venerdì 24 febbraio 2017

CLANDESTINI O RICHIEDENTI ASILO?

Sto viaggiando in treno, comodamente seduto in una vettura di prima classe. Si avvicina il controllore. “Biglietto prego” mi chiede educatamente.
“Non ho biglietto” rispondo.
“Ma, in questo caso lei sta viaggiando clandestinamente, la devo multare”.
“No, perchè io sto viaggiando per sfuggire a guerre e persecuzioni” replico io. “Ho richiesto asilo”.
“Lei avrà anche richiesto asilo” risponde il controllore, “ma non ha il biglietto. Quindi è un clandestino ed io la devo multare”.
“Lei dice che sono clandestino? Questa è una offesa gravissima, un insulto alla mia dignità” rispondo a mia volta. “Io la denuncio”.
La cosa finisce in tribunale ed il giudice da ragione a me e torto al controllore. L'onesto lavoratore mi dovrà pagare 10.000 euro di indennizzo per le offese che ha arrecato alla mia “dignità”.

Basta che qualcuno “richieda asilo” e può fare letteralmente quello che vuole, questo è il succo della storiella. Un “migrante” può entrare clandestinamente nel nostro paese. Può non avere lo straccio di un documento, essere privo di passaporto, carta di identità, patente o qualsiasi altro documento. Può rifiutarsi di declinare le proprie generalità, non dire chi è e da dove viene, non volere che gli vengano prese le impronte digitali, non fa nulla. Egli ha richiesto asilo quindi non è un clandestino ma un “richiedente asilo”.
A voler essere precisi un migrante irregolare ”richiedente asilo” è un clandestino che ha richiesto asilo. Se la sua richiesta sarà accettata cesserà di essere “clandestino” e diventerà “profugo”. Se sarà respinta sarà solo un clandestino da rimpatriare con la massima urgenza.
Ma i fautori del politicamente corretto la pensano diversamente, lo dimostra il caso della lega multata di 10.000 euro per aver definito “clandestini” i clandestini. Per questi signori chiedere asilo mette il richiedente in una sorta di isola dorata in cui non valgono le leggi ed i regolamenti che valgono invece per i comuni mortali. Non solo, questa richiesta da diritto ad essere mantenuti a spese dei cretini che lavorano e pagano le tasse. Meglio di così è davvero impossibile!

La vicenda dei clandestini che è obbligatorio chiamare “richiedenti asilo” mi fa venire in mente gli anni di piombo. Qualcuno lo ricorda? I brigatisti catturati si dichiaravano “prigionieri politici”. Se allora si fosse ragionato come oggi non sarebbe stato possibile definire i brigatisti “terroristi” o peggio. Loro si sono dichiarati “prigionieri politici” quindi definirli “terroristi” è un insulto alla loro dignità, avrebbe potuto dire qualcuno.
Per fortuna allora il politicamente corretto non era diffuso come oggi, se no chi definiva “terrorista” una persona come Curcio sarebbe stata condannata a risarcire il brigatista con un bel po' di soldi per avere offeso la sua dignità.
Gli anni in cui il terrorismo impazzava nel nostro paese sono stati definiti “di piombo”. Come definire quelli che stiamo vivendo? Forse va bene “anni della follia e dell'ipocrisia”, meglio ancora, “anni dell'agonia dell'occidente”.

lunedì 20 febbraio 2017

ORLANDO FIGES: LA TRAGEDIA DI UN POPOLO.



























Finora nessuno sembra essersene accorto, ma in Russia cento anni fa, proprio in questi giorni, scoppiava la rivoluzione di febbraio ed iniziava quella crisi che si doveva concludere, nell'ottobre del 1917, con la rivoluzione, meglio sarebbe dire il golpe, dell'ottobre.
Ottima occasione per leggere il libro di Orlando Figes “La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891 1924”. Oscar Mondadori 2016.
Un libro semplicemente fantastico. Quasi mille pagine che si leggono, letteralmente, tutte d'un fiato. La rivoluzione russa è vista nelle sue origini storiche. La narrazione inizia dal 1891, anno in cui una terribile carestia provocò una grave frattura fra l'autocrazia zarista ed il suo popolo, e prosegue fino al 1924, quando il regime postrivoluzionario si è ormai consolidato e Stalin sta dando la scalata al potere personale assoluto.

Figes individua le origini del dramma nella struttura sociale della Russia zarista. Una monarchia incapace di autoriforma, una oligarchia terriera sorda, almeno nella sua gran maggioranza, alle istanze riformiste, una intellighenzia borghese troppo debole ed una classe operaia in cui il riformismo non aveva messo radici costituiscono lo sfondo sociale in cui matura la presa del potere da parte dei bolscevichi. Figes analizza col massimo scrupolo questa struttura, la crisi dell'impero scosso da sempre rinnovate richieste di autonomia ed indipendenza da parte delle nazionalità oppresse, la debolezza delle sue colonne portanti: la grande proprietà terriera, l'esercito, la Chiesa. Ma non c'è nella narrazione di Figes alcun determinismo socio economico. Lo storico inglese alterna infatti l'analisi socio economica con mirabili pagine dedicate alla psicologia delle masse operaie e, soprattutto, contadine, ed alle idee politiche embrionali in queste presenti.
E dedica anche pagine molto belle allo studio dei protagonisti individuali del dramma. Lo zar Nicola, legato ideologicamente all'ideale autocratico ma incapace di metterlo davvero in pratica. La zarina Aleksandra, fanatica sostenitrice dell'autocrazia, la figura spregevole di Rasputin, Stolypin, il riformatore arrivato troppo tardi. E poi i protagonisti della rivoluzione. Il principe L'Vov, ottima persona ma troppo debole per far fronte ad una situazione disperata, l'insulso Kerenskij, Kornilov ed i generali bianchi, Trotzki, grandissimo oratore ed ottimo organizzatore, ma inguaribilmente dottrinario e, sopra tutti, il capo: Lenin.
Figes non prende troppo sul serio le teorie leniniste dello stato o dell'imperialismo, dedica anzi a queste pochi accenni. Concentra invece la sua analisi sulla teoria leninista del partito. Ad essere del tutto centrale in Lenin è l'esigenza del potere. Dotato di una intelligenza politica di prim'ordine e di una straordinaria capacità di “cogliere l'attimo” il dirigente bolscevico capisce che il paese sta attraversando una crisi tale da consentirgli il “colpaccio”. Ingaggia una lotta politica durissima nel suo partito, contrario a tentare il tutto per tutto e disposto ad appoggiare il governo provvisorio, la vince ed inizia una avventura che si concluderà nel 1989, lasciandosi alle spalle decine di milioni di morti.
Proprio le pagine splendide che Figes dedica ai giorni dell'ottobre dimostrano che, se erano presenti nella storia della Russia le premesse sociali e culturali del dramma, questo non era inevitabile. Senza Lenin la rivoluzione d'Ottobre non ci sarebbe stata, e tutta la storia successiva avrebbe preso un corso diverso afferma chiaramente Figes, ed è impossibile dargli torto.

E' davvero impossibile riassumere un libro come “La tragedia di un popolo”, o anche solo evidenziarne i punti più interessanti. Mi limito qui a ricordare come la narrazione del Figes confuti molte inesattezze che si sono dette e si dicono sulla rivoluzione d'ottobre. La prima riguarda il carattere “sovietico” del golpe dell'ottobre. In realtà quel golpe fu fatto contro i soviet. Lenin ingaggiò e vinse uno scontro molto aspro nel suo partito, soprattutto contro Kamenev, sul problema di quando tentare il colpaccio. Kamenev avrebbe voluto che fosse il congresso panrusso dei soviet a lanciare la parola d'ordine della insurrezione. In questo modo la rivoluzione avrebbe dato vita ad un governo di tutti i partiti rappresentati nel soviet: i bolscevichi certo, ma anche i menscevichi ed i socialisti rivoluzionari, sia di destra che di sinistra. Per lo stesso motivo Lenin impose che il golpe si facesse prima del congresso. Lo voleva mettere di fronte al fatto compito per poter formare un governo dominato dai bolscevichi. Così fu ed i soviet in poco tempo persero ogni rilevanza.
Nel suo libro Figes confuta anche la tesi, sostenuta da storici peraltro ottimi come Roj Medvedev, secondo cui il comunismo di guerra, con la militarizzazione del lavoro e la politica delle requisizioni dei raccolti ai contadini, fu una scelta puramente empirica imposta ai bolscevichi dalla situazione difficilissima del paese. La politica che meglio esprimeva gli ideali bolscevichi sarebbe stata, per questi storici, quella successiva della NEP. E' vero esattamente il contrario. La situazione era diventata disperata proprio in conseguenza della politica delle requisizioni che avevano scatenato una autentica guerra contadina contro i bolscevichi. Questi si decisero, dopo un anno di lotte sanguinosissime, a scegliere la NEP perché non potevano fare altro. Ad essere imposta dalle circostanze fu la NEP, non il comunismo di guerra.

E' inutile continuare nelle esemplificazioni: la materia trattata nel libro è davvero troppo vasta. Prima di concludere mi permetto di avanzare all'opera di Figes una critica. Mi sembra che ne “la tragedia di un popolo” restino un po' in ombra le lotte, anche dottrinarie, interne al partito bolscevico. Con due rilevanti eccezioni. La prima la si è già vista: lo scontro precedente il golpe dell'ottobre. La seconda: la pace di Brest Litovsk. Figes espone sin nei minimi dettagli il dibattito durissimo che oppose in quella occasione Lenin a Trotzki ed entrambi a Bukarin. Le altre lotte interne al partito di Lenin sono invece lasciate un po' in ombra. Si tratta probabilmente di una scelta dell'autore che preferisce concentrarsi sui grandi eventi di massa che precedettero e seguirono la rivoluzione. La scelta è condivisibile ed appare in netto contrasto con quella operata da altri storici nelle cui narrazioni il dramma rivoluzionario resta praticamente confinato dentro il partito di Lenin; però, a mio modesto parere, un po' di maggior attenzione alla dialettica interna a quel partito forse non avrebbe guastato.
La tragedia di un popolo” è comunque un grande libro, oserei definirlo un capolvoro. Un'opera nettamente superiore, a mio avviso, ad altre che trattano lo stesso tema, ad esempio alla troppo esaltata “storia della rivoluzione russa” del Carr. Leggerlo è un ottimo modo di ricordare gli eventi che, cento anni fa, cambiarono radicalmente la faccia del mondo.
Ne consiglio vivamente la lettura, a tutte e a tutti.

domenica 19 febbraio 2017

SCISSIONI

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Non so come finirà lo psicodramma in atto nel PD. Francamente non mi interessa più di tanto. Però un paio di cose val la pena di dirle, telegraficamente.
Tempo fa una parte consistente di forza Italia ha abbandonato il cavaliere per andare a sostenere Renzi. Non c'è stata in quella occasione una mobilitazione dei media neppure in minima parte paragonabile al can can che si è montato intorno alle vicende interne del PD. Una prova ulteriore dell'asservimento dei media al pensiero unico dominante. La sinistra è l'unica realtà rispettabile, quindi una scissione al suo interno ha un valore che altre scissioni non hanno, è una scissione interna al campo del bene quindi tutti si mobilitano per seguirla, commentarla, magari esorcizzarla. Segno dei tempi.
In realtà le scissioni, come le unificazioni, fanno parte della vita politica, sono in qualche modo un fatto normale, spiacevole ma fisiologico.

La scissione del PD si sta invece caricando di significati universali.
Se ci fosse sarebbe un dramma, una catastrofe cosmica, una svolta negativa della storia. Non si sa se siano più fastidiosi o patetici i continui richiami all'unità che tutti hanno fatto o stanno facendo.
Perché hanno tanto paura delle scissioni? Non sono una cosa bella, ovviamente, ma tutto sommato meglio dividersi che vivere da separati in casa. Questo invece avviene ormai da anni nel PD: componenti contrapposte vivono da separate in casa litigando ferocemente su tutto.
E' singolare la storia della sinistra. Una storia di scissioni ma anche di esorcizzazione delle scissioni.
La sinistra marxista ha il mito della unità. Per Marx la storia parte da una unità originaria che si rompe, ma è destinata a ricomporsi il giorno della palingenesi comunista. Ma questa unità la si conquista con la lotta e fa parte della lotta dividere i nemici. Da qui la continua ricerca e, nel contempo, la continua demonizzazione, delle scissioni che Lenin poterà a livelli parossisitici.
In effetti Lenin è anche in questo un personaggio esemplare. Ha passato la vita ad organizzare scissioni e, nel contempo, ad esaltare come valore massimo l'unità del suo partito. La scissione per lui era un valore quando altri la subivano, il peccato sommo quando minacciava il partito bolscevico. Nulla di strano in fondo. Tutti i  fanatici religiosi, compresi i fedeli delle religioni mondane, bollano con parole, e non solo con parole, di fuoco gli scismi in casa loro mentre ne organizzano di continuo in casa d'altri.

Il PD di oggi non è di certo il partito bolscevico di Lenin, e ormai non ha molti legami col marxismo. Detto sinceramente, vista la povertà culturale che lo caratterizza, sarebbe meglio se qualche suo dirigente le sapesse usare, le categorie marxiane.
Niente Marx e niente Lenin nel PD qundi. Però... però questo partito ha mantenuto la vecchia convinzione comunista di essere il partito degli eletti, il depositario del bene. Un partito sede dell'etica, garante del progresso. Una formazione che si colloca in un piano diverso, e più alto, rispetto alle altre.
Ecco perché, nel momento stesso in cui il suo governo si regge grazie ai voti dei fuorusciti da Forza Italia, il PD presenta la scissione in casa sua come una sorta di atto demoniaco. Non un fatto politico spiacevole ma normale, ma una sorta di disastro etico, una tragedia storica di immane portata.
E dire che i disastri e le tragedie sono ben dentro LA STORIA di una componente almeno del PD. Un disastro che è costato al genere umano decine di milioni di cadaveri.
Altro che le stronzate di Bersani e D'Alema, Rossi, Emiliano e Speranza!

giovedì 9 febbraio 2017

ORGANI DI GARANZIA

Per la seconda volta i giudici americani hanno dato torto a Donald Trump sulla questione del famoso decreto immigrazione. La partita resta aperta, ovviamente, l'ultima parola spetterà alla Corte Suprema.
Le persone ragionevoli, invece di gioire o di piangere, dovrebbero porsi qualche domanda sugli organi di garanzia.
In una democrazia liberale devono esistere gli organi di garanzia. Ma quali devono essere i limiti alla loro azione? Ha senso che su un problema importante come la sicurezza di un paese da sempre nel mirino dei terroristi possano decidere TRE persone, non elette da nessuno? Senza organi di garanzia la democrazia liberale può trasformarsi in tirannia della maggioranza, ma se questi organi diventano onnipotenti la stessa democrazia può degenerare in tirannia della minoranza. Un brutto dilemma.
E non si tratta di possibilità teoriche. Per ciò che riguarda gli Stati Uniti, vedremo cosa deciderà la corte suprema. Di certo anche lì la partita è politica prima che giuridica, come dimostrano le polemiche seguite alla designazione di un posto vacante, forse decisivo. In Gran Bretagna una sentenza della suprema corte avrebbe potuto annullare il risultato di un referendum popolare, solo la maturità democratica dei parlamentari inglesi ha evitato questo obbrobrio. In Italia le sentenze della Corte Costituzionale sono assai spesso puramente e semplicemente politiche.
Che la politica di Trump dovesse trovare molti ostacoli sulla sua strada era scontato, ci sarebbe stato da stupirsi del contrario. Altri ne troverà, anche su questioni ben più rilevanti del famoso decreto immigrazione. Intanto I nemici del “lupo cattivo” gioiscono. Beh... gioiscano pure. Da tempo ormai possono gioire solo per le sentenze della magistratura. Nella loro presunzione grondante stupidità non capiscono che quello che si è messo in moto è un processo che non può essere bloccato da qualche sentenza. Ci vorrebbe la capacità di opporre al “trumpismo” quale che sia il giudizio che se ne può dare, una alternativa diversa dalla noiosa ripetizione di slogan triti e ritriti. Ma pretendere una cosa simile da certi personaggi è davvero troppo.

mercoledì 8 febbraio 2017

TRIBU'

Le banlieu parigine sono di nuovo in rivolta. Non so se i poliziotti accusati di violenza siano davvero colpevoli. Certamente, se quello che si dice risultasse vero il loro comportamento sarebbe da condannare nella maniera più netta, senza se e senza ma. Questa però è solo una parte, una piccola parte, del problema.
Capita ovunque che ci siano incidenti fra comuni cittadini e forze dell'ordine, e non sempre il comportamento di queste ultime è, come suol dirsi, “al di sopra di ogni sospetto”. Quando cose simili accadono nascono polemiche roventi, si discute animatamente, si litiga, e volte si manifesta. Ma non ci sono rivolte. Non c'è una parte della popolazione che si sente collettivamente coinvolta nella aggressione che un giovane ha subito, sia questa vera o presunta, giustificata o ingiustificata.
A Parigi, come in altre città europee, come negli Stati Uniti accede invece precisamente questo. Una certa etnia, gli abitanti di certi quartieri reagiscono come un soggetto collettivo di fronte ad alcuni comportamenti della polizia. Un giovane viene ucciso da un poliziotto. Gli agenti dicono che stava rapinando una banca e che era armato. I parenti del giovane lo negano. Nessuno cerca di appurare i fatti, nessuno considera un simile evento qualcosa che riguarda in primo luogo alcuni singoli: il singolo giovane, i singoli poliziotti. No, ad essere coinvolto è un NOI collettivo. Quel giovane era uno di noi, gli altri, uno o alcuni dei loro, lo hanno ucciso e noi scendiamo in piazza. Bruciamo auto, spacchiamo vetrine, impediamo il normale svolgimento della vita sociale. Il giovane ucciso poteva essere un pericoloso rapinatore o un pacifico studente, ha poca importanza. Era uno della nostra etnia, condivideva la nostra fede, viveva nei nostri quartieri quindi “loro” non lo devono toccare. Punto.
Diciamolo chiaramente, una volta per tutte: nel decadente occidente di oggi l'ottica della tribù sta gradualmente prendendo il posto dell'ottica della cittadinanza. La immigrazione incontrollata ed il diffondersi dell'Islam, più o meno radicale, stanno trasformando la società in un aggregato di tribù l'un contro l'altra armate, prive di legami fra loro che non siano la reciproca ostilità, se non peggio.
Il giovane abitante delle banlieu non si sente in primo luogo cittadino francese: un singolo con la sua insopprimibile unicità, ma legato in qualche modo ad altri singoli che, come lui, sono cittadini francesi. No, questo giovane si sente in primo luogo abitante di quel certo quartiere, parte di una sottosocietà tribale che si contrappone al resto della società: a coloro che hanno la pelle di un colore diverso, che adorano un altro Dio, o non ne adorano nessuno, che vivono in quartieri “più belli”.

Altro che “integrazione”! Quello che è sotto i nostri occhi è il suo opposto: la disgregazione delle società occidentali.
Non era difficile prevederlo, in fondo. Solo degli illusi o dei cretini potevano seriamente pensare che si possano spalancare le porte di casa a masse enorme di esseri umani che vengono da culture del tutto diverse dalla nostra conservando nel contempo un minimo di coesione sociale.
La politica demenziale dei politicamente corretti ha fatto il resto.
Se si vuole favorire l'integrazione occorre mettere al primo posto i diritti ed i doveri delle persone, garantendo diritti, opportunità, occasioni di avanzamento sociale a tutti, indipendentemente dal gruppo, o tribù, di appartenenza.
A partire dagli Stati Uniti i teorici del politicamente corretto hanno fatto precisamente l'opposto. Hanno sostituito in maniera sempre più massiccia i diritti delle persone con i diritti dei gruppi. Sei nero? Quindi hai diritto ad un certo numero di posti all'università. Quel quartier è islamico? Quindi è meglio se non viene pattugliato da donne poliziotto, e se proprio deve esserlo, che le poliziotte mettano il velo! Si parla sempre più spesso di legalizzazione di poligamia ed infibulazione, di fatto già tacitamente accettate. Chissà, forse domani vedremo, in qualche città europea o americana, qualche bella lapidazione o fustigazione di donne adultere, in nome dei diritti collettivi concessi non agli esseri umani ma alle tribù.
Di certo gli angioletti della indiscriminata accoglienza non condividono queste preoccupazioni. Per loro la soluzione è lì, a portata d mano. Rendiamo più belle le banlieu e tutto si aggiusterà, cinguettano. Apriamo un cinema qui, un campo di calcetto là e tutti vivremo felici e contenti, in una bella, dolcissima, società multicolore!
Hanno davvero una scarsa considerazione degli abitanti delle banlieu questi angelici riformatori! Non li considerano essere umani con una cultura, tradizioni, forma mentis. Pensano che basti una sala giochi per “integrarli”.
Non vorrei offendere nessuno, ma la verità va detta una volto tanto. La loro (degli angioletti riformatori non degli abitanti delle banlieu) idiozia è davvero sconfinata.

mercoledì 1 febbraio 2017

AMERICA SEMPRE ACCOGLIENTE?

Fra le tante, numerosissime, palle che i media di regime ci propinano tutti i santi giorni una è particolarmente clamorosa. Il famoso decreto di Trump, si dice, avrebbe interrotto brutalmente la secolare politica di accoglienza che caratterizza gli Stai Uniti d'America. L'America sarebbe sempre stato un paese super accogliente, avrebbe sempre aperto le porte a tutti, senza restrizione alcuna. Poi è arrivato il lupo cattivo, razzista ed islamofobo, e ha vietato l'ingresso negli Stati Uniti a tanti pacifici ed amichevoli musulmani. Che orrore!
Le cose però stanno in maniera leggermente diversa.
E' vero, gli Stati Uniti hanno spesso e volentieri favorito l'immigrazione. Lo hanno fatto per il semplicissimo motivo che sono un vastissimo paese di immigrati, spesso bisognoso di forza lavoro. Questo però non vuol dire che abbiano
sempre lasciate spalancate le porte di casa, al contrario.
Fino al 1875 negli USA non ci furono leggi che limitavano l'immigrazione, a partire da quell'anno vennero varati provvedimenti miranti a regolamentare i flussi migratori. E, attenzione, alcuni di questi provvedimenti discriminavano gli immigrati in base al
paese di provenienza. Nel 1882 venne varata una legge che di fatto chiudeva le porte del paese alla mano d'opera cinese, con esclusione dei lavoratori particolarmente qualificati. Il motivo è semplice: negli Stati Uniti c'era all'epoca una forte disoccupazione e i cinesi si accontentavano di salari estremamente bassi sottoponendo la mano d'opera locale ad una concorrenza insostenibile.
Nel corso della seconda guerra mondiale circa 110.000 giapponesi che vivevano negli Stati Uniti, compresi coloro che avevano la cittadinanza americana ed erano quindi americani a tutti gli effetti, furono internati. A quei tempi era presidente degli USA
Franklin Delano Roosvelt, autentica icona dei liberal. Sempre nel corso del secondo conflitto mondiale era assolutamente impossibile per i tedeschi entrare negli Stati Uniti. Fu impossibile farlo anche a numerosi ebrei tedeschi, loro si autentici profughi in fuga dalle persecuzioni.
Nel corso della guerra fredda l'ingresso negli Stati Uniti fu vietato ai
comunisti, come ben si sa. Era impossibile ai comunisti anche assumere la cittadinanza americana. Nessun presidente, compresa l'altra icona liberal: John Fitzgerald Kennedy, modificò le cose. Solo nel 1993 la corte suprema giudicò parzialmente incostituzionale la legge che istituiva simili proibizioni che vennero quindi superate. Si potrebbe continuare, ma penso possa bastare.

Non voglio dilungarmi nel merito di queste misure. Sarebbe fin troppo facile concludere, come qualcuno di certo farà, che tutto questo dimostra la natura irrimediabilmente autoritaria degli Stati Uniti d'America. In realtà tutti gli stati, compresi quelli democratici, hanno adottato, in momenti diversi della loro storia, provvedimenti di questo tipo, che vanno giudicati in maniera differenziata, inserendo ognuno nel proprio contesto.
Sottoporre i giapponesi ad internamento nel corso del secondo conflitto mondiale è stata di certo una misura esagerata ed ingiusta, ma è difficile sostenere che non ci fosse alcun motivo di sospetto nei confronti della comunità nippo americana. Respingere gli ebrei tedeschi è stato criminale, del tutto normale invece bloccare altri, improbabili, immigrati tedeschi. Quanto ai comunisti, escluderli dalla possibilità di entrare negli USA ed anche di ottenere la cittadinanza è stato profondamente illiberale, ma come dimenticare che in almeno tre occasioni (blocco di Berlino, guerra di Corea e crisi dei missili a Cuba) la guerra fredda fra USA e URSS fu ad un passo dal trasformarsi in guerra nucleare?
Se poi confrontiamo gli stati democratici con altri, spesso molto amati da chi contesta gli Stati Uniti, anche le misure più discutibili prese da questi ci appaiono come per incanto super garantiste e liberali. Da paesi come l'URSS e la Cina di Mao era difficilissimo entrare e quasi impossibile
uscire. La Corea del Nord è oggi una sorta di grande carcere, nel senso letterale del termine; agli israeliani, o anche a chi abbia solo visitato Israele, è negato l'ingresso in moltissimi paesi arabi. Per questo non marciano però i baldi contestatori del presidente Trump.
Non intendo proseguire nelle considerazioni polemiche. Mi interessa solo sottolineare  tre cose.

 Primo. Gli stati democratici hanno tutto il diritto di tutelare la propria sicurezza anche controllando in maniera differenziata i flussi migratori. Possono sbagliare nel farlo, mettere in atto misure inutili, inadeguate o francamente ingiuste, ma è semplicemente ridicolo opporre a queste misure l'astratto richiamo ai sacri principi, del tutto avulso da ogni valutazione sulla realtà concreta in cui questi operano. E' giusto poter viaggiare, entrare in paesi stranieri, ma è altrettanto giusto che questi si tutelino adeguatamente da possibili nemici. E, se dai viaggi e turismo passiamo alle emigrazioni per lavoro, è assolutamente normale che gli stati decidano quanti e quali immigrati possono accettare e che, in linea di massima, preferiscano fare entrare persone loro vicine piuttosto che appartenenti a  culture ostili. 
Secondo. In un momento come l'attuale, caratterizzato dalla aggressione planetaria dell'integralismo islamico all'occidente e da guerre civili infinite interne all'Islam, l'esigenza di tutelare le proprie frontiere è più viva che mai. 
Terzo. La leggenda di una America sempre accogliente, aperta a tutti, tollerante con tutti, senza eccezione alcuna e rovinata oggi da quel lupo cattivo che sarebbe Trump, è, appunto, una leggenda, meglio, una PALLA propagandistica che i pennivendoli dei TG di regime continuano a raccontarci tutti i giorni.
E tanto basta.