C'è la crisi? La colpa è di certo di
qualche oscuro speculatore, magari un finanziere ebreo, o
del “pregiudicato”. Non si trova lavoro? Il lavoro c'è, ma non
ce lo vogliono dare. Una epidemia si diffonde? Colpa delle
multinazionali del farmaco che vogliono far profitti sulle sofferenze
del popolo. Il terrorismo islamico genera morte e distruzione? Tutte
palle! I responsabili di quelle morti sono i grandi petrolieri, la
Cia ed i sionisti. Di tutto occorre trovare i
responsabili. Non interessano le cause, le eventuali responsabilità
politiche, i grandi movimenti di massa, spesso fanatici. No, interessa scovare i
responsabili giuridici: pochi individui perversi che organizzano
complotti per ingrassare sulle spalle della povera gente.
Non è
una novità. E' molto più facile strillare contro pochi mascalzoni
che comprendere i meccanismi di una crisi economica, o il perché di
comportamenti irrazionali che coinvolgono milioni e milioni di
persone.
Nel 1630 scoppiò a Milano una terribile epidemia di
peste che dimezzò, o ridusse di oltre due terzi, la popolazione della
città. Capirne le cause reali era molto difficile, ma fu subito trovata
una “causa” ad hoc: i malefici “
untori”. Così alle vittime della
peste si aggiunsero quelle dei linciaggi e delle esecuzioni capitali
decise in fretta e furia al termine di processi farsa.
Ecco alcuni brani
del capitolo dei “
promessi sposi” in cui il Manzoni
descrive splendidamente questa follia. Frammenti di altissima
letteratura, fuori moda ai giorni nostri, eppure di tragica attualità.
Se si ascoltano con un minimo
di attenzione le farneticazioni di un Grillo ci si rende subito conto
che altro non sono se non la riproposizione del manzoniano “dalli
all'untore!”.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti,
avvertendo d'averli scelti, non come i più atroci tra quelli che
seguivano giornalmente, ma perché dell'uno e dell'altro era stato
pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità,
un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto
inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa,
spolverò la panca. "Quel vecchio unge le panche!"
gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si
trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per
i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte
lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per
istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle
torture. "Io lo vidi mentre lo strascinavan così," dice il
Ripamonti: "e non ne seppi piu altro: credo bene che non abbia
potuto sopravvivere più di qualche momento."
L'altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non
ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un
pittore, un meccanico, venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le
antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s'erano accostati a
non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando
attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un
altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a
tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce,
accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi. Come per
accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò.
Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse,
alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco
lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati
innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era
propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de'
contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a
guardar in qua e in là, o si buttasse giú per riposarsi; lo
sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel
volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al
grido d'un ragazzo, si sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici
eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di
popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino
a un certo tempo, era un porto di salvamento.
(...)
Tutta la strada
era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più
preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de'
vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove
sopra i parati, c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte pendevano
quadri, iscrizioni, imprese; su' davanzali delle finestre stavano in
mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di
quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e
l'accompagnavano con le loro preci. L'altre strade, mute, deserte; se
non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al ronzìo
vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran
saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa,
il corteggio, qualche cosa.
Ed ecco che, il giorno seguente,
mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una
fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste,
le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un
tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne
vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh
forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al
trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita
moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più
quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci
avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse
che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento
quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo
bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così
diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era
stato possibile all'occhio così attento, e pur così travedente, del
sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su' muri, né
altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell'altro
ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune
d'Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri
tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate,
si fossero attaccate agli strascichi de' vestiti, e tanto più ai
piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi.
"Vide pertanto," dice uno scrittore contemporaneo,
"l'istesso giorno della processione, la pietà cozzar con
l'empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con
l'acquisto." Ed era in vece il povero senno umano che cozzava
co' fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio
andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che
non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al
dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila:
più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4
di luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della
sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i
cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo
più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila
cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma
che, "per le diligenze fatte o, dopo la peste, si trovò la
popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila
anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila." Secondo
il Ripamonti, era di sole dugento mila: de' morti, dice che ne
risultava cento quaranta mila da' registri civici, oltre quelli di
cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più
a caso.
(...)
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin
da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale
l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo
progresso, il quale aveva detto e predicato che l'era peste, e s'attaccava col
contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese,
vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell'unzioni
venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di
peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia,
vederlo poi addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto
di questa sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare da un
loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a
esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e
come al suo rifiuto quelli se n'erano andati, e in loro vece, era rimasto un
lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, "che sino al far del giorno vi
dimororno."
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che
aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma
siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà
occasion d'osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d'idee possa essere
scompigliata da un'altra serie d'idee, che ci si getti a traverso. Del resto,
quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.
(…)
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più
smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione di
cui eran capaci, l'impiegarono a cercar di questi untori.
(...)
I processi
che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d'un tal
genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella
storia della giurisprudenza. Ché, per tacere dell'antichità, e
accennar solo qualcosa de' tempi più vicini a quello di cui
trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545,
poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del
1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno 1630,
furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi,
dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la
peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò
insieme. Ma l'affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il
più celebre, così è fors'anche il più osservabile; o, almeno, c'è
più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti
più circostanziati e più autentici.