza alla prepotenza, si favorisce lo scoppio di nuovi, sanguinosi conflitti.
Certo, tutto questo a partire da nobili, lodevoli intenzioni. Ma, come si dice, di buone intenzioni è lastricata la strada che porta all'inferno.

venerdì 21 novembre 2014

UNA VALUTA PALESTINESE?

palestina-israele


In Europa sembra si stia diffondendo una autentica smania di riconoscere la “Palestina”. Eppure questo stato, che tutti hanno voglia di riconoscere, è alquanto strano. Si tratta di uno stato dai confini imprecisati e di cui non si conosce la capitale; uno stato che non si sa da chi sia governato, privo di esercito regolare, di una magistratura e di una polizia dotate di vera giurisdizione ed autentici poteri di controllo sulla popolazione. Uno stato privo di una propria valuta e di una propria banca centrale. Su quest'ultimo punto vorrei spendere due parole.

A Gaza ed in Cisgiordania circola il NIS, (new Israeli shekel, la moneta israeliana) e gli accordi di di Oslo prevedevano esplicitamente che nei territori amministrati dalla autorità nazionale palestinese (ANP) circolasse la valuta israeliana. Questo è oggi oggetto di forti critiche da parte dei nemici di Israele. La “Palestina” non ha una propria valuta, dicono costoro, il che deprime la sua economia. Però le resistenze israeliane ad una valuta autonoma palestinese sono piuttosto comprensibili. Gaza dipende da Israele per le forniture di gas e acqua, i malati palestinesi vengono curati negli ospedali israeliani, la maggioranza degli abitanti di Gaza lavora in Israele. Non si vede perché gli israeliani dovrebbero accettare di vedersi pagare i loro servizi (quando sono pagati) e le loro merci in una moneta ultra svalutata. Un paese non può volere l'autonomia valutaria ed essere, insieme, la provincia assistita di un altro paese. Gaza vuole una sua valuta? Allora dovrebbe cercare di renderla minimamente competitiva e dovrebbe, soprattutto, rendersi davvero economicamente autonoma. Perché mai un commerciante israeliano dovrebbe accettare in pagamento una valuta con la quale non potrebbe comprare praticamente nulla? Chi teorizza una valuta autonoma per la Palestina dovrebbe accettare che gli operatori israeliani fossero liberi di rifiutare i pagamenti in tale valuta, ma una cosa simile sarebbe subito tacciata di “razzismo”.
Si possono fare considerazioni simili riguardo al fatto che la gran maggioranza dei palestinesi lavora alle dipendenze di ditte israeliane. Questo sarebbe la prova, per alcuni, del “colonialismo” di Israele. In realtà essere pagati con valuta israeliana conviene ai palestinesi, visto che a Gaza i prezzi sono più bassi e si può comprare con un NIS più merce di quanta se ne possa comprare in Israele. In ogni caso il fatto che i palestinesi lavorino in Israele dimostra solo che a Gaza non c'è sviluppo economico ed in Israele si, il che non ha nulla a che vedere col “colonialismo”.

Un paese vero, che aspiri al riconoscimento internazionale e ad instaurare relazioni commerciali con altri paesi deve avere una valuta in grado di interessare i possibili partner. Allo stesso modo, un paese che aspiri al riconoscimento internazionale non può dipendere in toto dalla economia di un altro paese. Se l'ottanta per cento della manodopera italiana lavorasse in Francia l'Italia sarebbe un paese vero? E avrebbe senso per un simile paese la richiesta di una autonomia valutaria?
Il problema autentico allora non è quello del presunto “colonialismo” israeliano o della mancanza a Gaza ed in Cisgiordania di una valuta palestinese. Il problema vero è riassumibile in una domanda: I governanti del presunto stato palestinese mirano allo sviluppo economico? Vogliono che si sviluppi una industria palestinese? Che si producano beni e servizi palestinesi minimamente competitivi? Vogliono che a Gaza ed in Cisgiordania sorgano scuole ed università qualificate? Che si diffondano un commercio ed un credito efficienti? Basta fare la domanda giusta per avere la risposta. E la risposta è NO.
I miliardi di aiuti internazionali che la “Palestina” ha ricevuto non sono stati spesi in fabbriche, scuole ed ospedali, ma in armi (o sono finiti nelle tasche di qualche leader carismatico). A Gaza è fiorente l'industria dei tunnel e i caporioni da Hammas, con il beneplacito di quelli della ANP, preferiscono che i giovani si allenino al martirio piuttosto che frequentare buone scuole ed università.
Il problema di Gaza e della “Palestina” è quindi politico, non economico. I leader palestinesi non sono minimamente interessati allo sviluppo perché la lotta contro Israele monopolizza tutte le loro attenzioni, anche se questa lotta ha evidenti effetti negativi per la loro economia. Molti denunciano le conseguenze economiche negative del muro israeliano, ma se i palestinesi rinunciassero sul serio al terrorismo quel muro potrebbe cadere. Denunciano altresì la mancanza di un aeroporto internazionale a Gaza. Ma, a cosa servirebbe questo aeroporto? Agli spostamenti di merci e passeggeri o alla guerra infinita contro Israele?
Cercare di eliminare dal mondo l'”entità sionista” ha conseguenze economiche disastrose per tutti, ma soprattutto per i palestinesi; questo però sembra interessarli poco. Salvo poi lamentarsi del fatto che in Israele tutti i fondamentali indicatori economici siano enormemente migliori che non a Gaza o in Cisgiordania. Per i fanatici e gli ipocriti i successi economici sono la prova del carattere malvagio di un popolo e di uno stato. Lavorare e produrre sono una colpa, qualcosa di intrinsecamente “colonialista”! La cosa triste è che c'è un buon numero di persone che a queste idiozie ci crede.

mercoledì 19 novembre 2014

ANCORA SU ISRAELE.





Le reazioni alla mattanza


Lo dico senza giri di parole. Molte dichiarazioni riguardo alla strage alla sinagoga di Gerusalemme grondano ipocrisia. La signora Mogherini, ad esempio, ha fatto seguire alla formale condanna per la mattanza la constatazione secondo cui simili episodi sono destinati a moltiplicarsi se non va avanti il “processo di pace”. Altri hanno parlato di “spirale dell'odio” o di “rabbia che cresce in Israele". E chi è responsabile se il “processo di pace” è bloccato? Chi della “rabbia” e della “spirale di odio”? Ma, è evidente: Israele! Insomma, gli israeliani se la sono cercata. Certo, fanno male i palestinesi a cedere alla “rabbia”, ma, bisogna capirli, poverini! Sarebbero pronti alla pace ed i malvagi israeliani gliela negano, volete che a qualcuno di loro non saltino i nervi?
Non mi interessa qui ripetere per l'ennesima volta che in realtà il vero responsabile del blocco del processo di pace è Hammas. E' Hammas che NON vuole riconoscere il diritto di Israele ad esistere e che parla di riconquista di tutte le terre che sono state islamiche. Se chi giustifica Hammas si prendesse la briga di leggere il suo programma avrebbe di che meditare. Ma, tralasciamo. Ammettiamo, per pura comodità di ragionamento, che gli Israeliani siano dei malvagi oppressori, questo spiega (non dico giustifica, spiega) atti come la mattanza alla sinagoga?
Gli ebrei hanno dovuto subire nel corso di due millenni innumerevoli persecuzioni, culminate in quella immensa tragedia che è stata l'olocausto. Si sono visti forse, dopo il 1945, ebrei farsi esplodere a Berlino? O ammazzare a casaccio, a colpi di mannaia, innocenti civili tedeschi?
Gli Istriani hanno dovuto subire il dramma delle Foibe, qualcuno di loro ha mai sparato alla cieca contro dei civili iugoslavi?
Il comunismo ha causato, ovunque nel mondo, milioni di vittime. Qualche sopravvissuto ai gulag è mai entrato nella sede di qualche partito comunista uccidendo chiunque incontrasse?
Sarà un caso ma solo il fondamentalismo islamico ha adottato ed applicato su larghissima scala la tecnica del massacro indiscriminato, dell'uccidere a casaccio il primo che passa. Ed è una tecnica che i nostri fratelli mettono in atto
non solo in Israele ma in tutto il mondo. Altro che “spirale dell'odio”, e “rabbia” causate dagli israeliani! La rabbia e l'odio sono il pane ed il companatico del fondamentalismo islamista, la base della sua cultura, i valori, no, i disvalori, che guidano le azioni dei suoi militanti. In Israele, ma anche in Europa, ed in America, ed in medio ed estremo oriente, ovunque. 

Un grosso equivoco

Molti occidentali che pure non amano il fondamentalismo islamico provano una certa simpatia per i palestinesi ed una simmetrica antipatia per gli israeliani. Una cosa sono l'Isis ed Al Qaeda, altra Hammas, sostengono. Per queste persone (mi riferisco a quelle in buona fede e pensanti, non agli imbecilli ed ai faziosi), per queste persone, ripeto, lo scontro fra israeliani e palestinesi sarebbe un normale conflitto nazionalistico. I palestinesi sarebbero stati privati dagli israeliani della loro patria, da qui il lunghissimo conflitto che oppone gli uni agli altri.
Non è il caso di ricordare ancora una volta i numerosi fatti storici che smentiscono l'affermazione secondo cui i palestinesi sarebbero stati privati dagli israeliani della loro “patria”: non è mai esistito uno stato palestinese,  gli insediamenti ebraici sono avvenuti nella forma di acquisto e non di rapina di terre, la risoluzione dell'ONU che sanciva la nascita di Israele sanciva anche la nascita di uno stato palestinese e così via. Mi permetto invece di proporre un piccolo esperimento mentale a chi, in buona fede, considera quello fra israeliani e palestinesi un normale conflitto nazionalistico.
Poniamo che Israele non sia mai nato, che non ci sia stata l'immigrazione ebraica in “Palestina”. Immaginiamo che le terre su cui attualmente sorge lo stato di Israele facciano parte della Siria o della Giordania. Non si tratta di una ipotesi campata in aria. Molti a suo tempo sostennero che quella che oggi molti chiamano “Palestina” dovesse diventare una regione della Siria. Ebbene, gli amici dei palestinesi pensano che in questo caso esisterebbe comunque un movimento palestinese di indipendenza nazionale? Che ci sarebbero richieste di separazione della Palestina dalla Siria o dalla Giordania? Mi permetto di dubitarne.
Si potrebbe obiettare che la mia è una ipotesi controfattuale, impossibile da dimostrarsi. Mi permetto allora di fare una piccola domanda: le terre su cui oggi sorge lo stato di Israele sono state per moltissimo tempo parte dell'impero ottomano. E' mai sorto un movimento nazionale palestinese che reclamasse la indipendenza della “Palestina” dall'impero ottomano? La risposta, stavolta niente affatto ipotetica, è
NO. Non solo, un movimento nazionale palestinese non è sorto neppure dopo la formazione dello stato di Israele. Lo stato di Israele nasce nel 1948, l'organizzazione per la liberazione della Palestina nel 1964, sedici anni dopo. Per moltissimo tempo lo scontro è stato non fra israeliani e palestinesi, ma fra Israele e stati arabi, cosa assai diversa.
Con questo non voglio dire che, se
oggi i palestinesi si sentono una nazione, non abbiano diritto ad un loro stato, ma deve essere uno stato che viva pacificamente al fianco e non al posto di Israele. Ma, proprio qui sta la difficoltà, praticamente insolubile. Da dove sorge questa difficoltà?  

Nazionalismo o fondamentalismo?

Non raccontiamoci palle. Israele è uno stato che ha le dimensioni più o meno della Lombardia, con circa sei milioni di abitanti. Sorge su un pezzo di terra desertica, priva di petrolio e ricchezze naturali. E' circondato da stati enormi e popolosi. Pensare che l'esistenza di un simile stato costituisca in quanto tale un problema che in 66 (
sessantasei) anni non è stato possibile risolvere è del tutto fuorviante. Se una cosa non manca in medio oriente questa è la terra; se davvero il conflitto che oppone israeliani e palestinesi fosse un normale conflitto nazionalistico lo si potrebbe risolvere, con un minimo di ragionevolezza e buona volontà. Lo spazio per dare una patria ai palestinesi lo si potrebbe trovare, se davvero questo fosse il problema. Ma non è questo il problema, quanto meno non è questo il problema fondamentale.
In realtà lo scontro fra israeliani e palestinesi è oggi soprattutto, se non esclusivamente, scontro fra occidente e fondamentalismo islamico. E' uno scontro religioso e, prima ancora, culturale. Per questo, non per il mancato riconoscimento del presunto stato palestinese, appare ad oggi insolubile. Hammas non vuole una patria per i palestinesi, meno ancora vuole uno stato palestinese che conviva con Israele, meno che mai vuole uno stato palestinese democratico, tollerante, che garantisca a tutte le fedi pari riconoscimento e pari libertà di culto. Hammas mira a sostituire Israele con un califfato islamico, uno stato in cui i non mussulmani sarebbero, nella migliore delle ipotesi, cittadini di serie B, o C. Se non si capisce questo non si capisce nulla, ma proprio nulla della crisi in medio oriente.  

La testardaggine degli israeliani.

Molti occidentali lo pensano, probabilmente, ma non lo dicono. Perché continuano a resistere questi israeliani? In fondo che vita è la loro? Sempre con l'incubo di razzi ed attentati. Accettino la vittoria dei loro nemici, sarà sempre meglio che questa guerra infinita.
Chi pensa queste cose dovrebbe immaginarsi cittadino di uno stato in cui le adultere vengono lapidate, le donne infibulate, apostati e bestemmiatori condannati a morte e tante altre belle cose. Ma, anche prescindendo da questi “dettagli” chi in occidente teorizza, senza parlarne troppo, la resa di Israele al fondamentalismo dimentica un paio di cosette, essenziali.
In primo luogo, gli israeliani hanno offeso, per il solo fatto di esistere, l'orgoglio dei fondamentalisti islamici. Israele è uno stato ebraico che sorge in una terra che i mussulmani avevano conquistato all'Islam, e questa è già per loro una provocazione enorme. Inoltre Israele ha sconfitto ripetutamente chi voleva cancellarlo dalla faccia della terra e questo è assolutamente intollerabile per i fondamentalisti di tutte le salse. Se Israele dovesse essere sconfitto l'odio dei suoi nemici diventerebbe, con tutta probabilità, irrefrenabile. Gli ingenui, in buona o cattiva fede, possono pensare che una volta riconosciuto lo stato palestinese ebrei e mussulmani potrebbero convivere pacificamente, volendosi tanti bene, anche se con gli ebrei ridotti a cittadini di serie B. Questa è solo una delle tante illusioni dei finti “buoni”. La sconfitta di Israele non creerebbe alcun tipo di “civile convivenza fra diversi”, come cianciano i “politicamente corretti”, ma darebbe il via ad un massacro, questo si, genocida. Gli israeliani queste cose le sanno benissimo, per questo combattono con una tenacia che a noi appare incredibile. A molti occidentali sembrano davvero esagerati, questi israeliani, ma loro hanno il pessimo difetto di preferire le condanne ipocrite dei finti pacifisti alle loro ipocrite condoglianze. E fanno bene.
Inoltre, chi pensa ad una resa di Israele non capisce che una simile resa avrebbe conseguenze mortali per l'occidente tutto. Se uno stato piccolo, ma forte e determinato come Israele fosse sconfitto vorrebbe dire che qualsiasi altro stato può essere sconfitto. Con le armi, o con la pressione demografica, o con l'immigrazione priva di limiti e controlli, o col ricatto di un terrorismo che renda impossibile a tutti qualsiasi forma di quieto vivere.
Resistendo al fondamentalismo Israele difende anche noi, che forse non ce lo meritiamo troppo, di essere difesi.


sabato 15 novembre 2014

TORSAPIENZA



Non occorrevano particolari doti divinatorie per prevedere episodi come quello di Torsapienza. E non ne occorrono per prevederne altri, magari brutti, inquinati sul serio da rigurgiti razzisti.
Cosa si aspettavano le anime belle di casa nostra? Speravano davvero che l'ingresso di decine, forse centinaia, di migliaia di clandestini in un paese già prostrato dalla crisi economica portasse un “pacifico ed arricchente dialogo fra diversi”? Una persona sana di mente poteva davvero pensare che la presenza nelle periferie delle grandi città di migliaia di persone prive di lavoro non si sarebbe trasformata in degrado, illegalità, violenza?

Eppure sembra che sia QUESTO il pensiero delle anime belle. Il sindaco diRoma Marino ha affermato, con faccia contrita, che “una cosa è l'accoglienza, altra cosa la violenza”. Poverino, neppure è sfiorato dal dubbio che fra “accoglienza” di un numero spropositato di clandestini e violenza ci possa essere un qualche nesso causale.
I commentatori televisivi dal canto loro cinguettano che il vero problema non sono i “migranti” ma “il degrado delle periferie”, come se l'ingresso massiccio di “migranti” nelle periferie non contribuisse al degrado. Certo, se ogni migrante fosse ospitato in un villino ed avesse garantito un reddito, diciamo, fra i 2.000 ed i 3.000 euro mensili il degrado sarebbe minore. Peccato che la ricchezza abbia il pessimo difetto di NON esistere in natura. Qualcuno la deve produrre...
Altri ancora, dopo avere, all'inizio, bollato gli abitanti di Torsapienza con l'epiteto di “razzisti”, hanno cambiato registro. “Gli abitanti di Torsapienza”, dicono, “vogliono che lo stato li protegga da tutti, italiani o stranieri, neri o bianchi che siano”. Il discorso non fa una piega, in astratto: chi delinque deve essere perseguito, indipendentemente dalla nazionalità o dal colore della pelle. Peccato che l'immigrazione incontrollata abbia trasformato certi quartieri in “terre di nessuno” in cui a delinquere sono, in maggioranza, i non italiani. E, cosa si dovrebbe fare, di grazia, per proteggere i cittadini? Piazzare un poliziotto in assetto di guerra ogni cento metri? L'azione delle forze dell'ordine è destinata a restare tragicamente insufficiente in situazioni di totale degrado, a meno che non si vogliano militarizzare intere aree urbane. Qualcosa non solo di estremamente costoso, ma di pericoloso per la democrazia e le libertà di tutti. Il punto è sempre lo stesso: occorre evitare il degrado, quanto meno ridurlo, invece nulla favorisce il degrado, l'illegalità e la violenza più della politica delle porte aperte.

Ci sono poi gli intellettuali “profondi” che dispensano dai media le loro lezioni di filosofia morale. Uno scrittore di cui non ricordo il nome, non credo però che sia un novello Dostoevskij, ha pontificato l'altra sera in un TG.
“A Torsapienza”, ha detto, “è in corso una guerra fra poveri, e le guerre fra poveri sono una cosa bruttissima. Non occorre guerra ma dialogo, comprensione l'uno delle ragioni dell'altro”.
Molto, molto commovente. Però, è proprio sicuro questo insigne scrittore che a Torsapienza siano tutti poveri? O che lo siano come i “migranti”? Si dice “guerra fra poveri” e subito si pensa a due disoccupati in lotta fra loro per accaparrarsi l'unico posto di lavoro disponibile, ma stanno così le cose nelle periferie degradate?
 

Ho vissuto in gioventù, quindi alcuni secoli fa, in un quartiere del centro storico di Genova, molto bello, ma “degradato”, anche se di un degrado assai diverso da quello che caratterizza oggi certe terre di nessuno urbane. Non ero ricco ma, tutto sommato, forse neppure particolarmente povero. Io lavoravo in banca, mia moglie in una grande azienda, avevamo due bambini piccoli. Ciò che ci rendeva la vita impossibile non era la lotta con altri poveri per il lavoro o qualche sovvenzione statale. Erano branchi di ragazzotti che giravano fino a notte tarda sotto le finestre di casa nostra con rumorosissime moto da cross, bar da cui salivano in continuazione urla e musica a tutto volume, il non poter parcheggiare, la sera, l'auto vicino a casa per il timore di trovartela sfasciata la mattina dopo, o non trovartela affatto, il clima di violenza diffusa che respiravi ovunque.
Una volta ho affrontato un gruppo di ragazzotti che facevano casino sotto casa nostra più o meno all'una di notte. “Se non ve ne andate”, ho detto loro, “vi caccio io a calci”. “E io conosco uno che domani ti pianta un coltello nella pancia” ha risposto uno dei teppistelli. Lo confesso, non mi aspettavo una simile reazione e non ho saputo come reagire. Ancora qualche reciproca minaccia, poi li ho mandati a fan... e son tornato a casa. I teppistelli dopo un po' hanno tolto il disturbo. Non troppo tempo dopo abbiamo abbandonato quel quartiere, e la città. Amavamo Genova, ad anche il bel quartiere in cui avevamo vissuto, ma abbiamo preferito acquistare una casa fuori città. Tutto questo con la “guerra fra poveri” non c'entra nulla, assolutamente nulla.
La triste realtà è che certi quartieri erano, fino a un po' di tempo fa, più o meno vivibili. Dopo che sono diventati zone di insediamento per “migranti” sono diventati invivibili. Questo le anime belle non lo capiscono, o non lo vogliono capire. Anche perché vivono,
LORO, in quartieri ben diversi, lontani da ogni degrado.

domenica 9 novembre 2014

IL CROLLO DEL MURO




Venticinque anni fa crollava il muro di Berlino. E con quel muro crollava il comunismo. Il comunismo. Doveva segnare, per dirla con Marx, il salto dal regno della necessità a quello della libertà, la conciliazione dell'uomo con se stesso e con la natura non umana. Una comunità armonica, priva di contrasti, doveva subentrare all'egoismo atomistico della società borghese; l'economia razionalmente pianificata doveva prendere il posto della anarchica economia di mercato, e la vecchia, formalistica, democrazia borghese sarebbe stata soppiantata da nuove forme di partecipazione democratica “dal basso”. Utopie. Ma non utopie ingenuamente buone, utopie assassine. Si, assassine, perché quelle utopie, per realizzarsi, richiedevano una trasformazione radicale della natura umana, una trasfigurazione violenta dell'uomo e della società che dovevano adattarsi al modello ideale sognato dai dogmatici.
Così le nuove forme di democrazia si sono identificate col potere assoluto del partito prima e di un singolo tiranno poi. L'economia pianificata si è dimostrata del tutto inefficiente ed improduttiva. Il “potere dei lavoratori” si è realizzato nella forma del loro totale asservimento allo stato onnipotente.
Il comunismo è potuto sopravvivere solo sottoponendo la società tutta ad una dittatura totalitaria quasi senza precedenti nella storia. Ed è bastato che in quel sistema si insinuasse un minimo di libertà per farlo implodere miseramente. Il muro di Berlino è crollato quando le autorità della Germania est hanno concesso una limitatissima possibilità di movimento verso Berlino ovest. Folle enormi si sono allora riversate verso l'inferno capitalista, dominato dal “Dio denaro”. E della “società perfetta” non sono rimaste che macerie.

Però, per molti, specie da noi in Italia, il crollo del muro di Berlino non ha coinciso con il crollo del comunismo. No, col crollo del muro di Berlino il comunismo è stato “dimenticato”, addirittura cancellato dalla storia. Prima il comunismo era il futuro, il paradiso prossimo venturo che avrebbe sostituito l'anarchica economia di mercato. Dopo il suo crollo il comunismo è stato cancellato dal passato. Il comunismo non è mai esistito. Col crollo del muro di Berlino gli ex ed i post comunisti, ed i loro amici, hanno cercato di imporre a tutti un assordante, orwelliano, silenzio su quella che è stata una delle esperienze più traumatiche della storia.
Oggi, se qualcuno parla di comunismo subito i suoi interlocutori accennano ad irridenti sorrisini. “Parli di comunismo?” cinguettano, “ma, guarda che il muro di Berlino non esiste più...”. Gli stessi che per decenni lo hanno difeso ed esaltato, quel muro, non ne vogliono più sentir parlare, sono diventati “allergici al comunismo”.
Ma non sono diventati allergici al comunismo perché hanno gettato quella ideologia e quella esperienza nella “pattumiera della storia”. No, purtroppo. Continuano considerare l'economia di mercato una sorta di inferno ed il profitto una specie di furto, e guardano ancora con occhi commossi il ritratto di Che Guevara. Il crollo del comunismo toglie ai suoi attuali nostalgici la fastidiosa incombenza di fare i conti con l'esperienza. Non esiste un comunismo “reale” con cui fare i conti, una società concreta da paragonare a quella borghese occidentale oggetto di tante critiche e condanne. Tanto meglio!
Veramente qualche stato comunista ancora esiste, ma, si tratta di esperienze “anomale”. Della Corea del nord si sa tanto poco (come mai?). La Cina? Criticabile, ma è... “capitalista”. E Cuba? Si, non se la passa bene, ma la colpa è tutta del “blocco americano”. Chi cancella oltre settanta anni di storia può benissimo prescindere da qualche pezzo di carta geografica.

Il comunismo è oggetto di una colossale rimozione freudiana. Ed anche il linguaggio usato dai media avalla questa rimozione. Per gli annunciatori televisivi il crollo del muro di Berlino non segna la fine del comunismo, ma quella della guerra fredda. Col crollo del muro finisce la divisione del mondo in blocchi contrapposti, ci dicono. Prima eravamo tutti cattivi, litigavamo. Poi è crollato il muro di Berlino e questo brutto litigio è finito. E ora, tutti insieme, possiamo guardare avanti.
No, le cose non stanno così. E' vero, col crollo del muro finisce la guerra fredda, ma finisce perché uno degli antagonisti esce di scena. Con la battaglia di Berlino (ancora Berlino!) nel 1945 termina la guerra in Europa, ma la fine della guerra è, insieme, il crollo del nazismo. Con il crollo del muro di Berlino nel 1989 termina la guerra fredda, ma la fine della guerra fredda è, insieme, il crollo del comunismo. Piaccia o non piaccia la cosa, nel 1989 l'occidente vince la guerra fredda.
Dire simili cose è “brutto”, sa tanto di “arroganza”. Chi le dice rischia di apparire un “guerrafondaio”. Gli occidentali politicamente corretti non amano parlare di guerre, neppure fredde, e meno ancora di vincitori e di sconfitti. Meno che mai amano parlarne in un momento come questo, in cui un nuovo conflitto si profila, anche se nessuno vuole prenderne atto: quello fra occidente e fondamentalismo islamista.
E così anche la commemorazione del crollo del muro di Berlino rischia di diventare una occasione, una delle tante, per l'ennesima retorica buonista e pacifista. E per l'ennesima mistificazione della storia.
Per fortuna nelle menti e nei cuori delle popolazione dell'Europa dell'est è ben vivo il ricordo del “comunismo realizzato”. Ed un forte sentimento di avversione per il totalitarismo comunista è ben presente anche in gran parte dei popoli dell'Europa occidentale. Un ottimo presidio contro tutti i tentativi di rimozione e di mistificazione.