Esattamente
dieci anni fa, il 19 Aprile 2006, più o meno a quest'ora, ero
immerso nel nulla, disteso sulla tavola operatoria dell'ospedale di
Borgo Roma, a Verona. I chirurghi mi stavano rimuovendo un tumore dal
pancreas. Si trattava, mi avevano spiegato, di un tumore a “lenta
maturazione”. Inizialmente benigno diventa col passare del tempo
maligno e, se lo diventa, uccide, senza scampo. Il mio, avrebbero
poi appurato, era ancora nella fase “benigna”; non a caso ne sto
parlando ora, dopo dieci anni.
Ricordo le paure che avevano preceduto l'intervento. Il giorno prima avevo parlato con l'anestesista.
“E' vero”, gli chiedo con la voce non troppo ferma, “che nelle anestesie usate le stesse sostanze che si usano per le esecuzioni capitali, negli stati Uniti?”
“Si”, mi risponde. “Cioè, nelle esecuzioni ne usano due, di sostanze, per l'anestesia solo una...”
“A, meno male” faccio con sollievo, “usate quella non letale...”
“No, no” ribatte, “quella che usiamo è letale”. Mi sorride, forse lo diverte il mio... diciamo così, "nervosismo”.
“Ah", gli rispondo sempre più preoccupato. "La usate in quantità non letale...”
“Per niente” mi fa “la quantità sarebbe letale...”
Non ho dubbi, Lo diverto. Mi sento Fantozzi, ma non posso fare a meno di chiedergli: “Ma... e allora?”
“Non si preoccupi” mi risponde, seriamente stavolta. “Sarà intubato, la teniamo in vita artificialmente, non si deve preoccupare”. Sorride, mi da una leggera, amichevole, pacca sulla spalla. Ci salutiamo. “E' tutto OK” mi dice.
“Non mi devo preoccupare” continuo a a ripetermi, però ci penso, la notte prima. No, non penso tanto alle esecuzioni capitali, alle sostanze che mi inietteranno. Mi fido dei medici, so che sono ottimi professionisti. Mi spaventa quel salto, quell'esperienza del nulla, o quel nulla di esperienza che mi attende.
Ricordo le paure che avevano preceduto l'intervento. Il giorno prima avevo parlato con l'anestesista.
“E' vero”, gli chiedo con la voce non troppo ferma, “che nelle anestesie usate le stesse sostanze che si usano per le esecuzioni capitali, negli stati Uniti?”
“Si”, mi risponde. “Cioè, nelle esecuzioni ne usano due, di sostanze, per l'anestesia solo una...”
“A, meno male” faccio con sollievo, “usate quella non letale...”
“No, no” ribatte, “quella che usiamo è letale”. Mi sorride, forse lo diverte il mio... diciamo così, "nervosismo”.
“Ah", gli rispondo sempre più preoccupato. "La usate in quantità non letale...”
“Per niente” mi fa “la quantità sarebbe letale...”
Non ho dubbi, Lo diverto. Mi sento Fantozzi, ma non posso fare a meno di chiedergli: “Ma... e allora?”
“Non si preoccupi” mi risponde, seriamente stavolta. “Sarà intubato, la teniamo in vita artificialmente, non si deve preoccupare”. Sorride, mi da una leggera, amichevole, pacca sulla spalla. Ci salutiamo. “E' tutto OK” mi dice.
“Non mi devo preoccupare” continuo a a ripetermi, però ci penso, la notte prima. No, non penso tanto alle esecuzioni capitali, alle sostanze che mi inietteranno. Mi fido dei medici, so che sono ottimi professionisti. Mi spaventa quel salto, quell'esperienza del nulla, o quel nulla di esperienza che mi attende.
E
dieci anni fa, più o meno a quest'ora, ero nel nulla.
Qualcosa di non esperibile, non pensabile, non esprimibile. E io
c'ero dentro.
Quando emergo dal nulla sono in rianimazione, circondato dalla penombra. Sento dolore ovunque. Il corpo è pieno di tubi e tubicini. Sul viso la maschera ad ossigeno. Al braccio una macchina mi misura automaticamente la pressione. Guardo un grande orologio alla parete, segna le nove. Ero entrato in sala operatoria più o meno alle nove del mattino. “Mamma mia, quanto tempo è durata”, mi dico.
Ma sono contento di essere vivo, lo sono, anche se sento dolore ovunque.
Arriva un infermiere. “Sono le nove di sera”gli sussurro...
Mi sorride. “No, sono le nove di mattino”. Del mattino dopo. Quasi non ci credo.
Me lo hanno raccontato, dopo. L'operazione è durata oltre dieci ore, lunga, difficile. Poi, quando tutto sembrava finito, una emorragia interna. Mi riportano in sala. Lavorano con tutte le forze per salvarmi la vita. E ci riescono.
Poi le degenza, lunga, dolorosa. Insorgono complicazioni. Quando sembro migliorare ho un peggioramento improvviso. Mi riportano in terapia intensiva. Cominciano di nuovo a ficcarmi tubi e tubicini ovunque. Momenti concitati e stavolta sono cosciente, sono dentro l'essere, non immerso nel nulla. E la vedo, coscientemente, in faccia, la signora in nero. Magra, con un sorriso beffardo stampato sul viso cadaverico. Il suo alito è gelido. Mi vuole, le piaccio! Ma rifiuto le sue avance. Mi riportano nella mia saletta. La signora dovrà aspettare.
Poi, il miglioramento, lento però, molto lento. La vita di ospedale che scorre sempre uguale; ed il timore che mi incute il primario, il professor Pederzoli. Quando mi guarda ho sempre paura che ordini che mi venga inserito da qualche parte qualche tubicino supplementare, per togliermi tutte le schifezze che ho ancora dentro.
Sono magro come un chiodo: per tanti, tantissimi giorni non ho mangiato nè bevuto nulla, tenuto in vita dalle flebo. All'inizio i deprimenti, leggerissimi, brodini ospedalieri mi sembrano ottimi. Quando sono abbastanza migliorato mi prescrivono una dieta molto calorica: non solo brodini, ma bresaola, formaggi, passati di carne, frutta e verdure, cibi energetici, per recuperare qualcosa. E ci riesco, a recuperare. Dopo oltre un mese e mezzo di degenza posso lasciare l'ospedale. Debolissimo, sempre molto, molto magro, ma vivo.
La mia vita lentamente è tornata alla normalità. Ho ripreso a lavorare, a svolgere le attività di prima. Son tornato alle escursioni in montagna, alla pratica delle arti marziali, qualche anno dopo sono diventato istruttore di Krav maga. Di leggere non avevo mai smesso, la lettura mi ha dato forza, in quel periodo bruttissimo.
Ripenso con riconoscenza a tutta l'equipe dell'ospedale di Borgo Roma a Verona. Grandi professionisti, dal primario, professor Pederzoli, a tutto il personale medico ed infermieristico. Tutte e tutti cortesi, simpatici, molto professionali. Tutte e tutti capaci non solo di curare ma di sostenere chi soffre, ed è anche psicologicamente fragile.
Un pensiero particolare lo dedico al chirurgo che mi ha operato: l'allora dottor, oggi professor, ROBERTO SALVIA. Un medico di grande professionalità e profonda umanità.
Per fortuna, malgrado tutto, c'è ancora in Italia chi sa davvero svolgere alla grande il proprio lavoro. Consola la cosa, coi tempi che corrono.
Quando emergo dal nulla sono in rianimazione, circondato dalla penombra. Sento dolore ovunque. Il corpo è pieno di tubi e tubicini. Sul viso la maschera ad ossigeno. Al braccio una macchina mi misura automaticamente la pressione. Guardo un grande orologio alla parete, segna le nove. Ero entrato in sala operatoria più o meno alle nove del mattino. “Mamma mia, quanto tempo è durata”, mi dico.
Ma sono contento di essere vivo, lo sono, anche se sento dolore ovunque.
Arriva un infermiere. “Sono le nove di sera”gli sussurro...
Mi sorride. “No, sono le nove di mattino”. Del mattino dopo. Quasi non ci credo.
Me lo hanno raccontato, dopo. L'operazione è durata oltre dieci ore, lunga, difficile. Poi, quando tutto sembrava finito, una emorragia interna. Mi riportano in sala. Lavorano con tutte le forze per salvarmi la vita. E ci riescono.
Poi le degenza, lunga, dolorosa. Insorgono complicazioni. Quando sembro migliorare ho un peggioramento improvviso. Mi riportano in terapia intensiva. Cominciano di nuovo a ficcarmi tubi e tubicini ovunque. Momenti concitati e stavolta sono cosciente, sono dentro l'essere, non immerso nel nulla. E la vedo, coscientemente, in faccia, la signora in nero. Magra, con un sorriso beffardo stampato sul viso cadaverico. Il suo alito è gelido. Mi vuole, le piaccio! Ma rifiuto le sue avance. Mi riportano nella mia saletta. La signora dovrà aspettare.
Poi, il miglioramento, lento però, molto lento. La vita di ospedale che scorre sempre uguale; ed il timore che mi incute il primario, il professor Pederzoli. Quando mi guarda ho sempre paura che ordini che mi venga inserito da qualche parte qualche tubicino supplementare, per togliermi tutte le schifezze che ho ancora dentro.
Sono magro come un chiodo: per tanti, tantissimi giorni non ho mangiato nè bevuto nulla, tenuto in vita dalle flebo. All'inizio i deprimenti, leggerissimi, brodini ospedalieri mi sembrano ottimi. Quando sono abbastanza migliorato mi prescrivono una dieta molto calorica: non solo brodini, ma bresaola, formaggi, passati di carne, frutta e verdure, cibi energetici, per recuperare qualcosa. E ci riesco, a recuperare. Dopo oltre un mese e mezzo di degenza posso lasciare l'ospedale. Debolissimo, sempre molto, molto magro, ma vivo.
La mia vita lentamente è tornata alla normalità. Ho ripreso a lavorare, a svolgere le attività di prima. Son tornato alle escursioni in montagna, alla pratica delle arti marziali, qualche anno dopo sono diventato istruttore di Krav maga. Di leggere non avevo mai smesso, la lettura mi ha dato forza, in quel periodo bruttissimo.
Ripenso con riconoscenza a tutta l'equipe dell'ospedale di Borgo Roma a Verona. Grandi professionisti, dal primario, professor Pederzoli, a tutto il personale medico ed infermieristico. Tutte e tutti cortesi, simpatici, molto professionali. Tutte e tutti capaci non solo di curare ma di sostenere chi soffre, ed è anche psicologicamente fragile.
Un pensiero particolare lo dedico al chirurgo che mi ha operato: l'allora dottor, oggi professor, ROBERTO SALVIA. Un medico di grande professionalità e profonda umanità.
Per fortuna, malgrado tutto, c'è ancora in Italia chi sa davvero svolgere alla grande il proprio lavoro. Consola la cosa, coi tempi che corrono.
Ho cominciato a conoscerlo fin da bambina, quel nulla lì. E anche la signora, la volta che non riuscivano a svegliarmi dall'anestesia, e prima hanno provato a chiamarmi per nome, poi a tirarmi i piedi, darmi schiaffettini sulle guance, infine poderosi ceffoni e niente, non mi svegliavo. Con un barlume di coscienza, che mi permetteva di capire cosa c'era dall'altra parte,ma risalire richiedeva una forza disumana, che non avevo.
RispondiEliminaDi tumori benigni ne ho tolti tre; il quarto invece non lo era, ma l'ho beccato in tempo. Anche quello con cui convivo adesso è benigno, ma siccome per tirarlo fuori occorre trapanare il cranio, finché resta benigno e non si ingrossa troppo lo si lascia lì.
D'altra parte, come diceva il mio capogruppo in Somalia ogni volta che capitava qualche incidente, se non succedono come fai poi a raccontarle?
In rianimazione comunque non ci sono mai finita.
RispondiEliminaAuguri Mella!!! Posso capirti!!!! :-)
RispondiEliminaNe ho bisogno davvero. Ogni tanto, scherzando ma neanche poi tanto, dico che di malattie mi mancano tubercolosi colera febbre gialla sifilide e AIDS, per il resto ho avuto tutto (in realtà mi mancano anche il tifo e la scarlattina).
RispondiEliminaComunque il tumore al cervello che mi sta facendo compagnia non è particolarmente preoccupante: nella maggior parte dei casi rimane benigno, e spesso aumenta di dimensione così lentamente che si fa in tempo a crepare di vecchiaia o di qualche altro accidente. E in ogni caso è in una posizione raggiungibile, quindi niente di particolarmente drammatico.
Meno male, mi consola la cosa!!! Un grande abbraccio!!!!
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