giovedì 29 dicembre 2016

IDIOZIE DI FINE ANNO.

L'anno sta per finire e sembra che gli imbecilli si siano dati appuntamento per vedere chi le spara più grosse. Esaminiamone qualcuna, così, alla buona, per ridere, anche se in realtà c'è davvero poco da ridere.  

ATTENZIONATO
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I cronisti dei vari TG lo ripetono instancabili. L'attentatore di Berlino era “attenzionato” Che vorrà mai dire? Semplice, la polizia gli prestava attenzione. Gli prestava attenzione ma non poteva arrestarlo, non esistevano prove a suo carico, e fin qui un vecchio garantista come me può essere d'accordo. Ma lo si poteva espellere no? Esaltava la guerra santa, odiava i cittadini dei pesi che lo ospitavano, si informava su come si costruiscono bombe artigianali, forse tutto questo non bastava per metterlo dentro, ma per rispedirlo al suo paese era più che sufficiente, direi. Soprattutto se teniamo conto che non viviamo in una situazione normale. Non è normale che i mercatini di Natale siano protetti da barriere anti TIR, né che stazioni ed aeroporti siano blindati, né che si debba passare attraverso dei metal detector per entrare in Chiesa. Se tipini come Anis Amri ci obbligano a questa anormalità noi possiamo, direi, prendere qualche contro misura e liberarci almeno di quelli come lui.
Invece non lo facciamo. Quelli come lui non vengono arrestati o espulsi ma ATTENZIONATI. Fino a quando fanno una bella strage. Solo allora possiamo arrestarli. Sperando che qualche magistrato non li rimetta in libertà perché li considera “resistenti” invece che terroristi.

ACCOGLIENZA DIFFUSA.
E' il nuovo slogan. Accoglienza diffusa. Cosa vuol dire? Semplice. Se ci sono 100 clandestini non vanno messi tutti e cento in un solo paese. Se ne mettono 10 in dieci località diverse, in maniera, “diffusa”, appunto. Fin qui tutto bene, ma...
Se i clandestini diventano 1.000 che si fa? Elementare Watson! Si prendono le dieci località di prima ed in ognuna se ne mettono 100.
E se diventano 10.000? Semplice, se ne mettono 1.000 in ognuna di quelle dieci località.
E se diventano 100.000? Semplice, se ne mettono 10.000.
E così via.
Il gioco può cambiare ovviamente.
Se ci sono 100 clandestini se ne può mettere UNO in cento diverse località.
Se diventano 1.000 se ne possono mettere DIECI in ognuno delle cento località.
Se diventano 10.000 se ne possono mettere CENTO in ognuno delle cento località.
E se diventano UN MILIONE? Se ne possono mettere 10.000 in ognuna delle cento località, oppure 1.000 in MILLE località.
Il gioco può andare avanti. Entri pure chi vuole, non mettiamo limite alcuno alla “accoglienza”. Ma, che sia DIFFUSA, per piacere!!!

MITTENTE SCONOSCIUTO.
Non possiamo rispedire a casa loro i migranti perché di molti non sappiamo neppure da dove vengano. Ho letto anche questo in uno pseudo giornale che giorni fa sfogliavo nella sala d'aspetto di un medico. Ma che bello!!! Riempiamo casa nostra di gente di cui neppure conosciamo la provenienza. E visto che non sappiamo da dove vengono dobbiamo tenerceli, vita natural durante.
Accogliamo clandestini che i paesi d'origine non vogliono indietro, cosa molto strana perché si tratta di “rifugiati politici” ed i paesi tirannici i dissidenti in fuga di solito li reclamano. Ne accogliamo altri di cui non sappiamo neppure da dove vengano. Insomma, dobbiamo fare entrare tutti, perché siamo contro i “muri” (a meno che non proteggano i mercatini di Natale) e non dobbiamo rispedire al mittente nessuno, anche perché a volte il mittente è sconosciuto.
Un paese serio prenderebbe questi signori e li accompagnerebbe, sotto adeguata scorta armata, ai porti di partenza. Ma noi non siamo seri, solo “accoglienti”. Diffusamente accoglienti.

Direi che basti, anche se si potrebbe continuare. Al peggio non c'è mai limite.


lunedì 26 dicembre 2016

ISRAELE E I TERRITORI

Per la ambasciatrice americana all'ONU l'astensione USA sulla risoluzione che condanna Israele per gli insediamenti nei “territori” garantirebbe la “sicurezza dello stato ebraico. Tale risoluzione favorirebbe una soluzione in linea col principio “due popoli due stati”, la sola in grado di garantire la pace ed insieme la sicurezza di Israele.
La questione è piuttosto importante, e val la pena di esaminarla in dettaglio. Vediamo.

Due popoli due stati.
Sono in molti, in occidente a parlare di “due popoli due stati” ed anche in medio oriente ci sono dei leader arabi che ripropongono ogni tanto questo slogan. Ma si tratta, nella gran maggioranza dei casi, di pura mistificazione.
I due popoli per due stati ci sarebbero dal 1948 se i paesi arabi avessero accettato la risoluzione 181 del 29 novembre 1947. Tale risoluzione infatti dava vita, insieme, allo stato di Israele e ad uno stato arabo palestinese, i famosi due stati per due popoli. Gli israeliani accettarono tale risoluzione, tutti i paesi arabi NO. Non era passata un'ora dalla approvazione di quella risoluzione che i vari stati arabi attaccavano militarmente il neonato stato di Israele. Da quel momento è stata guerra, una guerra che dura ancora oggi. Ed ancora oggi i movimenti palestinesi rifiutano l'esistenza dello stato ebraico. Hammas la rifiuta in maniera esplicita e nettissima. Ecco cosa dice in proposito il suo statuto:
Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. (...) la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio”. Più chiari di così si muore, altro che “due popoli due stati”!
La autorità nazionale palestinese dal canto suo non parla più di distruzione dello stato di Israele, ma si guarda bene dal riconoscerne esplicitamente il diritto alla esistenza entro confini sicuri. In particolare la ANP rifiuta di riconoscere Israele come stato ebraico e pretende che tutti i “profughi” palestinesi possano rientrarvi. I palestinesi però hanno questo di particolare: possono tramandarsi di padre in figlio lo status di profugo. Così nel tempo questi profughi sono incredibilmente cresciuti di numero, oggi sono circa cinque milioni di persone, quasi lo stesso numero degli ebrei israeliani. Per capirci, far tornare questi profughi in Israele sarebbe come accettare in Italia una quarantina di milioni di “profughi” musulmani. E' più che evidente che un simile ritorno distruggerebbe Israele in quanto stato degli ebrei. Per la ANP quindi “due popoli due stati” significa, insieme, creazione di uno stato palestinese e fine di Israele in quanto stato ebraico. In maniera meno diretta e brutale si persegue lo stesso obiettivo di Hammas: la distruzione di Israele.


I territori

I famosi territori di cui tanto si parla sono stati conquistati da Israele nella guerra dei sei giorni del 1967. In quella guerra Israele sconfisse una coalizione di paesi arabi, guidata dall'Egitto, che lo avevano aggredito mirando a cancellarlo dalla faccia della terra.
Chi considera i famosi “territori” una conquista “coloniale” degli “imperialisti israeliani” provi a fare un piccolo esperimento mentale.
E' appena finita la seconda guerra mondiale. L'Italia la ha condotta dalla parte sbagliata, ha assecondato la follia aggressiva e criminale della Germania hitleriana ed è stata sconfitta. Come conseguenza della sconfitta ha perso l'Istria, che è passata alla Jugoslavia. L'Italia però reclama a gran voce l'Istria ed accusa gli Jugoslavi di essere degli aggressori colonialisti. Non solo. Chi governa il nostro paese non si accontenta di rivolere l'Istria, ma strilla a gran voce che
la Jugoslavia non ha diritto di esistere e che tutto il suo territorio deve diventare parte dell'Italia.
Sembra fantascienza vero? Eppure è esattamente quello che accade per Israele. Gli arabi hanno perso dei territori perché sconfitti in una guerra di aggressione; malgrado questo, non si accontentano di reclamare i territori persi ma negano ad Israele vincitore il diritto di esistere. Se una cosa simile avvenisse in qualsiasi altra parte del mondo le grida di protesta toccherebbero il cielo. Ma succede in medio oriente, riguarda i rapporti arabo israeliani, quindi è tutto normale.


Sano realismo
Israele non ha mai fatto della conservazione dei territori un dogma intoccabile. Gli israeliani, o almeno, la loro netta maggioranza, desiderano solo di poter vivere in uno stato come tutti gli altri. Uno stato con confini sicuri, universalmente riconosciuto, non obbligato a difendersi da continui attacchi terroristici. Insomma, uno stato di cui nessuno debba dire che “ha diritto di esistere”. Al fine di raggiungere questo obiettivo gli israeliani hanno rinunciato in passato a grandi porzioni dei territori occupati. L'Egitto ad esempio aveva perso il Sinai nella guerra dei sei giorni, gli è stato restituito quando il presidente Sadat, superate le vecchie posizioni nasseriane ed antisemite, ha fatto proprio una politica realistica ed ha riconosciuto lo stato di Israele. Da allora Egitto ed Israele hanno convissuto l'uno accanto all'altro, in pace. Si è trattato di un fatto probabilmente senza precedenti nella storia: un paese subisce una aggressione, vince una guerra, conquista delle terre che successivamente cede
in cambio del semplice riconoscimento diplomatico. Quale stato “imperialista”, anzi, quale stato tout court si è mai comportato in questo modo?
E qualcosa di simile è avvenuto nei confronti dei palestinesi che reclamano un loro stato. I palestinesi il loro stato lo avevano avuto nel 1948, e lo hanno rifiutato; la Giordania del resto può a tutti gli effetti essere considerata uno stato palestinese. Dopo lunghe esitazioni gli Israeliani hanno accettato il principio dei “due popoli due stati”, anche se tutto l'atteggiamento dei palestinesi avrebbe giustificato una loro chiusura su questo punto. Si sono ritirati da Gaza per cederla ai palestinesi (cosa che l'Egitto non aveva mai fatto) ed hanno concesso ai palestinesi di Cisgiordania una amplissima autonomia.
Ma gli israeliani, se sono realisti, non sono per questo ingenui: pretendono che un eventuale stato palestinese riconosca Israele, e lo riconosca per quello che è, lo stato degli ebrei, gli riconosca dei confini difendibili e non chieda in cambio di tale, normalissimo, riconoscimento, ritorni in massa dei “profughi” palestinesi. Uno stato palestinese che nascesse senza che questo fosse stabilito con la massima chiarezza sarebbe una spina nel fianco di Israele e ne comprometterebbe la sicurezza. Basti pensare che se venissero ripristinati i confini del 1967 i missili palestinesi potrebbero colpire tutti i giorni Tel Aviv. Gli israeliani fanno benissimo a non cedere su questo punto.
 


Gerusalemme
“Gerusalemme è una città santa per tre religioni” si dice e si ripete spesso e volentieri. La affermazione è vera nella sostanza, ma gravemente inesatta. Gerusalemme è certamente sacra per
due religioni: quella ebraica e quella cristiana. Lo è anche per la religione musulmana solo perché i musulmani hanno la pessima abitudine di dichiarare sante per l'Islam molte delle città che conquistano.
Ma, tralasciamo. Dato per scontato che Gerusalemme sia una città sacra per le tre religioni monoteiste, resta da porsi una domanda: quale amministrazione è più affidabile nel garantire ai fedeli di
tutte e tre le religioni la libera professione della propria fede? Una Gerusalemme amministrata dagli israeliani garantirebbe maggiore o minore libertà di culto rispetto ad una Gerusalemme amministrata dai palestinesi? I musulmani sono più o meno tolleranti in materia religiosa degli ebrei? Basta porsi la domanda per avere la risposta. In Israele, paese grande quanto la Lombardia e costantemente nel mirino del terrorismo islamico, sorgono più di 200 moschee, quante sinagoghe esistono a Gaza? Quanto in Siria, quante in Iran?  


Insediamenti
Gli israeliani controllano territori che hanno conquistato in una guerra combattuta per garantire l'esistenza del proprio stato. Potrebbero cederne una gran parte, ma non possono farlo fino a che i palestinesi non riconosceranno senza se e senza ma il diritto di Israele ad esistere.
E' ammissibile che gli ebrei israeliani non possano vivere in nessuno dei territori solo perché questi potrebbero in futuro far parte di uno stato palestinese? Israele dovrebbe sobbarcarsi gran parte dei costi dell'amministrazione di territori in cui nessun suo cittadino dovrebbe avere il diritto di abitare? In Italia è esistito per molto tempo un movimento indipendentista in Alto Adige. Questo avrebbe dovuto impedire che in quel territorio vivessero cittadini italiani? Pochi, credo , potrebbero sostenere una simile tesi.
Cosa sono, alla fin dei conti questi famosi
insediamenti? Non sono altro che normalissime costruzioni di abitazioni civili in cui vanno a vivere dei civili israeliani. Tempo fa, a poche decine di metri dalla casa in cui vivo è stata costruita una villetta in cui è andata a vivere una famiglia albanese. Né io né nessun altro ha parlato di “insediamenti”, “aggressione coloniale” o simili idiozie. Lasciamo perdere gli esempi personali. In Israele vivono moltissimi arabi e nessuno parla di “colonizzazione” araba dello stato ebraico. Per i palestinesi la questione si pone in maniera del tutto diversa. Dove vivono loro non possono vivere gli ebrei, quanto meno, non possono vivere come liberi cittadini dotati dei loro stessi diritti e doveri. Quando gli israeliani hanno ceduto Gaza tutti gli abitanti ebrei della striscia hanno dovuto abbandonarla. Sono state smantellate le sinagoghe, addirittura rimosse le salme dai cimiteri. Qualsiasi traccia della presenza ebraica costituiva una insopportabile “offesa” per i palestinesi, quindi doveva essere cancellata, con la massima cura. Su questa base dovrebbero sorgere i famosi “due stati” per “due popoli”? Tutti coloro che appoggiano la soluzione dei due stati, sulla carta del tutto ragionevole, dovrebbero quanto meno porsi il problema dei diritti degli ebrei che per ventura dovessero trovarsi a vivere in uno stato palestinese. Ma i “pacifisti” questo problemino non se lo pongono. Pronti a strillare per ogni presunta violazione dei diritti dei palestinesi trovano del tutto normale la pretesa palestinese di non vedere neppure un ebreo nei loro territori, salvo poi cercarli, gli ebrei, quando c'è da trovare un lavoro o avere forniture di acqua e gas.  


Ipocrisia
Per concludere, la vicenda dei “territori” mostra tutta la doppiezza e l'ipocrisia dei sostenitori della causa palestinese. Gli israeliani hanno conquistato i territori in una guerra combattuta per affermare il loro diritto ad esistere, ma dovrebbero cederli senza avere in cambio neppure il riconoscimento diplomatico. Sostengono gran parte dei costi per la gestione dei territori ma nessun cittadino israeliano può vivere negli stessi, devono accogliere i “profughi” palestinesi ma questi non possono ammettere che un ebreo possa vivere accanto a loro. La sola esistenza di un cittadino ebreo costituisce una “offesa” per loro. E tutto questo sarebbe “pacifismo” e “tolleranza”. Servirebbe addirittura, come con somma ipocrisia ha detto l'ambasciatrice statunitense all'ONU, alla “sicurezza di Israele”. Si tratta invece di
antisemitismo, puro e semplice.

mercoledì 21 dicembre 2016

LA MORTE DELLA VERITA'

Qualcuno lo ricorda? Inizialmente i media parlavano di terrorismo islamico. Certo, i terroristi erano cattivi islamici, gente che travisava il vero senso delle parole del Corano, che non capiva che l'Islam è una religione di pace, ma pur sempre di islamici si trattava.
Poi, d'un tratto, gli occidentali politicamente corretti, e tutti i loro media, hanno scoperto che l'Islam col terrorismo non c'entra nulla.
“Questi non sono musulmani”, sono criminali, ebbe a dire il leader inglese Cameron subito dopo uno sgozzamento filmato e diffuso in rete per la gioia dei tagliagole di mezzo mondo. Gli ha fatto eco papa Francesco: “i terroristi adorano solo il Dio denaro” ha detto. L'islam non c'entra nulla con loro. Si tratta di agenti di borsa mascherati da fondamentalisti.
Infine hanno stabilito che non esiste neppure il terrorismo. Il massacro di Berlino è un atto terroristico? Non si sa, brancoliamo nel buio, hanno ripetuto per ore dai teleschermi i pennivendoli di regime. Forse si tratta di una manovra fatta male, di un normalissimo incidente stradale. Oppure del gesto di uno squilibrato.
E si, ultimamente gli squilibrati diventano sempre più numerosi. Un tale accoltella gente a casaccio su un tram? E' uno squilibrato, da giovane litigava col padre. Un altro spara ad un passante? È uno squilibrato con problemi sessuali, pare abbia difficoltà di erezione. Un altro ancora si fa esplodere in una pizzeria? E' uno squilibrato: da ragazzino a scuola ha subito atti di bullismo.
Prima hanno trasformato persone che passano metà del loro tempo a studiare il Corano in “cattivi” o “falsi” islamici.
Poi hanno stabilito che l'Islam col terrorismo non c'entra proprio nulla ed hanno trasformato i terroristi islamici in speculatori di borsa.
Infine hanno tolto dalla scena il terrorismo stesso. Il terrorismo non esiste, esistono incidenti, manovre sbagliate con dei TIR ed un esercito di squilibrati.

Quale sarà il prossimo passo? Probabilmente la scomparsa dei fatti.
Nessun camion ha mai investito nessuno in un mercatino natalizio. Le torri gemelle sono crollate? Ma... chi lo dice? No, sono sempre in piedi, vedete? Sono là. Strage al Bataclan? Ma quando mai? Al Bataclan si tengono concerti... basta con le paure diffuse ad arte dagli islamofobi!
Esagero? Mica tanto. Qualcuno ricorda gli stupri di Colonia? La notte di San Silvestro del 2015 moltissime ragazze tedesche sono state pesantemente molestate, alcune anche stuprate, da numerosi “migranti”. La cosa è rimaste segreta per molti giorni. Non solo. Nelle settimane successive è venuto fuori che atti simili si ripetevano da lungo tempo e che erano sempre stati tenuti nascosti. Diffonderli avrebbe favorito l'ostilità nei confronti dei nostri fratelli migranti, perbacco! Ed ancora, nascondere i fatti quando ci sono di mezzo i migranti sta diventando uno sport in cui eccellono i pennivendoli di regime. Un giovanotto accoltella a caso un passante? Si tratta, ragliano gli annunciatori e cinguettano le annunciatrici dai teleschermi, di un ragazzo francese di venti anni. Poi, molto tempo dopo, vien fuori che quel ragazzo “francese” si chiama Mohamed , o Assam, o Alì.
La distruzione della verità ha radici profonde nella cultura della sinistra comunista. Quando prese il potere nel partito Stalin stabilì che Trotskij aveva tradito il proletariato internazionale ed era diventato un agente dell'imperialismo. Dopo qualche tempo svelò al mondo che Trotskij non aveva tradito il proletariato, ma era sempre stato un agente dell'imperialismo. La realtà non esiste, fa dire Orwell all'inquisitore in “1984, quindi non esiste la verità. E' vero ciò che il partito stabilisce essere vero, e lo è fino a quando vuole che lo sia.
Oggi agli inquisitori stalinisti ed orwelliani si sono sostituite le vestali del politicamente corretto. Sarebbero felicissimi, questi personaggi, di eliminare i fatti, trasformare la verità in una loro creazione. Per fortuna ancora non ci riescono, quanto meno, non completamente. La tanto vilipesa rete svolge una funziona preziosissima e positiva nel rendere difficile a questi personaggi la totale distruzione della verità.
Ma a questo mirano, alla morte della verità, possiamo esserne certi.

lunedì 19 dicembre 2016

DIECI PICCOLE VERITA'

Gramsci diceva che la verità è rivoluzionaria. Aveva ragione, anche se il movimento comunista, di cui Gramsci fu esponente di primo piano, ha istituzionalizzato la menzogna. Oggi possiamo dire che la verità, rivoluzionaria o meno che sia, è essenziale per chiunque intenda evitare il collasso finale della nostra civiltà.
Proviamo ad elencare alcune verità. Si tratta di verità semplici, addirittura ovvie. Non richiedono per essere scoperte alcuna particolare erudizione, nessuna geniale intelligenza. Ma sono negate, tutti i giorni, 24 ore al giorno, da un sistema mediatico goebbelsiano. Per questo è vitale ribadirle.

1) L'Islam NON E' una religione di pace. E' al contrario une religione aggressiva che mira ad imporsi ovunque non disdegnando di usare a tal fine metodi che con la pace non hanno nulla a che vedere.

2) Non tutto l'Islam è fondamentalista e terrorista, ma il fondamentalismo terrorista è un fenomeno islamico, qualcosa che trova nella cultura e nella religione islamiche un formidabile terreno di crescita.

3) Esiste un islam fondamentalista e terrorista, in compenso non esiste un islam democratico, laico e liberale. Questo differenzia l'Islam da altre religioni al cui interno si sono sviluppate, accanto e contro le posizioni integraliste, correnti di pensiero aperte alla modernità.

4) Il massimo che l'Islam oggi possa offrirci sono dei dittatori ragionevoli. Ben vengano ovviamente i dittatori ragionevoli, ma spacciarli per laici democratici è un insulto alla verità.

5) L'Islam non è violento solo contro l'occidente, lo è anche contro se stesso. Le guerre civili non sono una eccezione nel mondo islamico, ma quasi una tragica, sanguinosissima normalità.

6) Non tutti i “migranti” sono terroristi e fondamentalisti, anzi, fra loro ci sono certamente delle vittime del fondamentalismo terrorista. Ma la grande maggioranza dei “migranti” fa propria una cultura che costituisce il brodo di cottura del fondamentalismo terrorista ed assassino.

7) Ogni discorso sul contrasto al terrorismo è ridicolo se non si blocca il flusso continui , massiccio , incessante dei clandestini.

8) Se solo una parte, importantissima, dell'Islam è fondamentalista, TUTTO l'Islam è caratterizzato da una cultura che con la nostra non ha nulla in comune. Tutto l'Islam considera reati, da punire in maniera severissima, quelle che per noi sono espressioni della libertà personale.

9) Continuare ad “accogliere” clandestini non ci espone solo ai rischi del terrorismo, ma modifica nel profondo le basi stesse della nostra civiltà. Distrugge i principi su cui qui da noi si fonda la civile convivenza. Stravolge dalle fondamenta il patto sociale in cui la stragrande maggioranza di noi si riconosce.

10) Tutto questo è destinato a modificare in maniera irreversibile le regole del gioco democratico.

Dieci piccole verità. Nulla di sconvolgente, Cose ovvie per le persone di buon senso. Ma, quanto buon senso esiste nel decadente occidente di oggi?

domenica 18 dicembre 2016

VICESINDACA

Tizia, una gentile signora, è “sindaca” di una città italiana. Caio, un barbuto omaccione, è il suo vice. Caio è vice sindaco o vice sindaca? Un bel problema.
Nel termine composto “vicesindaco, la parola “sindaco” posta subito dopo “vice”, si riferisce, appunto, al sindaco, a chi copre la carica di sindaco. Se il sindaco è una “sindaca”, il suo vice deve essere definito vice sindaca, anche se a coprire la carica di vice è un essere umano di sesso indubitabilmente maschile.
Declinare al femminile il termine “sindaco” rende immediatamente impossibile declinare al femminile il termine “vice sindaco”. Se il sindaco è di sesso maschile, il suo vice sarà vicesindaco anche se si tratta di una graziosa fanciulla, se invece il sindaco è di sesso femminile, una “sindaca”, il suo vice sarà “vicesindaca” anche se porta barba e baffi. Tutto questo ovviamente se la logica conserva un minimo di senso, cosa che non darei troppo per scontata.
Le vicende di “vicesindaco” dovrebbero dimostrare abbastanza chiaramente a chi ha conservato un minimo di capacità di raziocinio che la declinazione al femminile (o al maschile) di alcuni termini indicanti cariche o funzioni è priva di senso. Certo, probabilmente non è casuale che termini come “sindaco” abbiano una desinenza al maschile. Forse ha inciso nel formarsi di tale desinenza il fatto che per lungo tempo cariche come quella di sindaco erano riservate esclusivamente agli uomini. Ma lo sviluppo storico, lo stesso in cui si sono formate certe parole, ha modificato, ampliandolo, il modo in cui oggi queste vengono intese. Oggi tutti sanno che il termine “sindaco” indica una carica, non il sesso di chi la ricopre, e nessuno si stupisce se a coprire quella carica è un essere umano di sesso femminile. Le vestali del radicalismo femminista però non si accontentano. Il loro fine non è un linguaggio che serva a comunicare correttamente e, se possibile, in maniera esteticamente gradevole. No, il loro fine è la sessualizzazione del linguaggio. Piene di furore ideologico si riuniscono e modificano a tavolino la lingua parlata per adattarla alle loro fisime ideologiche. E così, dall'oggi al domani, sui giornali e sulle TV tutti parlano di “sindache” e ministre”, stuprando la lingua italiana.
Cosa ci aspetta nel prossimo futuro? La signora Boccassini diventerà una “magistrata”? Addirittura una “pubblica ministera”? E' possibile anche se su questo le vestali sembrano procedere coi piedi di piombo. Chissà, qualche magistrato, maschio o femmina che sia, potrebbe pensare che lo si sta prendendo in giro e spedire ai riformatori linguistici un avviso di garanzia. non si sa mai...

Un po' stupisce che tanta gente, anche lontana dal politicamente corretto si adegui alla barbarie linguistica imperante. Personaggi insospettabili parlano tranquillamente della “sindaca” di Roma, accettano come naturale la violenza al linguaggio che per altri aspetti rifiutano, ad esempio quando definiscono, giustamente, “clandestini i” presunti “profughi”. Come mai?
Molti probabilmente subiscono il ricatto psicologico che sta dietro all'uso di certe parole. Se non dici “sindaca” sei un nemico delle donne, un bieco, immondo, maschilista. Inoltre ritengono che si tratti, tutto sommato, di una questione secondaria. Usiamo pure la parola “sindaca”, che male c'è?
Si tratta di un errore gravissimo, a mio parere. Usare termini come “sindaca” o “ministra” è grave perché usandoli si avalla l'azione di tutti coloro che pensano che la lingua possa essere costruita a tavolino ed imposta d'imperio ai parlanti. Dietro a termini come “sindaca”, o “normodotato” o “afroamericano” non c'è nessuna evoluzione spontanea, molecolare, del linguaggio e neppure alcuna opera di abbellimento dello stesso messa in atto da scrittori e letterati, qualcosa di simile, per intenderci, a quanto fatto da un Dante e da un Manzoni. No, dietro a quei termini c'è solo la prepotenza burocratica di chi usa coscientemente la lingua a fini politico-ideologici. Perché la manipolazione del linguaggio in atto risponde a finalità ideologiche, questo va ribadito con la massima chiarezza. Si vuole costruire una neolingua totalmente funzionale alla ideologia politicamente corretta che sta uccidendo la nostra civiltà. I termini che in qualche modo contrastano con questa ideologia vanno espulsi dal linguaggio, chi li usa va prima emarginato, poi, possibilmente, punito. Chi non usa “sindaca” è un maschilista nemico delle donne, chi rifiuta “afroamericano” è razzista, chi parla di “terrorismo islamico” invece che di “terrorismo di matrice islamica” è islamofobo e così via.
Altro che questione secondaria! NON usare, fra le altre, una parola come “sindaca” vuol dire difendere la libertà di tutti. Degli uomini come delle donne.

venerdì 9 dicembre 2016

MAGGIORITARIO, PROPORZIONALE

I sistemi maggioritario e proporzionale esprimono due diverse concezioni, potremmo dire due diverse filosofie della democrazia. Rispondono a due domande diverse.
Nel sistema maggioritario il corpo elettorale sceglie chi lo governa, nel sistema proporzionale chi lo rappresenta nelle istituzioni. Per i sostenitori del sistema maggioritario la domanda fondamentale è: chi ci deve governare? E ad essa rispondono: “ci deve governare chi vince le elezioni”.
Per i sostenitori del proporzionale invece la domanda fondamentale è: “
chi deve stare nelle istituzioni?” e a questa rispondono: “deve stare nelle istituzioni chi rappresenta il popolo nelle sue varie articolazioni”.
Governabilità contro rappresentanza, quindi.
La contrapposizione ovviamente non è totale ed assoluta. Nei sistemi maggioritari esistono in parlamento una maggioranza ed una minoranza che rappresentano in qualche modo le articolazioni del corpo elettorale; nei sistemi proporzionali la maggioranza sostiene i governi ed assicura in questo modo la governabilità del paese. Il contrasto è di accenti, punti vista, ma non per questo secondario o privo di importanza. Influisce invece, e profondamente, sulla struttura istituzionale degli stati.
Nei sistemi proporzionali il popolo non elegge il capo del governo, meno che mai il capo dello stato. Questo nel proporzionale è un “arbitro imparziale” che ha il compito di “dirigere il gioco” senza cercare di influenzarlo. Gli elettori votano per i vari partiti; una volta eletti, i parlamentari cercano, sotto la regia del capo dello stato, di formare una maggioranza di governo. In questi sistemi non esiste una corrispondenza immediata fra volontà popolare e maggioranze che sostengono i governi. Nel sistema costituzionale italiano, ad esempio, qualsiasi maggioranza si formi in parlamento è lecita, indipendentemente dalla sua coerenza con l'espressione della volontà popolare. La cosa può piacere o non piacere, ma
non viola alcuna norma costituzionale.

La costituzione italiana infatti è
integralmente e coerentemente disegnata in armonia con il sistema proporzionale. Si discute molto in questi giorni della costituzionalità di certe leggi elettorali, e la cosa è leggermente ridicola. Vorrei sapere se esiste qualche altro paese dell'occidente ove non solo si facciano leggi elettorali una volta all'anno, ma tutte corrano il rischio di essere dichiarate incostituzionali. Da dove origina una simile aberrazione? Molto semplice: dalla pretesa di innescare leggi elettorali in qualche modo maggioritarie sul corpo di una costituzione coerentemente disegnata sul proporzionale.
In Italia, quando c'è una crisi di governo il capo dello stato convoca i partiti, affida a qualcuno l'incarico di formare un governo che possa godere dell'appoggio di una maggioranza parlamentare (attenzione, di
una maggioranza, non della maggioranza uscita vincente alle elezioni). Se l'incaricato ce la fa il governo si presenta alle camere per chiedere la fiducia, se no il gioco ricomincia, altre consultazioni, altro incarico, e così via.
Una simile procedura può piacere o meno, ma non ha
niente a che vedere con l'elezione popolare del capo del governo, quindi con la designazione del candidato premier, con le famose “primarie” e cose simili. Non è neppure compatibile con una riforma come quella appena bocciata al referendum. Questa infatti aboliva il senato, ma non toccava minimamente le attribuzioni ed i poteri del capo dello stato, non trasformava in alcun modo l'impostazione proporzionale su cui tutta la nostra costituzione è disegnata.
Non a caso disegnata in questo modo, si può aggiungere. La “costituzione più bella del mondo” è, come sanno anche i poppanti, figlia di un compromesso. Non però di un compromesso fra liberali e socialisti democratici, laici e cattolici, conservatori e progressisti. No, la nostra costituzione è figlia di un compromesso fra forze politiche più o meno occidentali e
comunisti stalinisti. Se si tiene presente questo piccolo particolare tutto si spiega. Ad esempio che nella prima parte della costituzione si parli non solo di alcuni generalissimi principi democratico liberali, ma praticamente di tutto. Di risparmio e lavoro, pace e guerra, scuola e famiglia, chiesa e ricerca scientifica, diritto di sciopero e proprietà privata, cercando sempre, su tutti questi argomenti, di conciliare punti di vista diametralmente opposti.
E, passando dal livello dei principi generali a quello dei meccanismi istituzionali, non è casuale che una costituzione figlia di un compromesso fra forze liberali e cattoliche democratiche, da un lato, e staliniane dall'altro, si caratterizzi per lo scarsissimo spazio che concede alle istanze della governabilità. Capo dello stato “arbitro imparziale”, bicameralismo perfetto, fluidità delle maggioranze, irresponsabilità della magistratura, sono tutte figlie della paura reciproca che caratterizzava i nostri “padri costituenti”. Quando la “costituzione più bella del mondo” è stata scritta i democristiani di De Gasperi temevano che i comunisti di Togliatti tentassero in Italia quello che i loro compagni avevano fatto nei paesi “liberati” dall'armata rossa. I comunisti stalinisti dal canto loro stavano buoni perché temevano i marines. Si sfrondi il discorso sulla costituzione dalla retorica e dall'ipocrisia e si deve constatare che la nostra costituzione è figlia di una situazione di semi guerra civile.
Ma pensare di cambiarla sul serio è vietato. Così abbiamo avuto riforme pasticciate e un po' truffaldine come quella proposta da Renzi, ed abbiamo le chiacchiere sui governi tecnici, di scopo, istituzionali, del presidente eccetera eccetera.
E mentre i politici discutono, ogni giorno sbarcano clandestini che sulla costituzione hanno idee molto chiare. Esiste una sola costituzione, e questa è il CORANO, punto. Ci penseranno loro a mettere tutti d'accordo.

lunedì 5 dicembre 2016

RENZI


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E' stato un referendum su Renzi ed il fiorentino lo ha perso, in maniera nettissima.
I mille giorni di Renzi sono stati caratterizzati da una contraddizione ogni giorno più acuta: quella fra il dire ed il fare, i proclami e la realtà.
Ha parlato di riduzione della pressione fiscale, una sorta di mosca bianca nel panorama della sinistra italiana, occorre ammetterlo. Ma la pressione fiscale la ha lasciata sostanzialmente invariata.
Ha parlato di contenimento del disavanzo, ma ha elargito mance un po' a tutti.
Ha fatto la voce grossa con l'Europa, salvo poi allinearsi a tutti i diktat della UE.
Ha fatto così anche con la riforma istituzionale. Continuo a pensare che fosse giusto superare il bicameralismo perfetto, ma Renzi ha preteso di sostituire ad un senato eletto uno nominato dai consigli regionali: un mostro giuridico. E una gran furbata, se fosse stata approvata la riforma istituzionale avrebbe praticamente regalato il senato al PD; il popolo bue questo lo ha capito, benissimo.
Soprattutto, il governo Renzi ha messo in atto una politica che non ha precedenti in tutta la storia universale. Mai, da nessuna parte, in nessuna epoca, si è vista la marina militare di un paese andare a prendere i clandestini a casa loro per condurli fino alle porte di casa propria. Mai eravamo stati obbligati ad assistere allo spettacolo degradante di navi danesi, svedesi, greche eccetera che raccolgono qua e là un certo numero di clandestini e li portano, TUTTI, in ITALIA. Una cosa umiliante: il bel paese ridotto al ruolo di imbuto d'Europa, un imbuto, tra l'altro, ostruito visto che nessuno ormai vuole più “risorse” a casa sua. Nessuno, tranne l'Italia.

Tutto questo ha pesato, e tanto, nel voto di ieri. Ed ha pesato, tanto, un'altra cosa. Gli italiani sono stufi di governi privi di qualsiasi legittimazione popolare. Non si tratta del fatto che in Italia non è prevista l'elezione diretta del premier. Si tratta della assoluta, totale contraddizione fra chi governa e la volontà dei cittadini così come è stata espressa nel voto. Un tempo i governi erano retti da maggioranze che avevano vinto le elezioni, erano in qualche modo legittimati. Renzi ha governato per mille giorni sostenuto da una maggioranza composta da ex seguaci di Bersani e da transfughi da Forza Italia. Eletti, tra l'altro, grazie ad una legge dichiarata incostituzionale. Qualcosa con nessun precedente, mi pare, nella storia dell'Italia democratica.

E ora? Non ho la sfera di cristallo, non so come andrà a finire. Probabilmente andiamo incontro ad un periodo di fortissima instabilità che potrebbe riservare sorprese molto brutte. Trovo patetico D'Alema che gioisce per la sconfitta del suo nemico: di certo non saranno lui ed gli esponenti della sinistra PD i beneficiari della rotta di Renzi. Il centro destra è profondamente diviso ed in crisi. Riuscirà a rimettersi in forze in tempi brevi? C'è da dubitarne. Il movimento di Grillo potrebbe essere il beneficiario del crollo di Renzi, molto dipenderà dalla nuova legge elettorale che ormai è obbligatorio varare. Renzi era tanto sicuro della vittoria che non si è neppure premunito di fare una legge elettorale valida anche per il senato, una ulteriore prova del suo non profondissimo acume politico.
In ogni caso, è meglio, credo, una fase aperta, che metta di nuovo al centro il corpo elettorale, che l'indefinita prosecuzione della sostanziale sospensione della democrazia che ormai da tempo caratterizza l'Italia.
Di certo non viviamo in tempi facili. Così va il mondo.

martedì 29 novembre 2016

L'ACCERCHIAMENTO IMPERIALISTA

E' uno degli argomenti più usati da chi difende Castro. Cuba era ed è assediata, dicono. “Come potete pretendere che una piccola isola posta a due passi dal gigante imperialista, possa vivere una normale vita democratica?”.
L'eliminazione della dissidenza, le violazioni di elementari diritti umani, le stesse misure “eccessive” di repressione sarebbero una conseguenza dell'”assedio” cui Cuba era, ed è, sottoposta. Ancora una volta la colpa di tutto è dell'imperialismo occidentale, quello americano, per essere precisi.
Non si tratta di un argomento nuovo. E' stato usato per difendere le dittature di Lenin e Stalin prima, quelle di Mao, Pol Pot e dei vari dittatori comunisti poi. Alla base di tutto c'è sempre l'”assedio” la guerra civile, reale o potenziale, che il capitalismo imperialista ha imposto ai paesi che avevano osato sfidarlo.
Il discorso però non sta in piedi, a nessun livello.

Nel 1940, dopo il crollo della Francia, la Gran Bretagna si trovò a dover combattere da sola contro la formidabile macchina da guerra nazista. Tutta l'Europa continentale, dall'Atlantico ai confini con l'URSS, era nelle mani di Hitler. La Russia sovietica, la stessa che Castro ha tanto amato, collaborava amichevolmente col dittatore nazista fornendo alla Germania numerose materie prime necessarie al suo sforzo bellico. La situazione era difficilissima, quasi disperata. Ma mai, anche in una simile situazione, la Gran Bretagna smise di essere una democrazia. Certo, furono posti limiti alla normale vita democratica, ma si trattò di limiti mille volte meno gravi di quelli che per svariati decenni sono stati imposti al popolo cubano, e a quelli sovietico, e cinese, e coreano, e polacco, e ungherese, e rumeno, e albanese, e tedesco orientale, e cambogiano...
Anche nell'ora del pericolo supremo la Gran Bretagna ha continuato ad essere una democrazia liberale.

Da quando è nato, nel 1948, lo stato di Israele è in guerra. Un paese non più grande della Lombardia, con sei – otto milioni di abitanti è circondato da centinaia di milioni di fanatici che sognano solo di cancellarlo dalla faccia della terra. Anche nei periodi formalmente di “pace” Israele è tormentato da continui attacchi terroristici che mietono di continuo vittime fra i civili. Ogni tanto gli eroici militanti di Hammas si divertono a bersagliarlo con missili che uno pseudo filosofo di casa nostra ha definito “armi giocattolo”. Eppure Israele continua ad essere una democrazia. Nel suo parlamento siedono rappresentanti della minoranza araba che spesso e volentieri simpatizza con i terroristi di Hammas. Malgrado sia nel mirino del fondamentalismo islamico in Israele sorgono oltre 200 moschee e la libertà religiosa è rigorosamente garantita. E, sia detto per inciso, gli stessi che giustificano Castro con l'argomento dell'”assedio imperialista” lanciano al cielo strilli di indignazione quando Israele, per difendersi dal terrorismo, mette in atto comprensibilissime misure difensive, come il famoso “muro”. Un embargo colabrodo giustifica oltre mezzo secolo di dittatura feroce, continui attacchi terroristici non giustificano qualche chilometro di filo spinato. Molto significativo.

Ma l'argomento dell'assedio e della guerra civile non sta in piedi, oltre che a livello storico, neppure a livello dell'analisi teorica della dottrina marxista – leninista. E questo per il banale, semplicissimo motivo che è proprio quella dottrina a prevedere, ed a perseguire, la guerra civile.
Lenin riconduce tutta la dialettica sociale alla lotta fra oppressi ed oppressori. Le varie classi sociali non proletarie sono composte da sfruttatori o loro complici, più o meno consapevoli. L'imprenditore è il nemico principale, lo sfruttatore che si nutre di plusvalore operaio. Commercianti ed artigiani, contadini autonomi, professionisti sono, anche loro, sfruttatori, parassiti improduttivi o, nella migliore delle ipotesi, rappresentanti di modi di produzione obsoleti destinati ad essere spazzati via dalla “ruota della storia”. Non si salva neppure la gran massa dei lavoratori dipendenti, degli stessi operai. La classe operaia è rivoluzionaria solo se e quando assimila la “scienza proletaria” di cui il partito è detentore. Se condividono le “illusioni riformiste e piccolo borghesi” gli stessi operai diventano “oggettivamente” complici del “nemico di classe”.
Per Lenin la formazione di classi e ceti diversi non è un fenomeno sociale fisiologico, qualcosa che il movimento molecolare della società tende di continuo a creare e che occorre governare ed inquadrare in regole valide per tutti. No, per il rivoluzionario russo, e per tutti i teorici della rivoluzione comunista, la differenziazione in ceti è classi fa parte della patologia della società. Una patologia storicamente necessaria, certo: buon hegeliano come Marx, Lenin crede nella astuzia della ragione che condurrà la storia al suo fine prestabilito. Ma una patologia che è ormai giunto il momento di estirpare. Lo scontro politico non ha il fine di ottenere il diritto a governare nel rispetto di determinate regole, ha quello ben diverso di distruggere il nemico di classe e rivoltare come un guanto, insieme, la società e la natura umana.
Tutto questo, dovrebbe essere chiaro, non ha assolutamente nulla a che vedere con il gioco democratico, il rispetto per i fondamentali diritti delle persone, il pluralismo sociale e politico. E Lenin, come prima di lui Marx, lo ammette con grande onestà intellettuale. Irride chi parla di democrazia, pluralismo, diritti delle persone. Li considera piccoli borghesi oggettivamente alleati del nemico di classe. Per il rivoluzionario russo, e per tutti i comunisti autentici, la dinamica sociale è da equiparare alla guerra di classe e la guerra di classe si conduce senza troppi scrupoli umanitari. La guerra civile non è quindi, come affermano oggi certi improvvisati difensori di Castro e Guevara, qualcosa che venga imposto ai comunisti da un nemico non democratico e particolarmente aggressivo, è da sempre il fine prestabilito della loro azione.

Nell'Ottobre del 1917 Lenin e Trotskij attuano il colpo di forza, approfittando della situazione di caos totale in cui versa la Russia post zarista. Il colpo riesce, e da subito i bolscevichi dimostrano quali sono le loro intenzioni. Scioglimento della Assemblea costituente, voluta dai bolscevichi, ma “rea” di vantare una grossa maggioranza (il 58% circa) di socialisti rivoluzionari; messa fuori legge di tutti i partiti non bolscevichi; restrizioni alla attività dei sindacati e poi loro riduzione al ruolo di cinghia di trasmissione del partito; progressiva riduzione della stessa libertà interna al partito unico al potere sono le misure che, da subito, i comunisti russi misero in atto. A queste si accompagnarono le confische delle proprietà, prima le più grandi poi anche le più modeste, le restrizioni prima e la abolizione subito dopo della libertà di stampa, la irregimentazione della cultura, le persecuzioni contro la Chiesa. Soprattutto, fu messa in atto una politica di guerra contro i contadini, coloro che, con gli operai, avrebbero dovuto essere i beneficiari privilegiati del bolscevismo. Le selvagge requisizioni della produzione agricola causarono autentiche carestie in cui morirono milioni di esseri umani. Nella patria dei lavoratori risorse il cannibalismo.
L'esperienza delle altre rivoluzioni comuniste, compresa quella cubana, è del tutto simile. Castro si presentò all'inizio come un democratico radicale, ma si guardò bene dall'indire le elezioni che aveva promesso. Si disfece rapidamente dei sui compagni di lotta non comunisti, mise in atto una ondata di nazionalizzazioni e ridusse la piccola proprietà agricola a dimensioni ridicole. Poi avrebbe imposto a tutta l'isola la follia della monocultura. In compenso ampliò rapidamente le dimensioni delle carceri e dei campi di lavoro. Nulla di nuovo sotto il sole, la stessa, tragica trafila dei precedenti esperimenti comunisti. E lo stesso tragico fallimento.

Non mi interessa discutere sulla storia dell'URSS o di Cuba. Quello che voglio sottolineare è che la politica messa in atto dai vari partiti comunisti che, in un modo o nell'altro, si sono impadroniti del potere è sempre stata una politica di guerra. Mettere fuori legge i partiti rivali, abolire la libertà di stampa, eliminare le libertà personali, confiscare senza indennizzo le proprietà grandi e piccole, requisire il raccolto ai contadini, obbligarli ad entrare in fattorie collettive o “comuni popolari” sono atti di guerra. Li si può giudicare come si vuole, ma non si può negare il loro carattere aggressivo e del tutto estraneo allo spirito ed alla lettera della democrazia pluralista. E, se si dichiara guerra a qualcuno è normale che questi combatta, e metta in atto a sua volta misure di guerra. Chi addebita alla guerra civile gli “eccessi” del comunismo dimentica, molto semplicemente che sono stati questi “eccessi” a scatenare la guerra civile. Per tornare alla prima e più importante esperienza di comunismo reale, se Lenin non avesse sciolto la assemblea costituente e non avesse messo fuori legge Cadetti, socialisti rivoluzionari e menscevichi la guerra civile non ci sarebbe stata. E non ci sarebbero stati i ventidue milioni circa di morti che baffone Stalin ha lasciato in eredità al genere umano.
Coloro che parlano delle “pressioni dell'imperialismo” come della causa di quanto anche a loro appare poco difendibile nella esperienza cubana non dicono assolutamente nulla di nuovo. Dal 1917 in poi “l'accerchiamento imperialista” è stata la scusa per mandare al plotone d'esecuzione, o in campi di lavoro non dissimili dai lager nazisti, esserei umani in quantità industriali.
La novità, parziale, è che oggi sono presunti democratici liberali a ripetere questa noiosa favoletta.
L'occidentale progressista, appena smette di dire che l'Islam è una religione di pace, si guarda intorno, gli viene in mente Cuba e cinguetta che, senza quei cattivoni di americani Castro avrebbe creato una stupenda democrazia sociale caraibica. Poi volge lo sguardo alla storia ed assolve, con argomenti simili, quei simpatici dittatori illuminati che sono stati Stalin, Mo e Pol Pot. Il poverino non vive nel mondo reale, ma in una realtà virtuale tutta sua, una specie di video gioco. Non disturbiamolo, l'impatto col mondo vero potrebbe essergli fatale.

domenica 27 novembre 2016

PENSIERINI SU CUBA


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LA STORIA

Su Castro è iniziato il solito festival dell'ipocrisia. “Lo giudicherà la storia” ha detto il presidente Obama. Ma la storia non giudica nessuno. Sono gli uomini che devono giudicare, e già da oggi abbiamo sufficienti elementi per dare un giudizio su Fidel Castro. Obama non vuole esprimerlo questo giudizio? Liberissimo, ma non si richiami, per favore, alla storia. Tra l'altro, richiamarsi al “giudizio della storia” è tipico di chi aspira alla dittatura totalitaria. Molti hanno ricordato, ieri, la famosa frase di Castro “condannatemi, la storia mi assolverà”. Nessuno però ha rammentato che un certo Adolf Hitler pronunciò una frase simile al processo che lo vedeva imputato dopo il famoso putsch di Monaco del 1923. Gli individui cosmico storici non rispondono alle leggi ed alla comune morale. Loro giudice inappellabile è sempre “la storia”. Deportazioni di massa, massacri, eliminazione dei rivali politici, distruzione di ogni libertà, miseria generalizzata...
giudicherà la STORIA!!! 


LA SALUTE, LA ALFABETIZZAZIONE, LO SPORT
Certo, Fidel era un dittatore ma... a Cuba ci sono dei gran begli ospedali, e l'analfabetismo è scomparso, e... quante medaglie hanno vinto gli atleti cubani! Anche questo ci tocca sentire!
La nazionale italiana di calcio vinse due mondiali consecutivi al tempo del fascismo. La squadra olimpica della Germania nazista si qualificò prima nel medagliere alle olimpiadi del 1936. Sempre ai vari giochi olimpici l'URSS e la RDT hanno fatto per decenni incetta di medaglie. E allora? Lo sport è da sempre una delle vetrine privilegiate dei regimi totalitari.
Come la spesa sanitaria. Uno stato che ha in mano tutto può benissimo permettersi di spendere grandi somme in opere destinate a raccogliere applausi ovunque nel mondo. Detto per inciso, sono di Mussolini le "paludi redente" ed Hitler ridusse drasticamente la disoccupazione. Simili exploit però non sembrano migliorare molto la qualità della vita delle popolazioni. Per tornare alle spese sanitarie, anche dando per buoni i dati diffusi da una dittatura opprimente, nella classifica dei vari stati per speranza di vita Cuba occupa il
trentanovesimo posto, con una speranza di vita di 78,22 anni superata non solo da paesi come l'Italia della “malasanità”, terza con 84,84 anni, ma anche da Cile, Bharein, Panama, Qatar, Porto Rico e Costa Rica. Insomma, la sanità cubana è una meraviglia ma a Cuba si muore prima che altrove.
Quanto alla alfabetizzazione, ferme restando le riserve sulla attendibilità dei dati statistici diffusi dalle dittature, tutti gli stati che abbiano anche solo cercato di imboccare la strada della crescita economica hanno fatto passi da gigante in questo settore. Il tasso di analfabetismo nei paesi in via di sviluppo, Africa compresa, è sceso dal 75% al 15% dal 1915 al 1980. Non c'è davvero bisogno di una dittatura totalitaria per insegnare alla gente a leggere e a scrivere. Con una doverosa precisazione: l'analfabetismo è ormai solo un ricordo in occidente, ma in paesi come la Gran Bretagna o l'Italia si possono leggere
anche gli scritti di Guevara e Castro, a Cuba solo questi, o quasi. Non è una differenza di poco conto.
 

L'EMBARGO
Che cattivi gli americani! Hanno messo l'embargo a Cuba! Ecco perché l'isola era tanto povera. Anche questo si sente e si legge.
Fidel ha nazionalizzato senza indennizzo alcuno tutte le imprese americane a Cuba, poi è diventato alleato di ferro della Russia sovietica in un periodo in cui la terza guerra mondiale sembrava non solo possibile ma addirittura probabile. Poi ha installato missili a testata nucleare puntati verso gli Stati Uniti. Questi hanno commesso molti grossolani errori con Cuba, specie, per inciso, durante l'amministrazione Kennedy, il leader maximo dei “liberal”. Ma che il gigante americano non amasse Fidel è piuttosto logico, direi. Del resto, l'embargo è sempre stato un colabrodo e non può assolutamente essere considerato responsabile della povertà estrema dell'isola. La miseria generalizzata è stata la caratteristica di tutte le esperienze di pianificazione burocratica o demagogico - populista, da Cuba al Venezuela, dalla Cina alla Corea del nord. Fidel ha aggiunto ai guai dell'iper centralismo programmatorio la scelta sciagurata della monocultura della canna da zucchero, che ha reso Cuba completamente dipendente dagli aiuti sovietici. Crollata l'URSS l'economia cubana non poteva che collassare, embargo o non embargo.

 

I PROFUGHI
Da quando Castro ha preso il potere un sacco di gente è fuggita da Cuba, si parla di una cifra di quasi un milione e duecentomila di persone. E si tratta di profughi
veri.
Non partivano tranquilli, aspettando il loro turno d'imbarco, sotto lo sguardo benevolo delle autorità. Rischiavano la pelle per lasciare l'isola del socialismo caraibico. Chi veniva preso finiva in carcere, a volte addirittura
fucilato; una situazione ben diversa da quella dei clandestini che sbarcano sulle nostre coste.
Gli esuli cubani arrivavano in un paese immenso, con enormi spazi liberi e la più forte economia del mondo, eppure dovevano faticare per dimostrare il loro status di profughi. Non entravano negli Stati Uniti gridando “Viva Fidel! Hasta la victoria siempre!”. Non chiedevano agli americani di rinunciare ai loro valori, abbandonare le loro tradizioni, cambiare il loro stile di vita. Nella loro grande maggioranza chiedevano solo di diventare buoni cittadini degli Stari Uniti d'America. Di nuovo, una situazione del tutto diversa da quella dei clandestini di casa nostra.
Eppure questi profughi veri non sono mai stati simpatici a tanti progressisti. Pronti a giustificare chi esalta lapidazioni di adultere e decapitazioni di apostati tanti personaggi della “sinistra” italiana ed europea hanno bollato come “biechi reazionari” i cubani che sfidavano i denti degli squali ed i plotoni di esecuzione pur di lasciare l'isola di Fidel. Così va il mondo.

 

CUBA POSTRIBOLO AMERICANO
E' vero, la Cuba precastrista era il paradiso di molti milionari americani in cerca di divertimenti esotici e sessuali, ma che fosse il postribolo degli USA è una delle tante leggende sorte dopo la vittoria di Fidel. In realtà nella Cuba precastrista il livello della prostituzione era grosso modo uguale a quello di altri paesi con caratteristiche socio economiche simili. Lo stesso dicasi per le case da gioco. Cuba è diventata una delle capitali mondiali del turismo sessuale e pedofilo
in seguito al castrismo ed alla sua sciagurata politica economica.
 

PER CONCLUDERE
L'esperienza cubana è in tutto simile a quelle degli altri paesi del “socialismo reale”. Eliminazione della democrazia e delle fondamentali libertà civili. Pianificazione burocratica dell'economia, militarizzazione del lavoro, distruzione della autonomia della società civile. Ed ancora: continua mobilitazione propagandistica delle masse, intrusione soffocante dello stato nella vita privata dei cittadini, irregimentazione della cultura. Insomma, la Cuba di Castro non era, e non è, una semplice dittatura. Era, ed è, una
dittatura totalitaria, un regime soffocante che pretende di regolare in tutto la vita di tutti.
Eppure, tanti che hanno usato parole di fuoco contro il regime di Stalin si commuovono di fronte a Castro e Guevara. L'URSS era brutta, Cuba invece...
Chi è stato a lungo innamorato dell'assoluto sociale vuole conservare qualche speranza, qualche piccolo assoluto in cui credere, malgrado tutto e tutti. E Cuba, la bellissima isola caraibica sembra fatta apposta per alimentare simili speranze romantiche.
Però, sarebbe ora di guardare la realtà in faccia, smettendola con le illusioni e le menzogne.
Raul Castro, succeduto al fratello quale leader maximo, ha annunciato che la morte di Fidel sarà seguita da
NOVE GIORNI di lutto. Nove giorni di un lutto imposto a tutta la popolazione dell'isola! Nove giorni in cui le ceneri di Fidel gireranno Cuba da un capo all'altro ed in cui sarà sospesa o seriamente condizionata ogni normale attività. I cubani che intendevano sposarsi in questi nove giorni faranno bene a rinviare e nozze, chi, sempre in questi nove giorni, compirà gli anni farà bene a non festeggiare. Iniziarono i bolscevichi, imbalsamando la salma di Lenin prima, quella di Stalin dopo. Da allora i funerali dei dittatori totalitari sono sempre stati occasione per adunate oceaniche destinate a puntellare regimi sempre più in crisi. Cuba non fa eccezione. Bastano quei nove giorni di lutto obbligatorio per far capire a chi non voglia tapparsi occhi ed orecchie la natura vera del socialismo castrista.
Purtroppo però il mondo è pieno di persone che amano tapparsi gli occhi e le orecchie.

sabato 26 novembre 2016

FIDEL E ORLANDO ZAPATA


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E' morto Fidel Castro, l'ultimo rivoluzionario.
Invece il 23 febbraio 2010 moriva Orlando Zapata Tamayo.
Chi era Orlando Zapata Tamayo?
Era un operaio cubano dissidente. Membro del gruppo di opposizione Movimiento Alternativa Republicana, fu arrestato il 6 dicembre 2002 e imprigionato per oltre tre mesi. Scarcerato, dopo soli 13 giorni di libertà fu arrestato una seconda volta il 20 marzo 2003. Il suo crimine? Stava partecipando a uno sciopero della fame organizzato dall'”Assemblea per la promozione di una società civile” che mirava alla liberazione dei prigionieri politici. Fu accusato di
VILIPENDIO della figura di FIDEL CASTRO, disordine civile e DISOBBEDIENZA e condannato a 36 ANNI di carcere.
In carcere Zapata iniziò, il 2 dicembre 2009, un nuovo sciopero della fame per protestare contro la norma che gli impediva di indossare l'abito bianco dei dissidenti invece che l'uniforme carceraria.
Morì dopo 85 giorni, nel silenzio della opinione pubblica “progressista” di mezzo mondo.

La storia di Cuba non è diversa da quella degli altri paesi del comunismo reale. Deportazioni, repressioni di massa, condanne a morte. Eliminazione di membri del partito al potere considerati pericolosi concorrenti del leader. Una economia che ha retto solo grazie agli aiuti sovietici e che è letteralmente collassata dopo il crollo dell'URSS. Tramontate le speranze del socialismo tropicale Cuba è diventata una delle capitali mondiali del turismo sessuale e rappresenta nel mondo, insieme alla Corea del Nord, l'ultimo fortilizio del comunismo duro e puro.
In Corea del nord Kim Jong-un è succeduto al padre alla guida del paese, a Cuba Raul Castro è succeduto al fratello quando questi ha dovuto cedere all'età ed alla declinante salute. Nella fase del suo declino storico il comunismo è diventato dinastico! Karl Marx si rivolta nella tomba.
Mentre si organizzano imponenti funerali per Fidel, a Cuba molte migliaia di prigionieri politici sperano, forse, che qualcosa cambi. Ma saranno in pochi a pensare a loro nel momento della ipocrisia post mortem, c'è da scommetterci.

mercoledì 23 novembre 2016

MISURE CONCRETE

E' l'argomento principe di chi difende la politica delle porte aperte ai clandestini, soprattutto vi fa ricorso il nostro amatissimo ministro dell'interno, dottor Angelino Alfano.
“Che proposte concrete fate voi per far fronte alla emergenza profughi?” chiede con aria inquisitoria il geniale ministro. E a chi gli fa sommessamente presente che intanto si potrebbero cominciare ad espellere i moltissimi
non profughi, quelli che di certo non hanno alcun diritto di stare qui da noi, risponde, con aria visibilmente seccata: “ma gli stati da cui provengono non li rivogliono indietro...”.
Si risponde proprio così il
ministro degli interni della repubblica italiana!

Vediamo un po'.
Tutti i media parlano di profughi, gente in fuga dalle guerre, rifugiati che scappano di fronte a chi li minaccia di morte. Ma di solito persone di questo tipo fuggono di nascosto, cercano di passare i confini di notte per sfuggire a polizia di frontiera, controlli, blocchi stradali.
Con i profughi che arrivano qui da noi le cose sembrano andare un po' diversamente. Partono da paesi lontani a volte migliaia di chilometri dal nostro, attraversano numerosi stati, varcano molti confini senza che nessuno li fermi, chieda loro un documento, controlli un passaporto. Infine arrivano nei paesi del nord Africa e li si imbarcano, alla luce del sole. Nessuno disturba le operazioni di imbarco, partono come se nulla fosse, dopo aver diligentemente aspettato il loro turno. E i paesi che li hanno fatti passare, che hanno permesso loro di partire indisturbati
non li rivogliono indietro!
Qualcuno riesce ad immaginare decine di migliaia di clandestini australiani che si imbarcano per la Nuova Zelanda senza che in Australia nessuno dica loro nulla? Ed un governo australiano che rifiuta i clandestini che quello neozelandese rimanda al mittente? Avrebbe un minimo di normalità una situazione di questo genere? Basta porsi la domanda per avere la risposta. Eppure
è questo ciò che accade con l'Italia. E di fronte ad una simile, assoluta violazione di ogni legalità i nostri ministri allargano le braccia e borbottano: “gli stati di origine non li vogliono”...

Parliamoci chiaro, una volta tanto. Se le cose stanno così quella con cui stiamo facendo i conti è una autentica
invasione. La situazione non ha nulla di normale, non è in nessun modo conforme a nessuna legge, nessun diritto. Chi chiede con aria inquisitoria: “quali sono e vostre proposte concrete?” dovrebbe, tanto per cominciare, iniziare a capire che le “misure concrete” che si debbono adottare in una situazione di illegalità generalizzata non possono essere le stesse possibili in una situazione normale.
Se si vuole davvero contrastare un fenomeno le “misure concrete” si trovano. Si possono bombardare i barconi,
VUOTI ovviamente, nei porti di partenza. Si possono rispedire al mittente i clandestini debitamente scortati da militari. Si possono creare campi di raccolta per migranti, debitamente protetti dalle forze armate, in territorio nord africano. Si possono velocizzare al massimo le pratiche volte a stabilire chi è e chi non è “profugo”, eliminando la possibilità dei ricorsi. Si possono compiere operazioni mirate contro la malavita che organizza i viaggi. Non è vero che misure concrete ed efficaci non siano possibili.
Sento già gli strilli di protesta. “NO! Si tratta di misure eccessive, pericolose! La via migliore è negoziare con i governi dei vari paesi africani!”
Beh... a parte il fatto che certi pesi africani sono privi di governo, a parte questo piccolo dettaglio, sono dispostissimo a concordare con chi invita alla trattativa con i governi. Però...
Però mi viene in mente una storiella. Tizio compra casa da Caio. Il prezzo che Caio richiede gli sembra troppo alto ed inizia a trattare per farselo ridurre. Però prima di iniziare a trattare consegna a Caio un assegno in bianco. Ecco, i nostri intelligentissimi ministri si comportano più o meno nello stesso modo. Intendono trattare coi governi ed intanto traghettano tutti i giorni migliaia di clandestini sulle nostre coste. Perché mai i governi africani dovrebbero collaborare per frenare l'emigrazione illegale quando l'Italia ha messo in atto un autentico servizio taxi per i clandestini? I governi africani non hanno molta voglia di tenersi casa i “migranti”, perché dovrebbero farlo se intanto noi ce li prendiamo tutti? Agire come agisce il nostro governo significa, molto semplicemente, rendere impossibile o inutile ogni trattativa, firmare ai governi del nord Africa un assegno in bianco. Si aggiunga che il signor Renzi è riuscito ad inimicarsi l'Egitto, uno dei pochissimi stati africani a lottare sul serio contro il terrorismo e deciso a contrastare le migrazioni illegali, e la misura, direi, è colma.

Del resto, quando il ministro Alfano chiede, con occhi fiammeggianti, al suo povero interlocutore “quali misure concrete proponete?” gli si può tranquillamente girare la domanda. “e
VOI quale misure concrete proponete?”. In fondo è lui il ministro, LUI ha il compito di proporre misure concrete.
Le uniche misure concrete che il governo mette in atto sono queste: si fanno entrate
TUTTI, ma proprio tutti, dopo di che si implorano i paesi europei di prendersi un po' di coloro che noi andiamo a traghettare sulle nostre coste. I governi europei rispondono picche ed il ministro Alfano gira l'Italia cercando di piazzare un po' qui un po' la quelle preziose “risorse” che sarebbero i clandestini. E, cosa più grave di tutte, non si mette alcun limite a tutto questo. Ne abbiamo accolto duecentomila? Ne accoglieremo cinquecentomila, e poi un milione e poi dieci milioni. Nessuno dice: “fin qui si può arrivare, oltre no”. Tutta l'attenzione del governo è volta alla distribuzione di clandestini, non al blocco degli sbarchi. Se ne arrivassero cento milioni il ministro Alfano chiederebbe ai comuni ad accogliere ognuno cento o duecentomila “profughi”, Senza limiti. La via della accoglienza è infinita.
Si parla in questi giorni di requisizioni di alloggi, addirittura delle seconde case. Non so se si tratti di notizie vere. Ma, in ogni caso, se la attuale tendenza non viene interrotta, e presto, le requisizioni diventeranno l'unica “misura concreta” possibile. Se si continua a fare entrare gente al ritmo di mille, duemila e più persone al giorno da qualche parte bisogna pur metterla questa gente. Hanno saturato le strutture pubbliche, hanno iniziato a requisire alberghi od ostelli di proprietà privata. Passeranno, alle seconde case e poi alle prime. Per ora si limitano ad incentivare, pagandole con soldi di tutti, le famiglie che intendono “adottare un migrante” fra un po' potrebbero
OBBLIGARE la gente a simili “adozioni”. Se non sifermano gli sbarchi misure simili sono INEVITABILI. Ed altrettanto inevitabili saranno le reazioni di gente che ormai non ne può più di subire le conseguenze della follia buonista.
Ma il ministro Alfano a queste cosette non pensa. Ogni volta che compare in TV si aggiusta il cravattino buono, rotea gli occhi fiammeggianti e chiede “voi che misure concrete proponete?”. Poi elargisce al popolo bue un sorriso grondante intelligenza.
Amen.

lunedì 21 novembre 2016

COME VOTERO' IL 4 DICEMBRE

Rispetto quelli che voteranno SI, comprendo le loro motivazioni ed i loro dubbi che sono stati, ed in parte sono ancora, anche i miei. Però, più si avvicina il momento del voto più mi convinco che sia meglio optare per il NO il 4 dicembre.
Sono d'accordo con chi sostiene che il bicameralismo perfetto debba essere abolito ed il senato attuale sostituito da un altro, rappresentante delle realtà locali. Però, non si vede perché questo risultato positivo debba tradursi in pratica con l'invenzione di un senato formato da sindaci e consiglieri regionali. Si potevano attribuire alle varie regioni un certo numero di senatori da eleggere a suffragio universale, un sistema simile a quello americano dei grandi elettori. Non occorreva un genio politico per escogitare qualcosa di simile. Renzi e la signora Boschi hanno invece scelto il senato dei consiglieri regionali, forse perché la gran parte di questi è molto vicina al PD.
Inoltre nella riforma Renzi - Boschi abbondano i richiami alla UE e questo, sinceramente, non può che preoccuparmi. E' vero che i richiami alla cosiddetta “Europa” sono già presenti in costituzione, ma nel testo di riforma diventano più stretti e precisi. L'articolo 117 della costituzione riformata recita infatti:
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’
ordinamento dell’Unione europea e dagli obblighi internazionali”.
Il testo attuale parla invece più genericamente di “
ordinamento comunitario”. Nella sostanza è lo stesso, ma rendere più esplicito il richiamo all'”Europa” può essere molto pericoloso e far pesare sulla testa di chi volesse rimettere in discussione la UE l'accusa di incostituzionalità. In occasione della brexit abbiamo visto fino a che punto le forze “europeiste” disprezzino la volontà popolare e cosa siano disposte a fare pur di impedire che questa possa manifestarsi. E' bene non concedere nulla, ma proprio nulla a questi signori.

Questi sono argomenti che riguardano il merito della riforma in discussione. Sono importanti, ma tutto sommato non decisivi. Più importanti sono le considerazioni sulle
conseguenze politiche del voto del 4 dicembre.
Proprio su questo punto nascevano le mie maggiori perplessità. Una vittoria del NO rischia di dare il via libera al movimento di Grillo, di favorire squallidi figuri della sinistra italica come D'Alema o Bersani, questo pensavo ed ancora, in parte, penso. Chi teme di cadere dalla padella alla brace non è affatto sciocco ed i suoi dubbi sono degni del massimo rispetto. In un paese
normale, retto da un governo normale, in una situazione normale simili dubbi potrebbero essere sufficienti a spingere le persone di buon senso a votare SI, malgrado tutte le debolezze ed i pericoli della riforma Renzi - Boschi.
Ma c'è un piccolo particolare di cui occorre tenere conto. L'Italia
NON è un paese normale, non è retta da un governo normale e non vive in una situazione normale.
Dal lontano 2011 subiamo governi privi di qualsiasi legittimazione popolare. So bene che in Italia il popolo bue non elegge i governi. Gli elettori votano per i vari partiti e poi questi fanno più o meno ciò che a loro piace; questo, detto per inciso, è uno dei numerosi motivi che renderebbero necessaria non una riforma ma una totale
riscrittura della costituzione. Però in passato i governi erano sostenuti da forze politiche votate dalla maggioranza dei cittadini, e presieduti da persone che erano passate al vaglio di una consultazione elettorale.
Oggi le cose stanno ben diversamente. Nessuno ha, per fare solo un esempio, mai dato un voto al professor Monti, eppure ce lo siamo trovato senatore a vita prima e capo del governo poi. Considerazioni analoghe si possono fare per Renzi, che è stato votato solo sindaco di Firenze, mai parlamentare delle repubblica.
Il PD sostiene oggi il governo Renzi, ma i parlamentari del PD sono stati eletti quando quel partito, a guida Bersani, era completamente diverso da quello odierno. Il governo Renzi si regge inoltre sui voti di gente votata a suo tempo in
forza Italia, si, proprio quella, il partito del nemico del popolo, qualcuno la ricorda?
A tutto questo si aggiunga che il l'attuale parlamento è stato votato in base ad una legge dichiarata incostituzionale e la misura, direi, è colma.

Il paese
non è normale quindi, e non è normale il governo che lo regge.
Ed è ancora meno normale la situazione che stiamo vivendo.
Ogni giorno sbarcano sulle nostre coste mille, duemila o più clandestini. Un tempo col finire dell'estate i barconi smettevano di mettersi in viaggio. Oggi neppure il maltempo li blocca. Gli scafisti sanno bene che a pochi chilometri dalle coste libiche ci sono le navi della marina militare italiana pronte a raccoglierli e partono comunque. Tutto questo tra l'altro provoca incidenti mortali, ma per i fanatici dell'accoglienza indiscriminata questo è un dettaglio secondario.
Il flusso ininterrotto di clandestini crea problemi enormi sia sul versante della sicurezza che su quello più propriamente economico. Non si capisce bene se ci sia da ridere o da piangere quando si sentono i politici parlare, in questa situazione, di sviluppo, contenimento della spesa pubblica, riduzione della pressione fiscale. Quale contenimento della spesa, quale riduzione della pressione fiscale, quale sviluppo sono ipotizzabili mentre ai margini del processo produttivo cresce ogni giorno di più una massa enorme di emarginati?
E quale civile convivenza, quale sicurezza sono possibili mentre interi quartieri delle nostre città si stanno trasformando in terre di nessuno dove comandano la mala vita, e le bande di quartiere?
Ma, al di la dei problemi economici e di sicurezza il flusso ininterrotto di clandestini è destinato a distruggere le basi stesse della nostra democrazia. Modifica in profondità la base sociale delle nostre istituzioni. Una democrazia liberale, fondata sul laicismo, il riconoscimento dei valori della persona, la pari dignità dei sessi non può reggere l'impatto di masse enormi di esseri umani che non accettano, nella loro gran maggioranza, simili valori.
Ad essere in gioco non è uno zero virgola di PIL, sono le fondamenta stesse della nostra cultura, della nostra civiltà.

Renzi ha fatto la sua scelta: entrino tutti e l'Europa se ne prenda una parte. E mentre il fiorentino cerca di convincere i paesi europei a “collaborare” il suo amicone Angelino Alfano gira l'Italia cercando di piazzare qua e la quelle preziosissime risorse che sono i clandestini. Ci ho pensato a lungo, e, in tutta sincerità, sono giunto alla conclusione che
nulla oggi sia peggio del perpetuarsi di una simile situazione.
Il voto per il NO è un salto nel buio, potenzialmente molto pericoloso, lo so, ma il voto per il SI è una
certezza: la certezza che continueremo con questo andazzo per chissà quanto altro tempo. E questo sarebbe, sicuramente, una catastrofe.
Per questo, penso, il 4 dicembre voterò NO. Turandomi il naso, sentendo un certo senso di nausea al pensiero di votare come Travaglio ed Ingroia, Bersani e D'alema, Grillo e Di Battista.
Ma ci sono momenti in cui occorre saper resistere anche alla nausea. Lo dico agli amici che voteranno SI e di cui rispetto la scelta. I loro dubbi e le loro perplessità, lo ripeto, sono state ed in parte sono anche le mie, ma a volte si è obbligati a scegliere il meno peggio. E per me oggi il SI rappresenta, tutto considerato. il peggio.

lunedì 14 novembre 2016

I TG, LE ESPULSIONI, I MURI

Ieri il neo presidente degli Stati Uniti ha rilasciato la sua prima intervista televisiva. Due i punti su cui si concentra l'attenzione degli osservatori, quanto meno, di quelli non americani. L'espulsione dei clandestini ed il famoso muro.
Sui clandestini Trump ha dichiarato che ci sono negli Stati Uniti oltre due milioni di clandestini che hanno commesso reati. Ha parlato esplicitamente di trafficanti e spacciatori di droga. Questi vanno espulsi o messi in prigione, ha detto. Il giornalista della
SETTE, per inciso, uno dei TG meno faziosi, ha tradotto tutto questo col termine: deportazioni.
Rimandare a casa loro persone che non hanno diritto di stare negli USA e che si sono macchiate di reati legati al narcotraffico equivarrebbe a mettere in atto delle “deportazioni”! Ogni commento è superfluo. La cosa grave non sono le espulsioni, la cosa davvero grave è che ci siano oggi tanti clandestini, per di più legati al narcotraffico, negli Stati Uniti. Come mai si è potuto raggiungere un numero così elevato? Perché queste persone non sono state espulse o messe in prigione prima della vittoria di Trump?
Questo varrebbe la pena di chiedersi, prima di cercare di paragonare Donald trump a Giuseppe Stalin.

Sul famoso muro Trump ha ribadito che intende costruirlo, anche se è stato vago sulle sue caratteristiche: “muro, recinzioni, staremo a vedere”, ha detto, più o meno.
Sono mesi che si parla del famoso “muro” di Trump qui in Italia, ovviamente per presentarlo come massimo esempio di intolleranza, xenofobia, razzismo.
Ricordo che tempo fa ha messo la testa nel teleschermo un famoso scrittore, un sottilissimo intellettuale di cui ora non ricordo il nome. Me ne scuso, sono vecchio e la memoria mi fa brutti scherzi.
Questo finissimo intellettuale, dicevo, ha messo la testa nel teleschermo e ha parlato al popolo bue degli abominevoli “muri”. “I muri vanno bene quando sostengono i tetti”, ha detto più o meno, “non quando dividono i popoli”.
Che pensiero profondo, quale eccelsa speculazione! Però... però, a pensarci bene,
cosa sono i “tetti” se non dei muri orizzontali situati a qualche metro dal suolo? Il tetto delimita la mia casa dall'alto, esattamente come i muri la delimitano a nord e a sud, ad est ed a ovest. Contrapporre i muri ai tetti ha poco senso, perché i muri, come i tetti, delimitano uno spazio, e tengono lontane da me persone con cui non ho intenzione di convivere. Ma questi sono pensieri di un povero vecchio ignorante, lo so, e me ne scuso.

Lasciamo perdere i sottilissimi intellettuali ed esaminiamo qualche fatterello. Per mesi i vari TG ci hanno presentato, e continuano a presentarci, il famoso muro di Trump come una assoluta, abominevole novità. Ma, stanno davvero così le cose?
NO, proprio NO. Un muro fra gli USA ed il Messico già esiste. Per comodità riporto integralmente quanto scritto su Wikipedia:

La
barriera di separazione tra Stati Uniti d'America e Messico, detta anche muro messicano o muro di Tijuana, è una barriera di sicurezza costruita dagli Stati Uniti lungo la frontiera al confine tra USA e Messico. (…) Il suo obiettivo è quello di impedire agli immigranti illegali, in particolar modo messicani e centroamericani, cioè Guatemaltechi, Honduregni, Salvadoregni e Nicaraguensi di oltrepassare il confine statunitense. (…) La barriera è fatta di lamiera metallica sagomata, alta dai due ai quattro metri, e si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego. Il muro è dotato di illuminazione ad altissima intensità, di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, connessi via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato con veicoli ed elicotteri armati. Altri tratti di barriera si trovano in Arizona, Nuovo Messico e Texas.
Interessante vero? E chi ha fatto costruire questo muro, o recinzione, o barriera? Lascio di nuovo la parola a Wikipedia:

La sua costruzione ha avuto inizio nel 1994, secondo l'ottica di un triplice progetto antimmigrazione posto in essere dall'allora Presidente Bill Clinton: il progetto
Gatekeeper in California, il progetto Hold-the-Line in Texas ed il progetto Safeguard in Arizona.

Lo sponsor del muro era
BILL CLINTON, si , proprio lui,il campione di chi vuole “ponti, non muri”, il marito di quella Hillary che in campagna elettorale si è presentata come l'ultimo ostacolo in grado di fermare la barbarie xenofoba di Trump!
Domandina: i media hanno informato, almeno una volta, il popolino ignorante dell'esistenza di
questo muro? Hanno fatto sapere alla gente normale che il famoso muro di Trump può essere considerato come un ampliamento di qualcosa che già esiste? Non mi pare.

Abbandoniamo le facili polemiche. Dietro a tutti i discorsi sui muri e sulle espulsioni sta una domandina semplice semplice.
I vari stati hanno o non hanno il diritto di controllare le proprie frontiere? E giusto o non lo è che uno stato decida se fare entrare qualcuno nel suo territorio e, in caso di risposta positiva, chi e quanti fare entrare, con che modalità e che tempi? Se si decide che si, gli stati hanno questo diritto allora il muro diventa solo uno strumento tecnico. Si possono controllare i flussi costruendo muri, o rafforzando la polizia di frontiera, o collaborando con i paesi da cui partono i clandestini. Tutto qui.
Considerazioni analoghe valgono per le espulsioni. Si possono espellere i clandestini, se ne può regolarizzare una parte, quelli che si sono inseriti bene e che non hanno commesso reati ad esempio, si possono adottare soluzioni intermedie. In quanto tali né i muri né le espulsioni sono indice di “razzismo” o “xenofobia”.
Se invece si decide che
no, i vari stati non hanno diritto di controllare i flussi migratori, allora si cerchi di essere conseguenti, per favore. Se questo diritto non esiste tutti possono spostarsi dove a loro piace. Non esistono più Francia o Italia, Stati Uniti o Russia, esiste solo il mondo e tutti, come cittadini del mondo, abbiamo diritto di vivere dove ci pare. A essere conseguenti in questo caso non dovrebbero più esistere i vari governi dei vari stati nazionali. Che senso ha un governo italiano se l'Italia è terra di nessuno in cui chiunque può entrare ed uscire come gli pare? I vari Trump, Putin, Renzi, Hollande, Merkel eccetera vadano a casa e lascino il posto ad un bel governo mondiale, magari presieduto da papa Francesco!
Per qualcuno una simile prospettiva è un sogno, io la considero un incubo, ma è secondario. Si abbia però il coraggio di essere chiari!
E la si smetta, una volta per tutte, con la propaganda da quattro soldi!

domenica 13 novembre 2016

IN PIAZZA CONTRO GLI ELETTORI

Un tempo dopo le elezioni chi vinceva festeggiava, chi perdeva si leccava le ferite, cercava di capire le cause della sconfitta e si preparava a fare l'opposizione. Oggi le cose vanno diversamente: chi perde scende in piazza e manifesta. Manifesta contro chi, di grazia? E per che cosa? La risposta è piuttosto semplice, manifesta contro chi ha avuto l'ardire di votare diversamente da lui, e spera di riuscire ad invalidare il risultato elettorale. Se si accetta anche solo per un attimo una simile, aberrante logica tanto varrebbe non farle, le elezioni. Si assegni subito la vittoria a chi è pronto a scendere in piazza per contestare il responso delle urne e non si perda del tempo in inutili liturgie elettorali.
In queste ore gli Stati Uniti sono scossi da manifestazioni contro la vittoria di Trump. Qualcuno fra i “giornalisti” che con voce tremante ce ne danno notizia ricorda al popolo bue quali terribili pericoli corra con Trump la democrazia americana. I risultati elettorali vanno accettati, non però se mettono a rischio la democrazia, questo è il messaggio subliminale dei padroni dei media.
Ma l'America non è la Corea del Nord, o Cuba, o l'Iran, certi stati semmai piacciono a molti dei manifestanti anti Trump. Negli USA vige la divisione dei poteri, il presidente non può fare quello che vuole. Se davvero alcuni suoi provvedimenti mettessero a rischio la democrazia questi si porrebbero fuori dalla costituzione e sarebbero bloccati. Comunque, chi teme provvedimenti liberticidi dovrebbe per lo meno aspettare che il neopresidente cerchi di vararne qualcuno, prima di bloccare autostrade e ferrovie. Invece no. Trump non si è neppure insediato e il centro di molte città americane è bloccato da migliaia di giovanotti, per lo più studenti bianchi della classe media. Non è difesa della democrazia, è rifiuto del suo meccanismo fondamentale. Si può votare, ma dobbiamo vincere noi. Questo il messaggio che i nobili ragazzotti che sfilano nelle città americane lanciano all'America, e al mondo.

Ad essere sinceri in tutto questo Trump c'entra solo in parte. Il vezzo di non accettare il risultato elettorale non è iniziato negli Stati Uniti il nove novembre. Già in occasione della vittoria della brexit si è assistito ad uno spettacolo simile. Manifestazioni e cortei, raccolta di firme per annullare il referendum, richiesta di indirne uno nuovo, e poi magari un altro, ed un altro ancora sino a quando la brexit non fosse stata sconfitta. Fino all'ultima, incredibile giravolta: l'alta corte stabilisce che a decidere sulla brexit deve essere il parlamento! Prima si era deciso di dare la parola agli elettori. Se qualcuno riteneva non costituzionale una simile prassi poteva, allora, prima delle operazioni di voto, chiedere che il referendum non si facesse. Ma lorsignori erano convinti che il popolo bue avrebbe votato per la cosiddetta “Europa”, ed il referendum si è fatto. Però, sorpresa! Vincono i barbari contrari alla UE, ed allora l'alta corte decide che no, sulla brexit il popolo non può avere voce in capitolo, deve decidere il parlamento. La logica è sempre la stessa: si vota ma il risultato vale solo se vinco io. Se invece vinci tu si tratta di una vittoria di biechi e pericolosi “populisti” ed il risultato elettorale può tranquillamente essere buttato nel cesso!

Esiste nel decadente occidente di oggi quello che possiamo definire il paradigma politicamente corretto. Un insieme di idee, valori, interessi che delimita una certa area sociale e culturale. E' l'area di chi dice che “l'Islam è una religione di pace”, o che “i migranti sono una risorsa” o che ”il solare può darci tutta l'energia che ci serve” o che “per uscire dalla crisi serve più Europa” eccetera eccetera. Dentro questa area vale una certa dialettica democratica. Le varie forze interne a questa area possono alternarsi al governo senza che questo dia luogo a frizioni violente. Ma è assolutamente inaccettabile che chi si colloca fuori da questa area possa permettersi di vincere una consultazione elettorale. Fuori dal paradigma politicamente corretto ci sono gli impresentabili, i populisti vecchi ed ignoranti, razzisti, omofobi e sessisti. Chi non crede che oggi occorra più Europa, o che l'Islam sia una religione di pace, chi non vede nei migranti una “preziosa risorsa” o non è convinto che si possano far volare gli aerei, viaggiare i treni ed illuminare le città col solare e l'eolico, tutti questi immondi populisti non hanno diritto di vincere delle elezioni democratiche, qualcuno vorrebbe addirittura impedire loro di parteciparvi. La signora Kienge, ex ministro della repubblica, ha detto tempo fa che alla lega dovrebbe essere proibita la partecipazione al voto. Ha avuto per lo meno il pregio di essere chiara.

Lo ho già scritto e lo ripeto. Se si rifiuta il gioco democratico, se non si accetta il principio secondo cui si vota ed il vincitore ha diritto di governare, fermo restando il rispetto per i diritti della minoranza e la dignità delle persone, se non si accetta tutto questo ci si pone nell'ottica della guerra civile. Si affidano le sorti di un paese, forse di una civiltà, alla violenza. E si imbocca una strada che può avere esiti disastrosi. Perché solo dei pazzi possono pensare che chi si vede privato di una vittoria elettorale possa accettare tutto senza reagire. Per tornare agli Stati Uniti, cosa sperano i giovanotti che marciano a New York? Che l'esito delle elezioni possa davvero essere invalidato? A parte il fatto che è una cosa impossibile, pensano forse che decine di milioni di americani accetterebbero senza batter ciglio una decisione del genere? Si chiedono come reagirebbe un paese in cui, tra l'altro, un sacco di gente va in giro con una o due pistole, o peggio?
Sarebbe bene che chi gioca col fuoco la smettesse di giocare. E questo vale per i giovanotti che manifestano, ma vale cento, mille volte di più per gli pseudo intellettuali che sul fuoco ci soffiano. Potrebbero bruciarsi, e con loro tutti noi.

venerdì 11 novembre 2016

I RESPONSI DELLE URNE

Succede ormai in tutte le consultazioni elettorali che si concludono con risultati contrastanti il pensiero unico dominante. Si tratti della Brexit , del voto in Austria o delle elezioni americane, i vari inviati non hanno ancora finito di comunicare i risultati che si alzano cori di protesta. “Hanno vinto le forze xenofobe” strilla il primo annunciatore. “Una ondata di populismo razzista attraversa l'occidente” gli fa eco una cortese annunciatrice.
Il giorno dopo, o la sera stessa, arrivano gli immancabili “dibattiti” e se ne sentono di tutti i colori. Volano nuove accuse di “xenofobia islamofoba” rivolte agli elettori che si sono permessi di votare come a lorsignori non piace. Qualcuno strilla, i volti sono mesti.
E c'è sempre, ovviamente, il “moderato” che intende “approfondire” il discorso, “cercare di capire”. “Trump, la brexit, tutte cose oscene”, esordisce”, “ma dobbiamo capire le esigenze che stanno dietro a queste aberrazioni”. Insomma gli elettori sono dei perfetti imbecilli che votano contro le proprie “esigenze”. Quali esigenze? Quelle che spiega loro un compassato esperto appollaiato sulla poltrona di uno studio televisivo.
Poi, il gran finale. Arrivano gli analisti. Ci mostrano grafici, snocciolano cifre e comunicano trionfanti: “hanno votato Trump, o Brexit, o Le Pen, le persone anziane, per lo più maschi adulti, in maggioranza non laureati che vivono in piccoli centri”.
“La parte più arretrata del popolo?” chiede ansiosamente il conduttore. “Si” risponde l'analista, “la parte culturalmente più arretrata, retriva, con scarse prospettive”. Interviene l'ospite d'onore, un pensoso intellettuale, e assesta il colpo finale, da KO: “una simile fetta dell'elettorato non ha futuro” sentenzia. Tutti tirano un gran sospiro di sollievo. Se a votare brexit o Trump sono dei vecchietti, siamo a posto! Fra un po' moriranno e tutto si sistemerà.
Ma un tipo del pubblico, invitato a parlare in nome della democrazia televisiva, rovina un po' la festa. “chi vi assicura che i giovani di oggi domani non cambino idea?” chiede sommessamente. L'esperto sbuffa, il conduttore fa segno di no con la testa, l'analista gela il poveretto con un sorrisino insieme ironico e severo. Sigla finale. Applausi, ricchi premi e cottillon. Domani si ricomincia.

Per farla breve, il responso delle urne non viene accettato. Non viene accettato, attenzione, non perché si accusi qualcuno di brogli, si sospetti che il risultato elettorale sia stato manipolato. E neppure si accusa chi ha vinto le elezioni di voler ledere i diritti di chi le elezioni le ha perse. No, i vincitori non attentano ai diritti degli sconfitti, e i voti sono validi, tutti. Alcuni voti però sono infetti. Esprimono le idee, gli interessi, i valori, della parte malata del corpo elettorale. Dietro alla Brexit, o a Trump, o a Marine Le Pen, o a Salvini ci sono l'ignoranza, il razzismo, il sessismo, l'omofobia e queste cose non possono avere rappresentanza in una democrazia politicamente corretta. Il pensiero unico colloca nel campo dell'impresentabile ciò che contrasta coi suoi paradigmi e l'impresentabile non può avere rappresentanza. Per l'impresentabile non si può, non si deve votare. E se, per qualche strano motivo, l'impresentabile si afferma, si permette addirittura di vincere, il risultato non può essere accettato.
Le piazzate in America contro la vittoria di Trump, i tentativi di vanificare in Gran Bretagna l'esito della brexit, la stessa vicenda di Silvio Berlusconi, battuto in Italia non dai voti ma da venti anni di inchieste giudiziarie, sono lo specchio di una simile mentalità. Esiste una parte “sana” del paese, composta da gente aperta, colta, giovane, cosmopolita, solidale, ed una parte “malata”, un'orda di “poveretti”, così ebbe a definirli la Clinton, egoisti, ignoranti, xenofobi e razzisti. Un branco di bottegai provinciali ed evasori fiscali. La parte sana non può accettare che la parte malata freni il suo nobile slancio equo e solidale. Punto.

Non ho intenzione di riaprire qui il discorso sui limiti al potere della maggioranza e sulla democrazia liberale. Mi permetto di rimandare chi fosse interessato allo scritto: “La dittatura dei sapienti” presente sul mio “blog di Giovanni”. Mi interessa ora spendere due parole su un problemino non da poco, cui, se avessero un minimo di cervello, gli “intellettuali progressisti” dovrebbero riflettere. Cosa deve fare chi non accetta il responso delle urne?
Non si tratta di una domanda irrilevante. Ammettiamo pure, solo per comodità di ragionamento, che i “progressisti” abbiano ragione. Chi è fuori dai loro paradigmi è un provinciale ignorante, egoista, xenofobo e sessista. Le sue idee, i suoi interessi, i suoi valori non possono avere una adeguata rappresentanza istituzionale, meno che mai possono aspirare alla guida di un paese “avanzato”. Tutto OK, tutto giusto, facciamo finta che sia vero. Ma, cosa discende da una simile impostazione? Semplice, discende che la democrazia fondata sul suffragio universale deve essere abolita. In una democrazia fondata sul suffragio universale tutti possono votare e chi vince ha diritto a governare, per un certo periodo di tempo e rispettando i diritti dei perdenti. Chi non accetta queste regole potrà avere tutte le ragioni del mondo ma è fuori dal gioco democratico. Però, come può chi non accetta il gioco democratico togliere ad un sacco di gente il diritto di voto? Come abolire il suffragio universale e, di conseguenza, la democrazia? E' un bel problema.
Si può mettere ai voti la abolizione della democrazia? E' possibile sottoporre a referendum la eliminazione del suffragio universale? E' difficile che un simile gioco riesca. Ed anche se riuscisse, anche se la maggioranza votasse per l'abolizione del principio di maggioranza, questo si collocherebbe fuori dalla struttura istituzionale di tutti i paesi occidentali. E difficilmente gli sconfitti accetterebbero di vedersi privati dei diritti politici fondamentali. La violenza ha avuto sempre una parte fondamentale nella eliminazione della democrazia. Questa non è mai avvenuta in maniera soft, seguendo onestamente le regole democratiche. Qualcuno fa a volte l'esempio di Hitler e dei nazisti. Ma, i nazisti non hanno mai raggiunto la maggioranza assoluta dei suffragi in elezioni multipartitiche, ed è impossibile spiegare l'ascesa di Hitler prescindendo da Rohm e dalle camicie brune, da anni di continue violenze e scontri di piazza, dall'incendio del Reichstag e dalle sue conseguenze.

Siamo al punto fondamentale. I dissidi politici possono venire risolti col voto. Ci si confronta verbalmente, si mettono ai voti le varie proposte e le forze politiche che le sostengono. Chi vince ha il diritto di realizzare il suo programma, nel rispetto dei diritti della minoranza e della dignità di tutti i cittadini. Se non si accetta questo metodo non resta che una strada: i dissidi si risolvono sparandosi addosso a vicenda. Se si ritiene che una certa parte della popolazione sia “sporca, brutta e cattiva”, non meriti di avere rappresentanza e meno che mai di poter governare il paese, se si pensa seriamente una cosa simile, si imbocca una strada che porta, se coerentemente seguita, alla guerra civile.
Certo, non tutti sono coerenti nel seguire una simile strada. Ci sono i guerrieri della tastiera che si limitano ad insultare chi non la pensa come loro. Ci sono i teppisti dei centri sociali che vogliono impedire a questo o a quello di parlare, salvo poi strillare se qualcuno da loro un calcio nei denti. Ci sono gli adoratori della magistratura politicizzata che sperano di eliminare per via giudiziaria i nemici politici. Tutti questi atteggiamenti si collocano però in una logica di guerra civile. Il gioco democratico viene rifiutato e si cerca di distruggere il nemico usando mezzi che con la democrazia non hanno nulla a che vedere: dalle intimidazioni verbali a quelle fisiche, dall'uso insopportabilmente fazioso dei media all'invocazione di inchieste e processi.
Si tratta di una logica molto, molto pericolosa. Perché, se ci si colloca in un'ottica di guerra civile si sa da dove si comincia ma non dove si finisce. E chi teme di essere escluso dal gioco democratico può a sua volta mettersi fuori da tale gioco. Si comincia con gli insulti, si prosegue coi pugni, si può finire con le fucilate. Chi evoca la violenza può trovarsi immerso nella violenza, e subirla a sua volta. E se la subisce dopo averla evocata non ha molto diritto di strillare contro la “brutale repressione” cui è sottoposto.
Gli intellettuali da salotto, i guerrieri della tastiera, i teppistelli pronti a prendere a pugni  nemici veri o presunti, ma a strillare alla “repressione” se qualcuno li prende a calci in culo farebbero bene a pensarci. Molto seriamente.