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sabato 15 ottobre 2016

LA NUOVA NEOLINGUA


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Quella della “neolingua” è forse una delle “invenzioni” teoriche più acute e profonde di Orwell. La neolingua è un nuovo linguaggio elaborato dai professori del partito al potere per ridurre drasticamente le possibilità espressive del pensiero. Per esprimersi il pensiero ha bisogno di un linguaggio, di parole. La neolingua è strutturata in maniera tale da impedire che il pensiero possa partorire concetti pericolosi, non ortodossi.
Chiunque fosse cresciuto conoscendo soltanto la neolingua” scrive Orwell, “non avrebbe saputo più che la parola uguale significava anche “uguale da un punto di vista politico”; o che prima libero significava “intellettualmente libero”; allo stesso modo in cui una persona che non conoscesse il gioco degli scacchi non avrebbe saputo dei significati secondari annessi alle parole regina o torre. Ci sarebbe stata tutta una serie di crimini che non avrebbe potuto commettere, per il fatto stesso che mancavano i termini atti a definirli e che quindi erano inimmaginabili”.
In neolingua concetti come “diritti umani” o “libertà di pensiero” sarebbero stati semplicemente inesprimibili, quindi impensabili. Il termine “libero” in neolingua poteva avere solo significati del tipo: “giardino libero dalle erbacce” o “strada libera da detriti”, assolutamente nulla che potesse rinviare, in un modo o nell'altro, ai diritti o alla libertà di pensiero. Una volta che la neolingua si fosse definitivamente affermata e che anche le ultime vestigia della “archeolingua” fossero state distrutte il pensiero “eretico”, la dissidenza sarebbero stati impossibili, e con questi sarebbero scomparsi i crimini contro il partito. Gli esseri umani sarebbero diventati meri ingranaggi di una mostruosa ed onnicomprensiva macchina totalitaria.
Qualcosa di simile, anche se, per fortuna ancora allo stato embrionale, sta succedendo oggi, con il tentativo di imporre a tutti la neolingua politicamente corretta.

La neolingua politicamente corretta altro non è che il tentativo di trasferire nel linguaggio l'ideologia politicamente corretta. Non si tratta di difendere i valori (o presunti tali) espressi da tale ideologia usando il comune linguaggio umano, si vuole plasmare il linguaggio in maniera tale che il suo semplice uso esprima la superiorità di questi valori. Ad esempio, nel decadente occidente di oggi molti teorizzano che la differenza sessuale è secondaria; è irrilevante ai fini della riproduzione della specie e non merita particolari tutele giuridiche. Si tratta di una opinione assai discutibile ma lecita, ovviamente. I professorini del politicamente corretto non si limitano però ad argomentare e difendere questa opinione, modificano il linguaggio per adeguarlo alla loro ideologia. La differenza sessuale è irrilevante, quindi sono irrilevanti i ruoli di padre e di madre, quindi non si devono più usare i termini “padre” e “madre”. Al loro posto si devono usare i termini “genitore uno” e “genitore due” (un giorno ci saranno forse i genitori tre, quattro, cinque eccetera). E' chiaro che il semplice uso di questi termini segna la vittoria della ideologia gender, una branca del politicamente corretto, che li ha prodotti. Come posso difendere lo status ontologico della differenza sessuale, dei padri e delle madri, se già parlandone rifiuto di chiamarli col loro nome? Dire “genitore uno” equivale ad ammettere che la differenza sessuale è irrilevante. Esattamente come la neolingua orwelliana quella politicamente corretta rende impossibile la dissidenza, prima imbriglia il pensiero, infine lo distrugge.

Nel bellissimo saggio sulla neolingua che segue il romanzo “1984” Orwell espone i principi di questo nuovo linguaggio. Due sono particolarmente interessanti e richiamano da vicino quanto succede oggi nella nostra civiltà in crisi.

1 - eliminare le forme irregolari e le eccezioni linguistiche, e uniformare le regole per la formulazione di plurali e forme verbali: ad esempio il plurale di "uomo" diventa "uomi", il participio passato di "correre" diventa "corruto" e così via;
2 - conservare per ogni termine un solo significato, ben definito e privo di sfumature, ed eliminare tutti i suoi sinonimi: ad esempio "uguali" inteso solo come "coincidenti", o "coltello" usato anche per indicare l'atto del tagliare. Ciò avrebbe reso concetti come "uguali davanti alla legge" o "tagliare i viveri" inesprimibili, se non con espressioni lunghe, complicate e quindi dispersive e incomprensibili.

E' difficile leggere queste parole senza pensare alla polemica in atto su neologismi come “sindaca”, “assessora”, “presidenta”.
Il femminile si forma in vari modi, lo abbiamo imparato tutti alle elementari. Il femminile di “dottore” è “dottoressa”, quello di “re” “regina”, quello di “imperatore” “imperatrice”.
Tutto questo non piace alle vestali del politicamente corretto. Se il femminile di termini indicanti funzioni o cariche sociali si forma in vari modi ciò significa, dicono, che è una eccezione, non la regola, che siano donne ad occupare certe cariche. Questo sarebbe “maschilista”, quindi deve esserci un solo modo di volgere al femminile questi termini: sostituire la vocale finale con la “A”. Presidente diventa “presidenta”, sindaco “sindaca”, ministro “ministra”. Il linguaggio si uniforma e si abbruttisce, diventa piatto e meccanico, ma chi se ne frega? L'ideologia del femminismo radicale è salva.
Ovviamente usare il termine “sindaco” anche se a coprire quella carica è una donna non vuol dire affatto teorizzare che solo gli uomini possano essere sindaci. I linguaggi umani sono pieni di sfumature, ambiguità positive. Ogni termine può essere usato con significati diversi in diversi universi del discorso, e nel corso del tempo il senso di molti termini muta, si arricchisce, acquisisce sfumature nuove. “Sindaco” indica una carica, non il sesso di chi la ricopre. Un tempo era praticamente scontato che fossero gli uomini a ricoprirla, oggi è pacifico che la possono ricoprire sia gli uomini che le donne, senza che si debba usare una mostruosità linguistica come “sindaca”. E ancora, termini come “umanità” o “diritti umani” non si riferiscono solo alla componente maschile del genere umano. Si dice “umanità riferendosi agli uomini come alle donne; si parla di tutela dei diritti umani indipendentemente dal sesso di chi ne gode o dovrebbe goderne.
Tutto questo però non piace ai professorini del politicamente corretto. Loro vogliono una lingua precisa come una formula matematica, priva di sfumature e ambiguità. Peccato che una tale lingua renda alla lunga impossibile il pensiero. Torniamo al caso di “sindaco” e “sindaca”. Come ci si deve comportare quando si parla di un sindaco senza sapere di che sesso è? E' giusto dire: ”Il sindaco di Vattelapesca ha detto che...”? E se il sindaco di Vattelapesca fosse di sesso femminile? Parlando del “sindaco” abbiamo offeso le donne! Siamo dei biechi sessisti maschilisti!
E come fare quando si parla, ad esempio, delle prossime elezioni in cui si dovrà scegliere il sindaco di un certo paese? Ancora non sappiamo chi verrà eletto, quindi, come possiamo parlare di “sindaco”? E se ad essere eletta fosse una donna? Che guaio!
Per essere in linea col politicamente corretto dovremmo costruire frasi del tipo: “Il sindaco o la sindaca di Vattelapsca ha detto che...” oppure “Sono convocate le elezioni per eleggere il sindaco o la sindaca di...”. Si provi a generalizzare un tale linguaggio e si veda se resta possibile la comunicazione fra gli esseri umani.

Ma l'imposizione della neolingua politicamente corretta non riguarda solo i maschili e i femminili. Tutto il linguaggio deve uniformarsi ad una certa ideologia, e devono sparire tutte le parole, e tutte le espressioni che possano in qualche modo favorire pensieri “eretici”. Come si sa, un campo fertile di applicazione del politicamente corretto riguarda le malattie e le disabilità. Non si tratta, dovrebbe essere chiaro, di umana partecipazione al dolore di chi soffre, o di solidale disponibilità all'aiuto. Si tratta di ben altro. Per le vestali del politicamente corretto la malattia, le disabilità
non esistono, come non esistono i sessi. Un cieco non è una persona che soffre di una grave menomazione fisica che influenza negativamente la sua esistenza, è semplicemente una persona “diversa”. Il disabile non è tale, è diversamente abile. E' da “razzisti” pensare che chi ha le proprie gambe sia fisicamente superiore a chi non le ha. I due sono solo “diversi”, punto. Ovviamente dietro a tali scemenze si cela un mare di ipocrisia: chi ha le gambe non vorrebbe mai essere inchiodato su una sedia a rotelle, chi ci vede preferisce non far parte dell'insieme dei “non vedenti”, ma questi sono dettagli. Si cambino i nomi e tutto quadra. La sofferenza non è eliminata, pazienza, intanto non colpisce noi!
Le persone normali diventano in questo modo “
normodotate”, i bassi “verticalmente svantaggiati” ciechi “non vedenti”, i disabili “diversamente abili”, gli zoppi “diversamente deambulanti” eccetera eccetera. A prescindere da altre considerazioni è chiaro che l'uso di questi termini distrugge radicalmente la ricchezza del linguaggio, ne elimina le sfumature, la molteplicità dei sensi, la possibilità di costruire metafore.
Prendiamo il termine “
cieco”. Questo normalmente indica una persona che non ci vede, ma può essere usato in molti altri sensi. Si può parlare ad esempio di “vicolo cieco” o di “finestre cieche”; si tratta di espressioni vivide, colorite, in grado di rendere plasticamente l'idea di una certa situazione o di un determinato stato di cose. Si provi ora a sostituire in queste espressioni al termine “cieco” il suo sostituto politicamente corretto. Avremo: “vicolo non vedente” o “finestra non vedente”. Mostruosità senza senso.
Qualcuno potrebbe ribattere che si potrebbe continuare ad usare il termine “cieco” in espressioni come “vicolo cieco” senza usarlo più riferito alle persone, ma proprio questo è impossibile.
La variazione di significato di una parola arricchisce il discorso se di questa parola esiste il significato principale. “Finestra cieca” è una espressione leggermente inquietante proprio perché esiste il termine “cieco” col suo significato di menomazione fisica che riguarda le persone. Se quel significato principale fosse abolito, se tutti per anni usassero il termine “non vedente” senza neppure accostare a questo, mentalmente, il termine “cieco”, espressioni come “finestra cieca” o “vicolo cieco” perderebbero tutto il loro colore ed il loro fascino. Proprio questo volevano gli inventori della orwelliana neolingua: standardizzare al massimo il linguaggio perché solo standardizzandolo al massimo, riducendo il numero delle parole e togliendo a queste ogni sfumatura ed ambiguità, si potevano evitare tentazioni di pensiero eretico.
Lo stesso fine si propongono oggi i sacerdoti del politicamente corretto: un linguaggio standardizzato, con poche parole, prive di sfumature, rigidamente legate alla ideologia dominante. Un simile linguaggio rende difficili prima, ed alla lunga impossibili, i pensieri non conformisti. Sarebbe possibile, per fare un altro esempio, formarsi il concetto di “clandestino” se le uniche parole ammesse, studiate a scuola, fatte imparare ai bambini sin dalla più tenera età, fossero “migrante” e “profugo”? Chi controlla il linguaggio controlla il pensiero, e con questo la vita degli essei umani.

Ed insieme ai pensieri eretici un simile linguaggio
rende impossibile la letteratura. Questo è un bene, deve essere chiaro, per i teorici della ideologia politicamente corretta. E' un bene perché nulla come la letteratura stimola e favorisce il pensiero autonomo, e con questo il dubbio, la critica.
Qualcuno dubita che la neolingua politicamente corretta renda impossibile la letteratura? Beh... provi a pensare a cosa ci troveremmo fra le mani se tentassimo di tradurre in politicamente corretto “
i promessi sposi”. E riusciamo ad immaginare Amleto che definisce "genitore due" la madre traditrice? Od Otello che da Moro di Venezia diventa "afroamericano di Venezia"? Da rabbrividire!
La neolingua politicamente corretta distrugge, insieme, la possibilità della umana comunicazione e della letteratura. Se oggi esistono ancora una comunicazione ed una letteratura ciò è dovuto al fatto che la neolingua politicamente corretta è ancora largamente incompleta e non è usata dalla stragrande maggioranza degli esseri umani né per scrivere né, tanto meno per parlare. La gente normale non usa termini come “genitore uno” o “verticalmente svantaggiato”, nessuno parla di “femminicidi” in una discussione fra amici, nessuno dice che è incerto su chi votare per la carica di “sindaco o sindaca”. La neolingua politicamente corretta è la lingua dei media, dei burocrati della UE, la lingua che gli esponenti di quasi tutti i partiti politici usano nelle risoluzioni ufficiali, e solo in quelle, perché quando parlano normalmente anche loro usano la lingua normale.
Non è casuale tutto questo. La neolingua politicamente corretta è una lingua costruita a tavolino, lontanissima dalla naturale, molecolare, evoluzione che ogni linguaggio subisce nel tempo ad opera della massa dei parlanti ed anche dai processi di abbellimento cui lo sottopongono periodicamente i letterati. Branchi di sacerdoti del politicamente corretto, piccoli, insignificanti burocrati dotati però di quella cosa fondamentale che è il potere, si riuniscono ogni tanto e decidono che la tal parola non è in linea con la loro ideologia, quindi la cambiano. Da quel momento sui media e sui giornali si comincia ad usare una nuova parola che nessuno fino al giorno prima aveva mai sentito. Dopo un po' chi non usa quella parola diventa subito “razzista”, oppure “omofobo”, oppure “xenofobo” e così via. Tutto è artificioso, freddo, burocratico, lontano anni luce dalla vita vera, dalla vera evoluzione del linguaggio. Recentemente la regione Sardegna ha stabilito per legge che nelle risoluzioni ufficiali bisogna declinare al femminile i termini che si riferiscono a cariche politiche. Insomma, la legge ci obbliga ad usare parole come “sindaca”, “assessora”, “ministra”. Cosa succede a chi non le usa? Rischia l'ergastolo, o venti anni di reclusione? Ce lo dicano, per piacere.
Qualcuno può sorridere di tutto questo, ma si tratta di un errore. L'imposizione, addirittura per legge, di un certo linguaggio potrà anche essere qualcosa di velleitario, privo di conseguenze reali, ma esprime una terrificante mentalità totalitaria, è lo specchio della profondità della malattia che sta corrodendo dall'interno la nostra civiltà. Prima ce ne rendiamo tutti conto meglio è. Per tutti.

10 commenti:

  1. C'è, c'era una tautologia nel titolo, forse necessaria, ma è largamente compensata dalla bellezza e linearità del tuo argomentare. Complimenti.

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    1. Si, "nuova neolingua" è tautologico. Ho usato questo titolo perché la neolingua di oggi è "nuova" rispetto a quella di Orwell. :-)

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  2. Certe parole sono stupro della lingua (non solo italiana, dato che anche nei paesi del primo mondo talvolta odo certe oscenità)

    esempio gender: 'Paolo mi ha detto che a loro piace il gelato, mi ha chiesto di accompagnarli perchè i suoi fidanzati ha trovato una gelateria migliore' . (Ho fatto una traduzione letteraria dall'inglese per farti capire). Odi obbrobri ortografici quali 'xe' 'xey'(inglese, anche se di solito usano la terza persona plurale) e 'hen' (svedese).

    La parola 'femminicidio' a me da fastidio quanto udire una bestemmia. E' un'orrida parolaccia. Fa suonare le donne come animali di diversa specie rispetto agli uomini, oppure sembra addirittura il nome di un pesticidio o di un fungicida. E crea confusione. Secondo me i delitti (contro uomini, donne, bambini, vecchi) devono esser puniti allo stesso modo, con l'ergastolo e sotto la voce 'omicidio' (senza distinzione tra passionale, vendetta, serial killers o membri della mafia), la giustificazione va solo alla legittima difesa.

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    1. Un giorno sentiremo altre parolacce quali 'musulmanocidio' 'negricidio' 'cinesecidio' e quella che piace ai vegani 'animalicidio'

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  3. "Mio marito, dopo l'intervento alla prostata, è diventato diversamente potente".
    "Tipo motore abarth?"
    "No, non in quel senso lì. Lui è, come dire... hai presente l'ammorbidente?"
    "Cioè che adesso è come nuovo?"
    "Ma no, uffa, insomma è diventato tiroleso!"
    "Ah, si è trasferito sulle Dolomiti?"

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  4. Bellissimo post, complimenti. E la ringrazio per aver toccato l'argomento di quanto sia brutta questa neolingua. Impoverita, triste, incapace di slanci e di ceatività, come poveri, tristi, incapaci di creare stanno diventando i nostri paesi sotto il giogo della burocrazia onnipervasiva.

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  5. una dittatura della parola che vuole fermare il pensiero, l'opposizione, impedendogli perfino di parlare; non conta se dici cose vere, conta solo la forma con la quale le dici.
    Non c'è dittatura più odiosa di questa

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  6. Una vera e propria lectio magistralis, caro Giovanni, quanto mai utile nel quadro attuale di questa nostra società italiana in fase di declino, nella cultura, nella politica, nel comportamento. L'uso deformato e strumentale della lingua è un male che apre le porte alla più bieca contaminazione dei valori fondanti e dell'identità storica del nostro popolo. La cosa peggiore, come tu giustamente affermi, è l'origine di questa patologia "neolinguistica", determinata da quello che io chiamo il "politicamente demenziale", tanto per rimanere nel corretto uso della lingua e senza necessità alcuna di neologismi. Un abbraccio.

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  7. Solo un piccolo appunto: Otello non sarebbe "Afroamericano di Venezia", ma "Afroveneziano".
    Forse, perché probabilmente, anche se gli attori si tingono la faccia per recitarlo, è più probabile che fosse Moro nel senso di Turco, date la storia e la geografia della Serenissima.

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    1. No: era un extracomunitario, quindi migrante, quindi risorsa. La risorsa di Venezia.

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