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domenica 8 novembre 2015

"SULLA DISUGUAGLIANZA" di Harry G. Frankfurt

Sulla disuguaglianza

“L'uguaglianza economica non è di per se moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in se moralmente riprovevole” (1) Questa la tesi di fondo sostenuta dal filosofo americano Harry G. Frankfurt ne “Sulla disuguaglianza”, Ugo Guanda editore.
Ciò che è importante non è che tutti abbiano la stessa quantità di denaro ma che ciascuno ne abbia abbastanza per condurre una buona vita: “non è importante che tutti abbiano lo stesso ma che ciascuno abbia abbastanza” (2), prosegue Frankfurt. Questa concezione, alternativa all'egualitarismo è chiamata da Frankfurt “dottrina della sufficienza”.

Con un argomentare sorretto da una logica tagliente e rigorosa Frankfurt confuta tutti gli argomenti a favore dell'egualitarismo mostrando che si basano, nella migliore delle ipotesi, su banali equivoci.
Sembra ad esempio che l'uguaglianza sia intuitivamente cosa buona. Ogni persona dotata di normali sentimenti umanitari non può che sentirsi profondamente a disagio di fronte allo spettacolo della estrema povertà in cui versano tanti esseri umani. Ma, siamo sicuri che sia proprio la disuguaglianza ciò che ci turba in casi simili? Frankfurt lo nega. Ciò che turba intuitivamente nello spettacolo della miseria non è tanto la disuguaglianza quanto la miseria stessa. E' il fatto che ci siano persone che muoiono di fame ad apparirci intollerabile, non il fatto che i loro redditi non siano uguali a quelli di chi è più fortunato di loro. L'uguaglianza in fondo potrebbe essere assicurata “stabilendo che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà.” (3). Una simile situazione apparirebbe intuitivamente alla gran maggioranza egli esseri umani come deplorevole, anche se fondata sul più rigoroso ugualitarismo. Ad essere inaccettabile nello spettacolo della povertà non è tanto la violazione del principio egualitario quanto quella del principio di sufficienza. Ma il principio egualitario e quello di sufficienza sono logicamente indipendenti. Ciò che può essere sostenuto a sostegno di uno non può nel contempo esser sostenuto a sostegno dell'altro.”Eppure i sostenitori dell'ugualitarismo suppongono spesso di aver fornito prove a favore della loro posizione quando invece ciò che producono corrobora soltanto la dottrina della sufficienza” (4).

Qualcuno, anche fra gli egualitaristi, ritiene davvero che sia cosa buona cosa mettere al centro della propria vita l'obiettivo di avere lo stesso livello di ricchezza di una certa persona? Poniamo che Tizio sia molto portato per la matematica o che abbia del talento musicale. Potrebbe dedicarsi a studi scientifici o cercare di diventare un buon compositore, ma non lo fa. A Tizio interessa soprattutto riuscire ad avere lo stesso reddito di Caio. Valuta che solo se intraprende la carriera imprenditoriale può sperare di eguagliare le ricchezze di Caio, perciò non si occupa né di scienze né di musica ma cerca di diventare imprenditore. Giudicheremmo razionale il comportamento di Tizio? Vorremmo che un nostro figlio si comportasse come lui? Basta porsi la domanda per avere la risposta: un NO secco.
A volte si rinuncia, è vero, a sviluppare le proprie potenzialità e si accetta, per motivi economici, di fare lavori che non piacciono troppo. Ma in questi casi si mira alla sufficienza delle condizioni economiche, non alla loro uguaglianza con quelle di di qualcun altro. Una cosa è dire: “faccio questo lavoro che non mi piace troppo perché ho bisogno di un reddito”, cosa del tutto diversa dire: “faccio questo lavoro perché solo facendolo ho la possibilità di guadagnare quanto Tizio”. Chi mette al primo posto l'uguaglianza economica è portato inevitabilmente a trascurare quelli che sono i suoi interessi più particolari e peculiari. Ciò che conta per lui è solo uguagliare il livello di benessere di altri. In questo senso “sopravalutare l'importanza morale della uguaglianza economica (…) è dannoso perché alienante. Ci separa dalla nostra realtà individuale e ci porta a concentrare l'attenzione su desideri e bisogni che non sono nel modo più autentico i nostri” (5)

Frankfurt non affronta nel suo saggio, e si tratta di un limite, a modesto parere di chi scrive, il problema del rapporto fra uguaglianza e libertà. Non centra le sue critiche all'ugualitarismo sul noto argomento liberale secondo cui l'uguaglianza è, al di sopra di certi livelli, nemica della libertà; si limita a citare, mostrando di condividerla, tale argomentazione. Oggetto della sua vis polemica è la convinzione, purtroppo abbastanza diffusa, secondo cui l'uguaglianza sarebbe, in quanto tale, un valore moralmente positivo. Il filosofo americano capovolge il discorso: anche nei casi in cui è bene fare scelte egualitarie queste non si fondano sull'eccellenza morale dell'uguaglianza in quanto tale. Bellissima è a questo proposito la confutazione della tesi del filosofo liberale Isaiah Berlin secondo cui l'uguaglianza non richiede particolari ragioni mentre la disuguaglianza le richiede. Se devo dividere una torta fra dieci persone e non ho su queste nessuna informazione dividerò la torta in parti uguali, afferma Berlin. Solo se ho qualche informazione sulle persone fra cui la torta dovrà essere divisa farò parti diseguali. Potrei venire a sapere che Tizio soffre di diabete, quindi è bene che non mangi torte, o che Caio è particolarmente affamato. Potrei anche venire a sapere che Sempronio è il pasticcere che ha fatto la torta e decidere di conseguenza che questa spetta tutta a lui. Far parti diseguali richiede ragioni e conoscenze, farle uguali no. Quella egualitaria è la prima scelta che si compie, quella più “naturale”. Stavolta però Berlin, pensatore di grande acutezza, sbaglia. Se chi deve dividere la torta non ha nessuna informazione particolare sulle dieci persone fra cui questa deve essere divisa, argomenta Frankfurt, “ciò significa che le informazioni rilevanti di cui dispone (…) sono esattamente le stesse. Ma se le informazioni rilevanti (…) sono identiche (…) sarebbe arbitrario e non rispettoso trattare le persone in modo diverso”. (6)
Se l'unica cosa che so di due persone è che si tratta di due esseri umani, devo considerarle uguali fra loro: questo sono, in base alle informazioni in mio possesso. E se devo considerarle uguali devo trattarle in maniera uguale. Ciò che ci spinge a dividere in dieci parti uguali la famosa torta non è il valore morale dell'uguaglianza in quanto tale, ma il principio, di origine aristotelica, secondo cui bisogna trattare in maniera uguale gli uguali ed in maniera diseguale i diseguali. La stessa uguaglianza liberale dei diritti fondamentali si basa, o si basa anche, a ben vedere le cose, su qualcosa di simile. Tutte le persone sono profondamente diverse fra loro, ma sono anche tutte uguali, se considerate come genericamente appartenenti alla specie umana. In quanto esseri genericamente umani Tizio, Caio e Sempronio, Anna, Laura e Maria sono uguali fra loro, al di là di tutto ciò che li differenzia. Tutti, e tutte, devono perciò godere degli stessi diritti fondamentali. L'ugualitarismo filosofico non è il principio base neppure laddove sembra, a prima vista, inattaccabile.

Non è possibile esporre qui tutte le argomentazioni, sempre stringenti, di Frankfurt. Personalmente ho trovato particolarmente godibili le pagine dedicate a coloro che fondano la richiesta di uguaglianza sulla decrescita della utilità marginale. Più cresce la quantità di un certo bene minore diventa la sua utilità marginale. Se sto attraversando il deserto l'acqua avrà per me un enorme valore. In situazioni normali però l'acqua è piuttosto abbondante ed il suo valore marginale, il valore cioè di una unità di acqua in più che si aggiunge alla quantità di acqua già in mio possesso, sarà piuttosto basso. Togliere beni a chi ne ha già in abbondanza per darli a chi ne ha pochi massimizzerebbe l'utilità marginale aggregata: chi più ha vedrebbe ridurre di poco la propria utilità e chi ha poco la vedrebbe accrescere invece in misura considerevole. Questa teoria si basa però, argomenta Frankfurt, su due premesse entrambe false: primo, che tutte le persone abbiano la stessa scala di utilità e, secondo, che l'utilità marginale del denaro sia sempre decrescente. In particolare non è vero che l'utilità marginale del denaro decresca sempre, né che decresca in maniera uguale per tutti. Se è generalmente vero che, per una certa persona, l'utilità di un certo bene decresce al crescere della sua quantità, questo non è vero per il denaro. Il denaro infatti consente di passare da un bene all'altro, di sostituire un bene la cui utilità si rivela decrescente con un altro la cui utilità è invece crescente. La gran quantità di acqua che ho a disposizione fa si che per me l'acqua abbia una utilità marginale bassa, ma il denaro mi consente di sostituire parte dell'acqua con vino o birra che in un certo momento hanno una utilità marginale più alta. Anche prescindendo dalle difficoltà di ogni concezione che fondi la morale su considerazioni utilitaristiche, la posizione di chi difende l'uguaglianza con la massimizzazione della utilità aggregata risulta insostenibile.

Come si è visto Frankfurt oppone all'ugualitarismo il principio di sufficienza: non è importante che tutti abbiano lo stesso livello di ricchezza, è invece importante che tutti abbiano abbastanza. Frankfurt non sostiene che col suo principio intende garantire a tutti un livello minimo di sussistenza: non è bello per nessuno vivere sull'orlo del baratro. Sostiene al contrario che sarebbe moralmente accettabile che ognuno avesse il necessario per vivere una buona vita. Il concetto è, come si vede, abbastanza indeterminato. Quando si vive una buona vita? E, vivere una buona vita significa non essere interessati ad eventuali miglioramenti della propria esistenza? E, visto che si parla per lo più di uguaglianza economica, il denaro basta forse a garantirci una vita buona?
A queste domande non ci sono risposte precise. Non occorre essere critici del “Dio denaro” per sapere che questo non basta affatto a garantirci una esistenza degna di essere vissuta, tuttavia è molto difficile immaginare una esistenza buona, o anche solo decente, in condizioni di grande povertà. Quanto al resto, vivere una buona vita non significa non essere interessati ad ulteriori miglioramenti delle proprie condizioni, significa solo che questo interesse non diventa per noi un assillo. Sarei contento se avessi una maggior quantità di denaro, ma il non averla non mi rende infelice, esattamente come sarei contento di essere più alto di una decina di centimetri, ma non vivo nella depressione per il fatto di non esserlo. Non esiste un confine netto che separi la vita buona dalla vita che buona non è, e che ci dica, con matematica precisione, quando la vita è buona. Esistono però dei criteri che ci permettono di distinguere con sufficiente approssimazione la vita buona dalla vita cattiva, e tanto può bastare. L'etica non è una scienza esatta.
Val la pena di sottolineare la radicale differenza fra il principio di sufficienza e l'ugualitarismo. Poniamo che Tizio guadagni 30.000 euro al mese, Caio 3.000 e Sempronio 500. Tizio guadagna 27.000 euro e dieci volte più di Caio. Caio a sua volta guadagna 2.500 euro e sei volte più di Sempronio. Dal punto di vista del principio egualitario sarebbe più importante eguagliare la posizione di Caio a quella di Tizio, che non quella di Sempronio a quella di Caio. Invece è vero il contrario. Il compito davvero importante è avvicinare le posizioni di Caio e Sempronio, non quelle di Tizio e Caio. E le posizioni di Caio e Sempronio vanno avvicinate non per amore dell'uguaglianza, ma perché un reddito di 500 euro mensili non consente una vita buona, e neppure decente.
Frankfurt non indica quali politiche andrebbero perseguite al fine di realizzare il suo principio di sufficienza e questo è, probabilmente, un altro limite del suo saggio, tuttavia non credo che il filosofo americano sia favorevole a politiche troppo redistributive. Il principio di sufficienza richiede, per essere posto in essere, politiche di stimolo agli investimenti, all'innovazione tecnologica, all'impresa ben più che velleità alla Robin Hood.

Harry Frankfurt aveva pubblicato qualche anno fa un bellissimo libretto dal titolo assai intrigante: “Stronzate”. In questo breve saggio il filosofo americano attaccava quella nefasta categoria di persone che sparano continuamente stronzate, cioè enunciati che non hanno relazione alcuna con un qualsivoglia valore di verità. Con questo “Sulla diseguaglianza” Frankfurt forse supera, a mio modesto parere, la sua stessa, gustosissima, opera precedente.
Sulla disuguaglianza” si compone di 93 paginette, tutte da leggere, e da gustare, con la massima attenzione, perché in tutte è scritto qualcosa di importante. Poche paginette prive di inutili tecnicismi ed artificiosi ermetismi, scritte in stile chiaro e sorrette da una logica rigorosissima. L'esatto contrario delle opere di certi presunti maestri del pensiero che si dilungano per centinaia di spesso incomprensibili pagine, cadendo in continue contraddizioni, senza dire assolutamente nulla. Ciò che è veramente profondo può essere quasi sempre espresso in maniera chiara, sono le banalità pseudo filosofiche che si ammantano di oscurità. “Ho letto il libro del tale... era tanto difficile, non ci ho capito nulla”, si sente dire a volte. Chi fa simili affermazioni confonde spesso la difficoltà di un'opera con l'oscurità del suo linguaggio. Spesso la difficoltà è inevitabile, ma l'oscurità ermetica serve sempre a nascondere la banalità del nulla. O emerite stronzate.
Per fortuna c'è ancora qualcuno che scrive cose che meritano di essere lette! Il professor Frankfurt è una di queste poche, preziose persone.








NOTE
1) Harry G, Frankfurt: Sulla disuguaglianza, Ugo Guanda editore 2015. pag. 20
2) Ibidem pag. 20 21.
3) Ibidem pag. 17
4) Ibidem pag. 51
5) Ibidem pag. 25
6) Ibidem pag. 85






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