sabato 29 ottobre 2016

FUGA DALLE GUERRE. QUALCHE PARAGONE STORICO

Fuggono dalle guerre. Questo ci ripetono costantemente i media, martellanti, implacabili, 24 ore al giorno, tutti i santi giorni.
Non voglio insistere più di tanto sul dato di fatto che la gran maggioranza dei migranti NON viene da paesi attualmente in guerra. Preferisco spendere poche parole per approfondire il tema della “fuga dalla guerra”
Per qualcuno la guerra è qualcosa di indipendente dagli uomini, una sorta di disastro naturale. C'è il terremoto e la gente fugge, allo stesso modo la gente fugge perché c'è la guerra. Da una parte c'è la guerra, dall'altra gli esseri umani che la subiscono. E' più che evidente che un simile modo di ragionare è completamente sbagliato, lo è per il semplicissimo motivo che sono gli uomini a fare le guerre, e, a maggior ragione, sono gli uomini a fare le guerre civili.

Le guerre producono profughi, è verissimo, ma una simile affermazione è talmente generica da non dire assolutamente nulla. Occorre approfondire il discorso.

In ogni guerra, e più che mai in una guerra civile, ci sono episodi di fuga dalle zone a rischio. A volte gruppi più o meno numerosi di fuggitivi si dirigono verso paesi non in guerra. Ma si tratta sempre di paesi vicini, spesso confinanti con quelli tormentati dal conflitto. Inoltre gli esodi dalle zone di guerra di solito diventano massicci, coinvolgendo intere popolazioni o comunque grandi masse di esseri umani, soprattutto quando le guerre finiscono. Una fazione si impone sull'altra e gli sconfitti fuggono per sfuggire alla vendetta dei vincitori. E' accaduto al termine della guerra civile spagnola, quando molti sostenitori della repubblica hanno cercato scampo in Francia, un paese non a caso confinante con la Spagna. Non ci vuole molto per notare la differenza fra una simile situazione e quella dei migranti attuali. I “migranti” attuali fuggono, si dice, da guerre in corso, ma raggiungono paesi lontanissimi, attraversando numerosi stati. Sulle nostre coste approdano pakistani che hanno raggiunto dal Pakistan la Libia e da lì son partiti per l'Italia. Qualcosa di mai visto in normali “fughe dalla guerra”.

Nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale sono stati ridisegnati i confini di moltissimi paesi. Questo ha causato in Europa orientale imponenti migrazioni di popolazioni. Spinte dall'armata rossa con la colpevole complicità dei paesi occidentali, enormi masse umane sono state costrette ad emigrare per stabilirsi in quella che doveva essere la loro nuova casa. Ci sono stati cambi di stato fra tedeschi e polacchi, polacchi ed ucraini, ungheresi e rumeni. Una situazione tragica ma, di nuovo, radicalmente diversa da quella degli attuali migranti. Questi non si sistemano nei loro nuovi stati, ma fanno migliaia di chilometri per stabilirsi, tutti, in paesi che non sono i loro, caratterizzati da una cultura totalmente diversa dalla loro.

Nel settembre del 1941 i tedeschi cinsero d'assedio la città di Leningrado. Nel corso dell'assedio furono messe in atto operazioni di evacuazione della città e un certo numero di civili riuscì ad fuggire attraverso il Ladoga ghiacciato. Stalin come al solito non si interessò troppo delle sofferenze del suo popolo e l'evacuazione dei civili non fu mai al centro dei suoi pensieri. Tuttavia il tragico assedio provocò moltissimi profughi. Ma erano profughi che lasciavano una città assediata per raggiungere altre zone del loro paese. La loro fuga faceva parte a pieno titolo delle operazioni di guerra. Gli sfollati da Leningrado non “fuggivano dalla guerra”, fuggivano dai nazisti per continuare a combattere o dare il loro contributo ai combattimenti. Considerazioni analoghe possono essere fatte per altre città evacuate nel corso della seconda guerra mondiale. La differenza con la attuale situazione dei “migranti” è tanto evidente che non occorre neppure sottolinearla.

Nell'estate del 1917 la Russia era allo stremo. La popolazione civile non ne poteva più della guerra, l'esercito aveva riportato sconfitte sanguinose ed era sfiancato. La guerra aveva perso ogni sostegno popolare. I primi a fuggire dalla guerra erano i soldati che disertavano in massa. L'incapacità di Kerenskij di far fronte ad una simile situazione fu, come si sa, una delle cause principali del colpo di mano dell'Ottobre.
E' impossibile continuare una guerra quando questa sia osteggiata dalla stragrande maggioranza della popolazione e la sfiducia coinvolga l'esercito. Nella Russia del 1917 la fuga dalla guerra coincise con la sconfitta di fronte alle armate di Ludendorff. Può in qualche modo questa situazione essere paragonata con quella degli attuali migranti che “fuggono dalle guerre”? Basta porre la domanda per avere la risposta.
Nella Russia del 1917 il rifiuto di massa della guerra portò al collasso del fronte, alla rivoluzione di Febbraio prima, al colpo di mano dell'Ottobre poi, infine agli accordi di Brest Litovsk che posero fine alla guerra. Oggi invece, nel mondo musulmano esistono guerre che provocano la fuga di centinaia di migliaia, addirittura milioni di persone e che malgrado tutto continuano! E, attenzione, si tratta di guerre civili, guerre cioè combattute dai popoli, da una parte contro l'altra dello stesso popolo. Tutti fuggono da queste guerre, ma intanto tutti continuano a combatterle! Un mistero!

Se nel 1945 la popolazione di Berlino avesse abbandonato in massa la città, se una parte almeno delle truppe, che ormai altro non erano che civili malamente armati, avesse disertato, la sanguinosissima battaglia di Berlino non ci sarebbe stata e moltissime vite umane si sarebbero potute risparmiare. Ma così non è stato. I tedeschi hanno continuato a combattere fino all'ultimo, e combattevano anche i vecchi, le donne ed i bambini. Nessun esodo, nessuna migrazione, nessuna diserzione di massa. Solo resistenza disperata, fanatica. Fino alla fine.
La guerra fra Iran ed Iraq è durata otto anni, ha provocato almeno
un milione di morti, è stata combattuta da ambo le parti in maniera barbarica, ma non ha dato origine a nessun fenomeno di migrazione di massa. Se ad un certo punto centinaia di migliaia, milioni di civili e di militari avessero cominciato a fuggire da una simile guerra questa si sarebbe interrotta, in un modo o nell'altro. Diserzioni, fughe di massa di intere popolazioni dalla guerra provocano il collasso del paese che le subisce. Dove simili fenomeni non si verificano le guerre continuano invece, implacabili. Pensare a guerre che producono la fuga di masse enormi di esseri umani e che tuttavia continuano e si incancreniscono è semplicemente ridicolo.

Certo, esistono migranti in fuga dalle guerre, anche se enormemente meno numerosi di quanto dica la propaganda di regime. E' sempre possibile fuggire da situazioni critiche, scampare a persecuzioni ed eccidi di massa. Ma è molto probabile che fra chi fugge dalle guerre ci siano moltissimi che fino a ieri le combattevano, quelle guerre, gente che ha subito dei rovesci e preferisce riparare in occidente in attesa di tempi migliori. Un telecronista, in un momento di forse involontaria sincerità ha detto giorni fa parlando della battaglia di Mosul: “c'è il rischio che i militanti dell'Isis sconfitti si dirigano in Europa”. Ecco, molti di coloro che “fuggono dalle guerre” lo fanno con la speranza di continuare a combattere in casa nostra, contro la nostra civiltà.
Molto significativo, direi.

giovedì 27 ottobre 2016

SOLIDALI

Nelle polemiche sui “migranti” spesso molti sbottano con frasi del tipo ”prendeteveli voi a casa vostra”. Le persone buone, colte e raffinate reagiscono di solito sbuffando, alzano gli occhi al cielo ed affermano che chi dice cose simili ragiona “di pancia”, è una persona rozza e volgare. Vediamo un po'.
In Italia siamo circa 60 milioni, divisi in 24 milioni circa di famiglie. Circa 32 milioni di italiani lavorano.
Mi pongo una domanda. Ci saranno nel nostro paese 3 milioni di famiglie composte da cittadini “buoni” e che godano di un reddito familiare complessivo di almeno (mi tengo basso) 2.000 euro? Benissimo, se queste famiglie donassero ad un migrante il 10% del loro reddito, più o meno quanto spendono per comprare a rate l'auto nuova, 3 MILIONI di migranti godrebbero di un introito mensile di 200 euro. Non molto, ma qualcosa. E l'auto nuova? Dannazione, la solidarietà dovrà pur costare qualcosa!
Andiamo avanti. Il 76,6% degli italiani possiede una casa, il metraggio medio delle case italiane è di circa 116 metri quadri.
Mi pongo un'altra domanda: ci saranno almeno tre milioni di italiani “buoni” proprietari di casa? Possiamo ipotizzare che il metraggio medio delle loro abitazioni sia di 100 metri quadri (di nuovo preferisco stare basso) e che in ognuna di queste abitazioni vivano in media 4 persone? (qui mi sono tenuto un po' alto). La risposta a tale domanda non può che essere positiva. Quindi, se ognuno di questi tre milioni di buoni ospitasse in casa sua un migrante ben 3 MILIONI di migranti sarebbero sistemati, senza requisire ostelli, alberghi e caserme. “Ma staremmo stretti” può replicare qualcuno. La risposta è sempre la stessa: la solidarietà costa.

Ma una cosa è ospitare un migrante in casa propria, altra cosa accoglierlo in strutture pubbliche, potrebbe replicare il buono. E chi lo dice? Un paese è la nostra casa comune, ce lo ricordano proprio i teorici della accoglienza e della solidarietà. Se invece di essere ospitati in mille case private mille migranti bivaccano tutto il giorno nella piazza di un paese questo crea problemi di ogni tipo, a tutti, anche a coloro che non si sentono poi tanti solidali con loro. Dal punto di vista sociale e non egoisticamente individuale crea molto meno problemi avere un migrante in casa propria.
“Ma io penso ai miei problemi” potrebbe replicare il "buono".
“Penso al bagno occupato, alla intimità che mi viene a mancare, al dover stare sotto lo stesso tetto con una persona che magari finisce per non piacermi...”. Di nuovo non si può che rispondere: “la solidarietà costa”.

A questo punto un “buono” capace di ragionare, confuso, pieno di sensi di colpa, molto perplesso potrebbe replicare, con voce tremante: “ma se diamo loro il 10% del nostro reddito o li ospitiamo a casa nostra come faremo in futuro? Continueranno ad arrivare e dovremo dare non il dieci, ma il venti, il trenta per cento del nostro reddito, ed ospitarne in casa non uno ma due, tre, quattro...”
APPUNTO!

domenica 23 ottobre 2016

RENZI E L'UNESCO

La risoluzione UNESCO su Gerusalemme è semplicemente INDECENTE. Viene di fatto negato il carattere ebraico, quanto meno, anche ebraico di Gerusalemme est, i luoghi santi vengono chiamati solo col loro nome arabo e dovrebbero essere posti per intero sotto autorità araba. Si condanna Israele che impedirebbe ai musulmani di esercitare i loro riti religiosi.
Hanno votato a favore della mozione paesi notoriamente schierati a favore della libertà di culto, strenui difensori dei diritti umani come l'Iran, il Pakistan, la Nigeria, il Sudan, il Qatar. E' vero, in questi paesi la apostasia e la bestemmia son punite con la pena di morte, in Pakistan una giovane donna cristiana, Asia Bibi, si trova da lungo tempo in carcere in attesa della esecuzione per avere “offeso il profeta”, in realtà perché cristiana, ma queste sono inezie, pinzillacchere. Gli israeliani, lo si sa, sono sporchi, brutti e cattivi, gli arabi invece sono bravi, democratici e tolleranti; l'UNESCO ci assicura che garantiranno il carattere aperto di Gerusalemme est e consentiranno a tutti di esercitare, senza pressione alcuna, le loro preghiere. C'è solo da chiedersi se chi afferma simili stronzate ci creda davvero.

Lo dico chiaramente, giudico molto positiva la presa di posizione di Matteo Renzi che ha definito “allucinante” la risoluzione UNESCO.
Certo, Renzi è circondato da tipetti come la signora Mogherini, lividamente anti israeliana, ed il suo ministro degli esteri ha detto allegramente che l'Italia si è astenuta perché da circa dieci anni “questa è la linea”. Molto interessante. C'è una mozione contro Israele e noi neppure ci prendiamo la briga di leggerla, meno che mai di pensare (troppa fatica per un ministro degli esteri), di valutare se si tratta di un documento accettabile o di carta igienica. No, il massimo che possiamo fare è astenerci, difendere Israele, votare NO, sarebbe troppo, perbacco!
Però, detto questo, e detto che il fiorentino avrebbe fatto bene a svegliarsi prima, a dire subito, prima della votazione, ciò che ha detto, resta comunque il fatto che per la prima volta un leader della sinistra (e non solo) italiana si schiera in maniera tanto chiara contro l'ipocrisia filo islamica dell'ONU. Soprattutto, è importante la affermazione di Renzi secondo cui è ora di smetterla con queste continue mozioni ONU contro Israele. E' impossibile, direi, non essere d'accordo, visto che condannare Israele è ormai diventato lo sport preferito dell'ONU.

Oggi nel mondo musulmano i cristiani vengono crocifissi ed impalati, le adultere lapidate o fustigate a morte, gli apostati decapitati, i gay impiccati o gettati dalle torri. Ovunque impazzano terroristi che sgozzano chiunque non sappia recitare i versetti del Corano e cosa fa il “tutore della legalità internazionale”? Emette un giorno si e l'altro pure condanne nei confronti di Israele che violerebbe i diritti umani! Tra l'altro questo branco di ipocriti, sempre pronti a parlare di “occupazioni” israeliane, fingono di dimenticare che esiste una fondamentale risoluzione ONU che quasi tutti i paesi musulmani non hanno mai riconosciuto e sempre violato: la 181 del novembre 1947 che dava vita a due stati: Israele ed uno stato arabo palestinese. Quasi 70 anni di guerre nascono da quel rifiuto.
L'ONU, ed in particolare la sua assemblea generale, è ormai un organismo dominato da una gran massa di stati islamici, appoggiati per motivi di opportunità da varie potenze. I governi di molti paesi occidentali, la Svezia è un caso esemplare, si accodano con la facile via dell'astensione, perché intimoriti dal gran numero di musulmani che hanno generosamente accolto e che sono ora una sorta di stato nello stato.
In una simile situazione il fatto che un leader italiano si sia schierato senza se e senza ma dalla parte di Israele è consolante. E' da faziosi non riconoscerlo.

martedì 18 ottobre 2016

IL LIBRO NERO DEL CALIFFATO


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Il libro nero del Califfato” di Carlo Panella, BUR 2015.
Si intitola “il libro nero del califfato” ma potrebbe intitolarsi “Il libro nero del fondamentalismo islamico”. Un libro importante, amplissimo, rigorosamente documentato che ripercorre le tappe salienti della storia recente (e meno recente) dell'Islam.
Leggendolo si può constatare come il fondamentalismo aggressivo non sia affatto una novità, una sorta di reazione agli errori della politica occidentale, ma una caratteristica strutturale dell'Islam, qualcosa di profondo, radicato nella sua ideologia e nella sua storia, soprattutto a partire dallo scisma salafita wahabita del 1744 che ha dato vita ad una delle sette più chiuse ed aggressive del mondo musulmano, quella che è ancora saldamente al potere oggi in Arabia saudita e che influenza in profondità tutto il mondo sunnita.
E' impossibile riassumere il libro, che spazia sulle varie crisi medio orientali dal primo conflitto mondiale ad oggi, ampliando spesso il discorso a tutta la storia dell'Islam ed alla sua ideologia. Qui si può solo evidenziare l'abilità con cui Panella distrugge alcuni luoghi comuni della vulgata anti imperialista sempre pronta a giustificare i crimini dei fondamentalisti con le colpe (vere o presunte) e gli errori (veri o presunti) dell'occidente.
L'antisemitismo del mondo musulmano, ad esempio, che per la vulgata sarebbe una conseguenza della creazione dello stato di Israele. Panella non ha difficoltà a dimostrare come l'antisemitismo sia invece una costante dell'Islam che risale ai tempi del profeta. In conseguenza di questo profondo, radicatissimo e feroce antisemitismo gli ebrei sono stati accusati di avere provocato i vari scismi islamici, da quello fra sciiti e sunniti agli altri, fra varie sette sciite e sunnite. Sempre, dietro a questi scismi che dovevano dar luogo a sanguinoso guerre fratricide, ci sarebbe stata l'azione malefica di ebrei finti convertiti all'Islam.
Oppure l'idea, oggi abbastanza diffusa in occidente, che la guerra fra israeliani e palestinesi sia un conflitto nazionalistico per la terra. Di nuovo, Panella sgonfia con estrema facilità questo luogo comune dimostrando, anche attraverso una attenta analisi dei documenti ufficiali dei vari gruppi Jihadisti, che lo scontro è di tipo ideologico e religioso. Israele sorge su una terra che è stata islamica e deve tornare ad esserlo, fino alla fine dei tempi. Non si tratta della controversia in cui due nazionalità si contendono un certo territorio, questo tipo di controversia è sempre risolvibile con dei compromessi; si tratta di una questione ideologica, di principio: non può esistere uno stato di infedeli, e meno che mai di ebrei, in terra musulmana. Non a caso l'egiziano Sadat, che ha alla fine rifiutato questa visione integralista del conflitto con Israele per far sua una concezione di tipo nazionalistico, ha pagato con la vita la sua scelta.
Ed ancora, viene dimostrato quanto sia fuorviante definire “laici” dittatori come Nasser o Saddam Hussein. Si tratta di personaggi che si sono appoggiati, è vero, sulle forze armate, ma che hanno sempre puntato sulla mobilitazione fanatica delle masse e si sono distinti per guerre a sfondo religioso e la repressione di minoranze religiose ed etniche. L'Iraq di Saddam in particolare è sempre stato tormentato da latenti, e meno latenti, guerre civili contro gli sciiti ed i Curdi. Con buona pace di quanti vorrebbero far risalire all'intervento americano il caos in cui versa oggi quel paese.

Contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare il libro di Panella non si riduce ad una condanna assoluta ed indifferenziata dell'Islam nel suo complesso. L'autore dedica al contrario spazio ed attenzione a quelle tendenze, presenti nell'Islam, che definisce costituzionaliste o nazionaliste. Posizioni come quella dell'Egitto del “secondo” Sadat e di quello odierno di Al Sisi, o della Giordania di Husayn, che hanno cercato di impostare su basi nazionali lo scontro con Israele, o del re del Marocco, che ha dato vita ad alcune riforme nel diritto familiare. Panella prende anche in esame il lavoro teorico di alcuni musulmani critici del fondamentalismo che si sono opposti al dogma secondo cui il Corano non è interpretabile. A questo dogma è stata opposta una concezione più elastica che distingue nel Corano una parte non soggetta ad interpretazioni da un'altra, quella caratterizzata dalle sure più violente, che sarebbe influenzata dal momento storico e quindi passibile di interpretazione. Purtroppo però nessuno dei fautori di questa linea riformista è morto di morte naturale. E qui si arriva la punto dolente: le posizioni riformiste, nazionaliste o costituzionaliste sono da sempre largamente minoritarie nell'Islam. Minoritarie non solo fra i vari stati islamici ma a livello di massa. Altro che terrorismo che sarebbe “estraneo all'Islam” come blaterano gli occidentali politicamente corretti! Panella non ha nessuna difficoltà a dimostrare che il fondamentalismo fazioso ed assassino non solo fa parte dell'Islam, ma è oggi maggioritario fra le masse dei musulmani, quanto meno, queste non gli si oppongono, ma spesso e volentieri lo sostengono in maniera entusiastica. Purtroppo.

Particolarmente interessanti, in un libro che è tutto del massimo interesse, il paragrafo dedicato
ai profughi palestinesi e quello riguardante l'incredibile impermeabilità culturale dell'Islam.
Parlando dei profughi Panella ricorda la situazione europea al termine del secondo conflitto mondiale, con milioni di tedeschi, polacchi, ungheresi, istriani cacciati dalle loro terre e ridotti allo stato di profughi. Nessuna di queste situazioni si è incancrenita come quella palestinese. I profughi si sono integrati nei paesi che li hanno accolti e nessuno di loro ha preteso, a distanza di decenni, di tornare ai paesi di origine. La stessa cosa è successa agli abitanti ebrei di numerosi paesi arabi che, cacciati a partire dal 1948 da terre in cui vivevano da secoli, hanno trovato rifugio in Israele e lì sono vissuti. Come ben si sa la situazione dei palestinesi è completamente diversa. Hanno abbandonato le terre in cui vivevano dopo aver perso due guerre finalizzate alla distruzione di Israele, e da allora hanno vissuto in vari paesi arabi come autentico stato nello stato, cercando di spingere questi paesi ad una guerra che spesso non avevano alcuna voglia di combattere. Tra l'altro i palestinesi sono gli unici esseri umani del mondo per i quali, ricorda Panella, lo status di profugo sia ereditario.
Quanto alla impermeabilità culturale dell'Islam Panella fornisce cifre impressionanti. Val la pena di citarne una per tutte: da un rapporto delle nazioni unite risulta che a tutto il 2002 nel mondo arabo venivano tradotti non più di trecento libri all'anno, un quinto di quanti ne vengano tradotti annualmente nella sola Grecia. E' un indice impressionante che testimonia di una diffusissima cultura della separazione. Qualcosa su cui farebbero bene a meditare i tanti occidentali che parlano spesso a vanvera di “integrazione”.


Indipendentemente dai giudizi, sempre acuti e documentatissimi, sui vari momenti della storia dell'Islam contemporaneo nel libro di Panella è presente una critica severa nei confronti della politica occidentale. La critica riguarda soprattutto l'incapacità dell'occidente di comprendere l'Islam ed il conseguente rifiuto di tenere nel debito conto il peso che nel mondo e nella storia musulmana hanno i fattori ideologici e religiosi. Molti, troppi governanti occidentali pensano che tutto sia spiegabile in termini di rendite petrolifere ed equilibri geopolitici. Hanno sottovalutato il peso del fattore religioso, col risultato tra l'altro di scambiare le cosiddette “primavere arabe”, purtroppo egemonizzate dagli integralisti, con rivolte laiche e democratiche. Le catastrofi che una simile impostazione ha prodotto, a partire dalla Libia, sono sotto gli occhi di tutti.

Per concludere, “
il libro nero del Califfato” è, senza ombra di dubbio, un libro da leggere, con attenzione. Uno strumento prezioso per conoscere una realtà che ci tocca tutti molto da vicino, ma su cui ancora oggi imperano vieti luoghi comuni e la più crassa ignoranza. Particolare importante, al termine del libro vengono riportati, in appendice, documenti di estrema importanza. La fatwà del gran Muftì di Gerusalemme che schierava i palestinesi a fianco dell'asse, varie risoluzioni ONU, a partire dalla 181 del 29 novembre 1947 sulla divisione della Palestina, lo statuto di Hammas, (da leggere assolutamente), la costituzione della repubblica islamica dell'Iran ed altri ancora, tutti di estrema importanza.
Fra i tanti libri da nulla che fanno brutta mostra di se nelle librerie questo di Carlo Panella è insomma un libro importante, nel senso pieno del termine.
Val la pena di ripeterlo, da leggere!

sabato 15 ottobre 2016

LA NUOVA NEOLINGUA


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Quella della “neolingua” è forse una delle “invenzioni” teoriche più acute e profonde di Orwell. La neolingua è un nuovo linguaggio elaborato dai professori del partito al potere per ridurre drasticamente le possibilità espressive del pensiero. Per esprimersi il pensiero ha bisogno di un linguaggio, di parole. La neolingua è strutturata in maniera tale da impedire che il pensiero possa partorire concetti pericolosi, non ortodossi.
Chiunque fosse cresciuto conoscendo soltanto la neolingua” scrive Orwell, “non avrebbe saputo più che la parola uguale significava anche “uguale da un punto di vista politico”; o che prima libero significava “intellettualmente libero”; allo stesso modo in cui una persona che non conoscesse il gioco degli scacchi non avrebbe saputo dei significati secondari annessi alle parole regina o torre. Ci sarebbe stata tutta una serie di crimini che non avrebbe potuto commettere, per il fatto stesso che mancavano i termini atti a definirli e che quindi erano inimmaginabili”.
In neolingua concetti come “diritti umani” o “libertà di pensiero” sarebbero stati semplicemente inesprimibili, quindi impensabili. Il termine “libero” in neolingua poteva avere solo significati del tipo: “giardino libero dalle erbacce” o “strada libera da detriti”, assolutamente nulla che potesse rinviare, in un modo o nell'altro, ai diritti o alla libertà di pensiero. Una volta che la neolingua si fosse definitivamente affermata e che anche le ultime vestigia della “archeolingua” fossero state distrutte il pensiero “eretico”, la dissidenza sarebbero stati impossibili, e con questi sarebbero scomparsi i crimini contro il partito. Gli esseri umani sarebbero diventati meri ingranaggi di una mostruosa ed onnicomprensiva macchina totalitaria.
Qualcosa di simile, anche se, per fortuna ancora allo stato embrionale, sta succedendo oggi, con il tentativo di imporre a tutti la neolingua politicamente corretta.

La neolingua politicamente corretta altro non è che il tentativo di trasferire nel linguaggio l'ideologia politicamente corretta. Non si tratta di difendere i valori (o presunti tali) espressi da tale ideologia usando il comune linguaggio umano, si vuole plasmare il linguaggio in maniera tale che il suo semplice uso esprima la superiorità di questi valori. Ad esempio, nel decadente occidente di oggi molti teorizzano che la differenza sessuale è secondaria; è irrilevante ai fini della riproduzione della specie e non merita particolari tutele giuridiche. Si tratta di una opinione assai discutibile ma lecita, ovviamente. I professorini del politicamente corretto non si limitano però ad argomentare e difendere questa opinione, modificano il linguaggio per adeguarlo alla loro ideologia. La differenza sessuale è irrilevante, quindi sono irrilevanti i ruoli di padre e di madre, quindi non si devono più usare i termini “padre” e “madre”. Al loro posto si devono usare i termini “genitore uno” e “genitore due” (un giorno ci saranno forse i genitori tre, quattro, cinque eccetera). E' chiaro che il semplice uso di questi termini segna la vittoria della ideologia gender, una branca del politicamente corretto, che li ha prodotti. Come posso difendere lo status ontologico della differenza sessuale, dei padri e delle madri, se già parlandone rifiuto di chiamarli col loro nome? Dire “genitore uno” equivale ad ammettere che la differenza sessuale è irrilevante. Esattamente come la neolingua orwelliana quella politicamente corretta rende impossibile la dissidenza, prima imbriglia il pensiero, infine lo distrugge.

Nel bellissimo saggio sulla neolingua che segue il romanzo “1984” Orwell espone i principi di questo nuovo linguaggio. Due sono particolarmente interessanti e richiamano da vicino quanto succede oggi nella nostra civiltà in crisi.

1 - eliminare le forme irregolari e le eccezioni linguistiche, e uniformare le regole per la formulazione di plurali e forme verbali: ad esempio il plurale di "uomo" diventa "uomi", il participio passato di "correre" diventa "corruto" e così via;
2 - conservare per ogni termine un solo significato, ben definito e privo di sfumature, ed eliminare tutti i suoi sinonimi: ad esempio "uguali" inteso solo come "coincidenti", o "coltello" usato anche per indicare l'atto del tagliare. Ciò avrebbe reso concetti come "uguali davanti alla legge" o "tagliare i viveri" inesprimibili, se non con espressioni lunghe, complicate e quindi dispersive e incomprensibili.

E' difficile leggere queste parole senza pensare alla polemica in atto su neologismi come “sindaca”, “assessora”, “presidenta”.
Il femminile si forma in vari modi, lo abbiamo imparato tutti alle elementari. Il femminile di “dottore” è “dottoressa”, quello di “re” “regina”, quello di “imperatore” “imperatrice”.
Tutto questo non piace alle vestali del politicamente corretto. Se il femminile di termini indicanti funzioni o cariche sociali si forma in vari modi ciò significa, dicono, che è una eccezione, non la regola, che siano donne ad occupare certe cariche. Questo sarebbe “maschilista”, quindi deve esserci un solo modo di volgere al femminile questi termini: sostituire la vocale finale con la “A”. Presidente diventa “presidenta”, sindaco “sindaca”, ministro “ministra”. Il linguaggio si uniforma e si abbruttisce, diventa piatto e meccanico, ma chi se ne frega? L'ideologia del femminismo radicale è salva.
Ovviamente usare il termine “sindaco” anche se a coprire quella carica è una donna non vuol dire affatto teorizzare che solo gli uomini possano essere sindaci. I linguaggi umani sono pieni di sfumature, ambiguità positive. Ogni termine può essere usato con significati diversi in diversi universi del discorso, e nel corso del tempo il senso di molti termini muta, si arricchisce, acquisisce sfumature nuove. “Sindaco” indica una carica, non il sesso di chi la ricopre. Un tempo era praticamente scontato che fossero gli uomini a ricoprirla, oggi è pacifico che la possono ricoprire sia gli uomini che le donne, senza che si debba usare una mostruosità linguistica come “sindaca”. E ancora, termini come “umanità” o “diritti umani” non si riferiscono solo alla componente maschile del genere umano. Si dice “umanità riferendosi agli uomini come alle donne; si parla di tutela dei diritti umani indipendentemente dal sesso di chi ne gode o dovrebbe goderne.
Tutto questo però non piace ai professorini del politicamente corretto. Loro vogliono una lingua precisa come una formula matematica, priva di sfumature e ambiguità. Peccato che una tale lingua renda alla lunga impossibile il pensiero. Torniamo al caso di “sindaco” e “sindaca”. Come ci si deve comportare quando si parla di un sindaco senza sapere di che sesso è? E' giusto dire: ”Il sindaco di Vattelapesca ha detto che...”? E se il sindaco di Vattelapesca fosse di sesso femminile? Parlando del “sindaco” abbiamo offeso le donne! Siamo dei biechi sessisti maschilisti!
E come fare quando si parla, ad esempio, delle prossime elezioni in cui si dovrà scegliere il sindaco di un certo paese? Ancora non sappiamo chi verrà eletto, quindi, come possiamo parlare di “sindaco”? E se ad essere eletta fosse una donna? Che guaio!
Per essere in linea col politicamente corretto dovremmo costruire frasi del tipo: “Il sindaco o la sindaca di Vattelapsca ha detto che...” oppure “Sono convocate le elezioni per eleggere il sindaco o la sindaca di...”. Si provi a generalizzare un tale linguaggio e si veda se resta possibile la comunicazione fra gli esseri umani.

Ma l'imposizione della neolingua politicamente corretta non riguarda solo i maschili e i femminili. Tutto il linguaggio deve uniformarsi ad una certa ideologia, e devono sparire tutte le parole, e tutte le espressioni che possano in qualche modo favorire pensieri “eretici”. Come si sa, un campo fertile di applicazione del politicamente corretto riguarda le malattie e le disabilità. Non si tratta, dovrebbe essere chiaro, di umana partecipazione al dolore di chi soffre, o di solidale disponibilità all'aiuto. Si tratta di ben altro. Per le vestali del politicamente corretto la malattia, le disabilità
non esistono, come non esistono i sessi. Un cieco non è una persona che soffre di una grave menomazione fisica che influenza negativamente la sua esistenza, è semplicemente una persona “diversa”. Il disabile non è tale, è diversamente abile. E' da “razzisti” pensare che chi ha le proprie gambe sia fisicamente superiore a chi non le ha. I due sono solo “diversi”, punto. Ovviamente dietro a tali scemenze si cela un mare di ipocrisia: chi ha le gambe non vorrebbe mai essere inchiodato su una sedia a rotelle, chi ci vede preferisce non far parte dell'insieme dei “non vedenti”, ma questi sono dettagli. Si cambino i nomi e tutto quadra. La sofferenza non è eliminata, pazienza, intanto non colpisce noi!
Le persone normali diventano in questo modo “
normodotate”, i bassi “verticalmente svantaggiati” ciechi “non vedenti”, i disabili “diversamente abili”, gli zoppi “diversamente deambulanti” eccetera eccetera. A prescindere da altre considerazioni è chiaro che l'uso di questi termini distrugge radicalmente la ricchezza del linguaggio, ne elimina le sfumature, la molteplicità dei sensi, la possibilità di costruire metafore.
Prendiamo il termine “
cieco”. Questo normalmente indica una persona che non ci vede, ma può essere usato in molti altri sensi. Si può parlare ad esempio di “vicolo cieco” o di “finestre cieche”; si tratta di espressioni vivide, colorite, in grado di rendere plasticamente l'idea di una certa situazione o di un determinato stato di cose. Si provi ora a sostituire in queste espressioni al termine “cieco” il suo sostituto politicamente corretto. Avremo: “vicolo non vedente” o “finestra non vedente”. Mostruosità senza senso.
Qualcuno potrebbe ribattere che si potrebbe continuare ad usare il termine “cieco” in espressioni come “vicolo cieco” senza usarlo più riferito alle persone, ma proprio questo è impossibile.
La variazione di significato di una parola arricchisce il discorso se di questa parola esiste il significato principale. “Finestra cieca” è una espressione leggermente inquietante proprio perché esiste il termine “cieco” col suo significato di menomazione fisica che riguarda le persone. Se quel significato principale fosse abolito, se tutti per anni usassero il termine “non vedente” senza neppure accostare a questo, mentalmente, il termine “cieco”, espressioni come “finestra cieca” o “vicolo cieco” perderebbero tutto il loro colore ed il loro fascino. Proprio questo volevano gli inventori della orwelliana neolingua: standardizzare al massimo il linguaggio perché solo standardizzandolo al massimo, riducendo il numero delle parole e togliendo a queste ogni sfumatura ed ambiguità, si potevano evitare tentazioni di pensiero eretico.
Lo stesso fine si propongono oggi i sacerdoti del politicamente corretto: un linguaggio standardizzato, con poche parole, prive di sfumature, rigidamente legate alla ideologia dominante. Un simile linguaggio rende difficili prima, ed alla lunga impossibili, i pensieri non conformisti. Sarebbe possibile, per fare un altro esempio, formarsi il concetto di “clandestino” se le uniche parole ammesse, studiate a scuola, fatte imparare ai bambini sin dalla più tenera età, fossero “migrante” e “profugo”? Chi controlla il linguaggio controlla il pensiero, e con questo la vita degli essei umani.

Ed insieme ai pensieri eretici un simile linguaggio
rende impossibile la letteratura. Questo è un bene, deve essere chiaro, per i teorici della ideologia politicamente corretta. E' un bene perché nulla come la letteratura stimola e favorisce il pensiero autonomo, e con questo il dubbio, la critica.
Qualcuno dubita che la neolingua politicamente corretta renda impossibile la letteratura? Beh... provi a pensare a cosa ci troveremmo fra le mani se tentassimo di tradurre in politicamente corretto “
i promessi sposi”. E riusciamo ad immaginare Amleto che definisce "genitore due" la madre traditrice? Od Otello che da Moro di Venezia diventa "afroamericano di Venezia"? Da rabbrividire!
La neolingua politicamente corretta distrugge, insieme, la possibilità della umana comunicazione e della letteratura. Se oggi esistono ancora una comunicazione ed una letteratura ciò è dovuto al fatto che la neolingua politicamente corretta è ancora largamente incompleta e non è usata dalla stragrande maggioranza degli esseri umani né per scrivere né, tanto meno per parlare. La gente normale non usa termini come “genitore uno” o “verticalmente svantaggiato”, nessuno parla di “femminicidi” in una discussione fra amici, nessuno dice che è incerto su chi votare per la carica di “sindaco o sindaca”. La neolingua politicamente corretta è la lingua dei media, dei burocrati della UE, la lingua che gli esponenti di quasi tutti i partiti politici usano nelle risoluzioni ufficiali, e solo in quelle, perché quando parlano normalmente anche loro usano la lingua normale.
Non è casuale tutto questo. La neolingua politicamente corretta è una lingua costruita a tavolino, lontanissima dalla naturale, molecolare, evoluzione che ogni linguaggio subisce nel tempo ad opera della massa dei parlanti ed anche dai processi di abbellimento cui lo sottopongono periodicamente i letterati. Branchi di sacerdoti del politicamente corretto, piccoli, insignificanti burocrati dotati però di quella cosa fondamentale che è il potere, si riuniscono ogni tanto e decidono che la tal parola non è in linea con la loro ideologia, quindi la cambiano. Da quel momento sui media e sui giornali si comincia ad usare una nuova parola che nessuno fino al giorno prima aveva mai sentito. Dopo un po' chi non usa quella parola diventa subito “razzista”, oppure “omofobo”, oppure “xenofobo” e così via. Tutto è artificioso, freddo, burocratico, lontano anni luce dalla vita vera, dalla vera evoluzione del linguaggio. Recentemente la regione Sardegna ha stabilito per legge che nelle risoluzioni ufficiali bisogna declinare al femminile i termini che si riferiscono a cariche politiche. Insomma, la legge ci obbliga ad usare parole come “sindaca”, “assessora”, “ministra”. Cosa succede a chi non le usa? Rischia l'ergastolo, o venti anni di reclusione? Ce lo dicano, per piacere.
Qualcuno può sorridere di tutto questo, ma si tratta di un errore. L'imposizione, addirittura per legge, di un certo linguaggio potrà anche essere qualcosa di velleitario, privo di conseguenze reali, ma esprime una terrificante mentalità totalitaria, è lo specchio della profondità della malattia che sta corrodendo dall'interno la nostra civiltà. Prima ce ne rendiamo tutti conto meglio è. Per tutti.

giovedì 13 ottobre 2016

GUERRE E NUMERI

Esiste in rete il sito www guerre nel mondo.it.
E' interessante visitarlo. Vi si elencano tutti i conflitti che insanguinano oggi il pianeta. Sono elencati 25 “punti caldi”, conflitti cioè particolarmente estesi e sanguinosi che possono a giusta ragione definirsi guerre. Di questi 18, pari ad una percentuale del 72% del totale riguardano l'Islam. Si tratta prevalentemente di guerre fra islamici o di guerre degli islamici contro laici o seguaci di altre fedi.
Va sottolineato un particolare importantissimo. Da queste guerre è escluso il terrorismo. Nell'elenco compare l'Europa i cui punti caldi sono l'Ucraina, la Cecenia, il Daghestan, ed il Nagorno Karabakh. Non compaiono invece il Regno Unito, né la Francia, né la Spagna, né il Belgio. Allo stesso modo, parlando delle Americhe non compaiono gli Stati Uniti. Tutti questi paesi sono però stati vittime di attacchi terroristici devastanti e molte loro città si trovano periodicamente a vivere
in stato d'assedio. In un elenco degli attacchi terroristici nel mondo la percentuale di questi da attribuirsi a vari gruppi islamici è vicinissima al 100%.

Nel suo bellissimo “
Libro nero del califfato” Carlo Panella stima che in 50 anni, dal 1956 al 2006, sono morti in conflitti fra musulmani, arabi e non arabi, da 4.600.000 a 6.000.000 di persone. A questi vanno aggiunti i morti negli scontri fra musulmani e non musulmani. Le cifre ovviamente sono approssimative e vengono ricavate incrociando, al ribasso, i dati forniti dalle organizzazioni umanitarie, quelli delle migliori agenzie informative e degli osservatori più documentati. Per quanto ovvio val la pena di sottolineare che le guerre fra musulmani non contrappongono un Islam “moderato”, “laico”, aperto ai valori della democrazia ad uno integralista. Si tratta quasi sempre di conflitti settari fra sunniti e sciiti, o fra varie sette sciite o sunnite, o fra fanatici della teocrazia e governi anch'essi teocratici, ma propensi a vantaggiose alleanze tattiche con l'occidente.

Queste cifre dicono almeno un paio di cose, le dicono, ovviamente, a quelle persone che non hanno fatto la scelta di rinunciare definitivamente alla faticosa attività del pensare.


La prima: la guerra è una caratteristica strutturale dell'Islam, quanto meno, di una parte amplissima ed oggi largamente maggioritaria dell'Islam.
C'è chi chiede polemicamente a coloro che evidenziano il carattere aggressivo dell'Islam: “ma... volete la guerra di religione? Volete dichiarare guerra ad un miliardo e seicento milioni di musulmani?"
E no cari signori! Sono quel miliardo e seicento milioni di musulmani che hanno dichiarato guerra a se stessi ed ai quattro miliardi e mezzo di non musulmani! Nessun occidentale, credo, vuole una guerra generalizzata all'Islam, ma moltissimi occidentali, credo, non intendono accettare una conversione forzata. L'Islam fondamentalista va combattuto a tutti i livelli, compreso quello militare, tutto qui. Israele non pensa certo di dichiarare guerra al Pakistan o all'Iran, ma si difende, con le unghie e con i denti. Non ha mai dichiarato guerra all'Iraq, ma quando l'Iraq è stato ad un passo dal possedere l'atomica ha bombardato i suoi impianti nuclearei, senza far troppo caso alle ipocrite condanne di tanti occidentali. Ha fatto bene.
A proposito di Israele. Nel su libro Carlo Panella ricorda che nel corso di tutte le guerre combattute dal 1918 al 2006 fra arabi, palestinesi da una parte e sionisti israeliani dall'altra, sono morte complessivamente non più di 100.000 persone, forse solo la metà. Una cifra alta ma enormemente più piccola di quella riguardante i conflitti che hanno visto i musulmani massacrarsi a vicenda. Eppure c'è chi parla di “genocidio” israeliano ai danni dei palestinesi. Se i numeri hanno un senso dovremmo dire che sono i musulmani ad aver messo in atto il più spaventoso autogenocidio di ogni tempo.

La seconda
: Non esiste una “emergenza emigranti” legata alle guerre. Non esiste, questa "emergenza", non solo perché moltissimi “migranti” vengono da paesi attualmente non in guerra, ma per la ragione, molto più importante, che le guerre che insanguinano l'Islam non sono eccezioni, tragiche emergenze, costituiscono al contrario una semi normalità. L'Islam, o almeno una sua parte preponderante, è perennemente in guerra con se stesso e con gli altri, questa è la tragica realtà. Iran, Iraq, Siria, Libano, Sudan, Pakistan, Nigeria, Algeria, Arabia Saudita, Afghanistan. Tutti questi paesi sono stati o sono  tormentati dalla guerra. Si può dire che per loro la pace sia  l'eccezione più che la regola. E molti dei migranti che "fuggono dalle guerre" ne erano, fino a ieri, i combattenti, a volte dalla parte sbagliata. Anche perché in molte di queste guerre non esiste una “parte giusta”.

Cosa cosa dobbiamo fare, allora? Continuare a farci carico dei costi umani, sociali, culturali ed economici delle interminabili guerre che caratterizzano l'Islam? O cercare di elaborare politiche serie, e coraggiose, per indurre, con le buone o con le cattive, alla ragione chi non vuole o non sa, ragionare?
Se continueremo con la bontà pelosa e l'indiscriminata accoglienza, in una parola, con una passività che è complicità, diventeremo Islam anche noi, e cominceremo, anche noi, ad avere le nostre belle guerre civili, le nostre interminabili Jihad. Con la benedizione di tutti i "buoni" del mondo.



DARIO FO

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E' morto Dario Fo. E' stato un grande attore, meglio, un grande, grandissimo giullare, un uomo capace di “tenere” da solo il palcoscenico per ore. Questa però è la sola cosa buona che si può ricordare di lui.
NON è stato un grande letterato, malgrado il nobel tutto politico che gli è stato concesso. Le sue opere teatrali sono prive di autonomo valore letterario, pura propaganda. Solo la sua incredibile abilità istrionesca conferiva a questa spazzatura una effimera grandezza. Chi avesse dei dubbi può chiedersi: si rappresentano forse, oggi, interpretate da altri, opere come “Morte accidentale di un anarchico defenestrato” o “Non si paga, non si paga”? Direi di no. Passato il momento politico queste opere sono cadute in un meritatissimo oblio. Del resto, se si pensa che scrittori come Musil, o, per scendere alquanto di livello restando però sempre alti, Kundera, non hanno mai preso il nobel, assegnato invece a Dario Fo, si capiscono molte cose sullo stato odierno di certi riconoscimenti, specie in discipline non scientifiche.

Ma Dario Fo è stato soprattutto un uomo impegnato in politica, ed è su questo impegno che si possono dire su di lui le cose meno belle.
Fascista da giovanissimo si è convertito poi al comunismo. Ed ha utilizzato tutta la sua abilità di giullare per celebrare due fra i massimi tiranni criminali espressi da questa ideologia totalitaria: Giuseppe Stalin e Mao Tze Tung.
E' stato un mao stalinista coerente e fazioso. Il suo modello era la “grande rivoluzione culturale proletaria”, si , proprio quella, con i professori universitari mandati ai lavori forzati in campagna o messi, letteralmente, alla gogna nelle strade e nelle piazze di Pechino.
Secoli fa, da giovanotto, ho assistito a molte sue rappresentazioni. In una gli ho sentito dire, più o meno, che “dopo la rivoluzione i primi che bisognerà fucilare saranno gli intellettuali”, nulla di nuovo sotto il sole. Un'altra, si trattava, se ricordo bene, di “Fedayn”, una bieca esaltazione del terrorismo palestinese, è stata seguita dall'immancabile dibattito. Pochi giorni prima era stato assassinato il commissario Calabresi. Il giudizio su quella “uccisione” (nessuno nell'estrema sinistra definì maiomicidio” la morte di Calabresi) era, ovviamente, il tema del dibattito. La platea si divise fra chi rivendicava il valore politico della “uccisione” di Calabresi e chi invece sottolineava i pericoli che da questa potevano sorgere per “lo sviluppo delle lotte”. Dario Fo sosteneva questa seconda tesi. La morte di Calabresi poteva essere usata dai “nemici del proletariato”, ucciderlo era stata una cosa poco opportuna.
Ecco, era questo il Dario Fo politico, quello che ha concluso i suoi giorni, non casualmente, come guru del movimento di Grillo.
Sinceramente, non lo rimpiango. Riposi comunque in pace.

giovedì 6 ottobre 2016

DI COSA POSSIAMO DISCUTERE LIBERAMENTE IN ITALIA?

In Italia esiste pluralismo, libertà di discussione, informazione almeno un po' imparziale e pluralista? Dipende dagli argomenti che si trattano. Questi possono essere, grosso modo, divisi in tre categorie.

La prima categoria riguarda argomenti su cui la discussione è relativamente libera e l'informazione non è completamente a senso unico.
La signora Raggi si sta comportando bene o male? Val la pena di aiutare certe banche in difficoltà? Hanno ragione i fautori del SI o quelli del NO per il referendum istituzionale di Dicembre? L'economia va bene o va male? Su queste cose la discussione è ancora abbastanza libera, per lo meno, su simili argomenti è ancora possibile ascoltare punti di vista contrastanti.

La seconda categoria è costituita da argomenti su cui esiste una (molto) relativa libertà di discussione ed una informazione non completamente faziosa, a condizione che ci si limiti a discutere certi problemi senza risalire alle loro cause ed al loro fondamento.
Un esempio lampante è l'Europa. Si può discutere sulla “flessibilità” o sulle esternazioni della signora Merkel, ma non si può, non si deve assolutamente mettere in discussione la UE. La UE è fattore di pace, giustizia, progresso sociale, civile e culturale, sviluppo. Se qualcuno non la pensa così è uno sciovinista reazionario, un provinciale ignorante, un vecchio rincoglionito cui andrebbe tolto il diritto di voto. L'atteggiamento tenuto dai media in occasione della “brexit” è sintomatico. I favorevoli alla brexit sono stati presentati come dei barbari fautori di un folle ritorno al medio evo. Non una sola parola è stata spesa dai vari commentatori per cercare di esporre con un minimo di imparzialità al popolo bue le loro tesi, giuste o sbagliate che fossero. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

La terza categoria è data da quegli argomenti su cui nessuna discussione è possibile e su cui i media propagandano continuamente, in maniera martellante, ossessiva gli stessi triti e ritriti luoghi comuni.
L'Islam è una religione di pace, con cui il terrorismo non ha nulla a che vedere. I terroristi sono finti islamici, nemici del “vero” islam, che è tanto buono e pacifico. Non esiste alcun legame fra migrazioni e terrorismo. Dietro al terrore ci sono i mercanti di morte ed il “Dio denaro”. I migranti sono una preziosa risorsa, in ogni caso abbiamo l'obbligo etico di accoglierli. L'integrazione è sempre possibile, basta che noi la vogliamo. Quelli che vengono spacciati per atti di terrorismo sono spesso gesti isolati di disturbati mentali. Se Israele la smettesse di opprimere i poveri palestinesi il terrorismo cesserebbe. Bisogna costruire ponti e non muri, eccetera eccetera.
Su cose di questo genere non si può, non si DEVE discutere. Chi non crede che l'Islam sia una “religione di pace” è un islamofobo intollerante. Chi avanza dubbi sulla accoglienza senza regole è, con tutta evidenza, uno sporco “razzista, chi non crede ai “disturbati mentali” e si chiede sommessamente come mai ci siano tanti “disturbati” fra i musulmani è uno xenofobo reazionario.
Se c'è di mezzo l'Islam, e le migrazioni, e il terrorismo la propaganda di regime diventa oppressiva, non lascia spazio alcuno al dubbio. I vari TG ripetono di continuo le stesse formulette, senza neppure curarsi di renderle non contraddittorie fra loro. Prima dicono che i migranti sono una preziosa “risorsa” e cinque minuti dopo affermano che i vari paesi europei devono “abbandonare l'egoismo e farsene carico”, senza pensare che degli egoisti sarebbero ben felici di “farsi carico” di “preziose risorse”. Prima parlano di “disturbati mentali”, un minuto dopo cinguettano che quel certo“disturbato” si è “radicalizzato” perché, poverino, viveva in un orribile ghetto, lo stesso che un mese prima era orgogliosamente presentato come un “modello di integrazione”. Coerenza, serietà, decenza, vanno letteralmente a farsi fottere quando ci sono di mezzo i nostri fratelli.

Non val la pena di spendere altre parole. Basta ricordare che gli argomenti su cui si può discutere liberamente sono di gran lunga i meno importanti. L'operato di Virginia Raggi, il direttorio dei cinque stelle, lo stesso referendum istituzionale sono poca cosa di fronte alla guerra che il fondamentalismo islamico ha dichiarato a se stesso e all'occidente, o di fronte all'impatto del nostro continente con milioni di potenziali, e non solo potenziali, migranti.
Sulle cose davvero importanti, decisive, si deve tacere ed ascoltare solo una voce, dolce ed insinuante certe volte, perentoria se non minacciosa altre. Fino al giorno incui l'unica voce che potremo ascoltare, noi come i servi sciocchi del regime politicamente corretto, sarà quello del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi.

martedì 4 ottobre 2016

UNA CAGATA PAZZESCA!!!







Mi è capitato di leggere, qualche giorno fa, questo commento al un post di una persona che ho il piacere di annoverare fra le mie amicizie virtuali di FB:
"Tu rappresenti un pensiero minoritario, fattene una ragione." stava scritto. "Le persone colte, istruite e che non vivono in provincia non la pensano come te, come Libero e come Il Giornale. Fattene una ragione che vivi meglio.

Si tratta di un commento che è un po' la summa della stupidità, della arroganza e della presunzione intollerante di tanti finti intellettuali politicamente corretti. Per questo val la pena di dedicargli due (non più di due) parole.
Rappresenti un pensiero minoritario” scrive questo signore... anche se fosse vero, cosa ci sarebbe di male? Galileo e Copernico rappresentavano un “pensiero minoritario”. Moltissime dottrine filosofiche, teorie scientifiche, correnti artistiche sono state, a volte anche a lungo, minoritarie... e allora?
Le persone colte ed istruite, e che non vivono in provincia non la pensano come te”. Davvero fantastico! A quale cultura ed istruzione si riferirà mai questo signore? Forse è una persona di sterminata cultura, si diletta con Aristotele e Kant, Newton, Einstein e Godel, divora i romanzi di Dostoevskij e Thomas Mann ascolta estasiato Bach, Mozart e Beethoven. Però io ho la sensazione che i suoi autori preferiti siano Camilleri ed Eugenio Scalfari. Quanto alla musica, ho il forte sospetto  che i suoi ascolti non vadano oltre Jovanotti. Perché ho questa sensazione? Per il semplice motivo che una persona che si sia davvero confrontata coi giganti del pensiero e della creatività non può essere stupida in maniera tanto piatta e desolante. Soprattutto non può seriamente pensare che chi non vive in un grande centro sia una sorta di capra incapace di pensiero razionale.
Questo signore ha la tipica mentalità degli pseudo intellettuali "progressisti", quelli che scambiano   "la repubblica" di Scalfari con quella di Platone. Forse frequenta qualche circolo culturale, più probabilmente qualche cineclub di "elite". Assiste forse, ogni tanto, trattenendo gli sbadigli, alla proiezione  di un film giapponese in lingua originale, ovviamente coi sottotitoli in cecoslovacco; ed alla fine interviene all'immancabile dibattito dicendo che il film, naturalmente bellissimo, lancia un profondo messaggio politico sociale. Si tratta con tutta probabilità di uno di quegli squallidi personaggi presi magnificamente in giro da Paolo Villaggio quando nel “secondo tragico Fantozzi” fa dire al suo eroe: “La corazzata Kotionkin è una cagata pazzesca!
Personalmente mi tengo rigorosamente alla larga da simili squallidi figuri. Li lascio volentieri immersi in profondissime letture, a meditare sul pensiero di Roberto Saviano o Dario Fo.

domenica 2 ottobre 2016

REFERENDUM IN UNGHERIA

E' semplicemente INDECENTE il modo in cui i TG parlano del referendum in Ungheria. Il “quorum non è stato raggiunto” strillano esultanti i pennivendoli di regime. E fanno finta di dimenticare che il referendum ungherese NON è abrogativo come quelli che si fanno in Italia, dove il quorum è necessario per abolire una legge. Non si trattava di cancellare una legge, cosa per cui il quorum è richiesto, ma di dare una indicazione sulle quote dei migranti che la cosiddetta “Europa” vuole IMPORRE a tutti.

Nel caso del referendum ungherese il quorum avrebbe potuto avere un senso se fra i votanti avessero prevalso i SI contrari alle scelte del governo. Un referendum che avesse raggiunto il quorum avrebbe in questo caso potuto essere vincolante e condizionare negativamente le scelte governative. Ma circa il 95% dei votanti ha detto un NO chiarissimo, in perfetto accordo con le scelte di Orban. Il quorum non ha quindi nessun valore. I favorevoli al SI hanno scelto la strada del boicottaggio solo perché sanno benissimo che la stragrande maggioranza degli ungheresi, compresi quelli che non hanno votato, è CONTRO le quote di migranti imposte dalla UE.

Provino un po' i favorevoli al SI ad indire, LORO, un referendum in cui si chieda al popolo ungherese di accettare le quote di migranti. Vedremo se al LORO referendum voterà circa il 44% degli aventi diritto ed il 95% circa dei votanti sarà per il SI...

Tutti i TG continuano a gracchiare che i cattivissimi ungheresi sono “contro i migranti”. La cosa non è esatta. Il referendum chiedeva che il popolo si pronunciasse sulla IMPOSIZIONE da parte della UE di determinate quote di “migranti”. Gli ungheresi hanno detto chiaramente che sono loro a dover decidere se, quanti e chi accogliere, e con quali modalità! Hanno davvero delle pretese esagerate!

I TG parlano di affluenza bassissima, ma è più o meno la stessa del referendum del 2003 col quale gli ungheresi accettarono l'ingresso nella UE. Allora si trattò di una grande prova di maturità democratica, vero?

I pennivendoli possono ragliare finché vogliono. Resta il fatto che i burocrati della UE sono preoccupatissimi per il risultato del voto ungherese. La gente normale ne ha le scatole piene delle imposizioni di Bruxelles, e lo dimostra tutte le volte che può esprimersi.

A proposito, sarà un caso ma i burocrati della UE si incazzano quando la gente vota. Si sono incazzati quando i britannici hanno deciso di andarsene, si incazzano quando gli ungheresi dicono chiaro e tondo che non intendono accettare imposizioni di quote. O, come è “democratica” l'Europa!!!

NON SONO "BUONI"

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Il signor Vauro Senesi ha fatto gli auguri di buon compleanno a Silvio Berlusconi con una vignetta. Raffigurava una bella merda adornata da una candelina e da un biglietto di auguri. Beh... almeno questo signore non è stato ipocrita. Però, guardando quella vignetta non ho potuto fare a meno di pensare a quanto siamo superficiali, noi che affibbiamo ai tipini come Vauro l'appellativo di “buoni”.
Si, c'è ironia in quell'appellativo, ma non solo. Molti considerano tipi come Vauro davvero “buoni”. Scioccamente, ingenuamente buoni, ma “buoni”. La loro bontà è irrealistica, utopica, basata su analisi del tutto sbagliate del mondo, ha conseguenze tutt'altro che buone, ma è, in fondo, davvero tale. Si tratta di persone che davvero amano la “povera gente”, che sono sinceramente colpite dalle sofferenze degli emarginati e degli “ultimi”.
Si tratta di una visione falsa delle cose. Bisogna ristabilire la verità: questi signori non sono affatto “buoni”, da nessun punto di vista. Non amano la povera gente, non sono colpiti dalle sofferenze degli “ultimi”. Il punto di riferimento di questa gente non sono gli esseri umani in carne ed ossa, coi loro problemi, le loro sofferenze, la loro emarginazione. No, il punto di riferimento dei finti buoni politicamente corretti non è l'uomo, è l'ideologia. A persone come Vauro, Dario Fo o Niki Vendola, non interessano le umane sofferenze, ma una certa visione del mondo. Non pensano agli esseri umani, ma all'uomo nuovo, trasfigurato, radicalmente rinnovato; la realizzazione della loro ideologia malata.

Vauro collaborò col “Manifesto” quando il “quotidiano comunista” esaltava la Cina di Mao. E militò nel “partito dei comunisti italiani”, una minuscola formazione politica che guardava con simpatia a quel grande lagher a cielo aperto che è la Corea del Nord. Da dal canto suo Dario Fo affiancava alla esaltazione di Mao quella di Stalin.
Ormai le cose si sanno. L'esperimento maoista costò alla Cina numerose decine di milioni di cadaveri (si parla di settanta, ottante milioni di vittime). Il solo “gran balzo in avanti” provoco sette,otto milioni di morti fra i contadini; le vittime della “grande rivoluzione culturale proletaria” sono ancora in larga misura sconosciute. Dal canto suo la politica agraria di baffone Stalin fece morire, letteralmente, di fame milioni di contadini e, globalmente considerato, il comunismo staliniano costò al popolo sovietico dai venti ai venticinque milioni di vite umane. Non lo afferma Donald Trump, ma Roy Medvedev, uno storico sovietico che poteva esser definito politicamente un "revisionista gorbacioviano”. La povera gente in Cina ed in Russia erano i contadini cui le brigate del partito strappavano sino all'ultimo chicco di grano o di riso, gli intellettuali che finivano nei gulag o nei laogoai per aver sussurrato una parola sgradita, gli operai costretti a lavorare in condizioni servili, gli innumerevoli deportati obbligati a costruire opere tanto faraoniche quanto inutili (altro che ponte sullo stretto) praticamente a mani nude. In Cambogia la “povera gente” era costituita dagli abitanti delle città, strappati alle loro case e spediti a morir di fame in campagna, costretti a demenziali lavori forzati agricoli.
Ed oggi, in medio oriente, la “povera gente” è costituita dalle donne fustigate o lapidate, o costrette a vivere nei sacchi, dagli apostati decapitati, dai poeti condannati a morte, dai cristiani crocifissi o dalle donne vendute come schiave. Ma questa massa enorme di umanità sofferente non commuove i “buoni”. Quando si ricordano loro le vittime del fondamentalismo islamico questi angeli della bontà non trovano nulla di meglio che tirare fuori le “crociate” o il colonialismo. A parte il fatto che anche gli islamici non erano niente male come conquistatori, cosa dovremmo dire se inglesi e francesi  rinfacciassero oggi agli italiani le conquiste di Caio Giulio Cesare? Ma i "buoni" non si spacano la testa con la storia ed il buon senso; le immani tragedie umane del fondamentalismo islamico lasciano indifferenti tutti coloro che sono pronti a piangere amare lacrime se un soldato israeliano uccide un palestinese, per impedirgli di accoltellare un innocente passante.

E, se gli si parla delle numerose decine di milioni di morti causati a livello mondiale dal comunismo i "buoni" non piangono, non si impietosiscono, non fremono di indignazione. Alzano gli occhi al cielo, sospirano, infine sussurrano che “per fare la frittata occorre rompere le uova”. Ecco, gli esseri umani, le persone, sono come le uova, che bisogna rompere, se si vuol fare una bella frittata. E se qualche decennio dopo tutti, più o meno, si accorgono che la frittata non è poi venuta troppo bene, che forse era meglio non romperle, quelle povere “uova”, di nuovo sussurrano che “si, si sono commessi errori, ma... chi non commette errori”?
Ammazzare esseri umani in quantità industriale equivale a “rompere delle uova” o a commettere qualche “innocente errore”. Questa è l'ideologia di coloro che erroneamente si definiscono “buoni”, questo il loro amore per la “povera gente”.
I “buoni “ politicamente corretti non sono mossi da amore per il popolo, simpatia per la “gente comune”. Disprezzano il popolo. Detestano il modo di vivere della gente comune, considerano indecenti i gusti e le debolezze delle persone normali.
Il loro amore va tutto all'immagine falsa che si sono fatta del popolo, della gente, dell'uomo. E' un "amore" identico a quello degli inquisitori che bruciavano i corpi degli eretici per salvarne le anime. Amano un idolo, una idea astratta e sono pronti ad applaudire chi sacrifica a questo idolo centinaia di migliaia, milioni, decine di milioni di vite umane. Per questo sono seguaci di alcune delle più sanguinarie ideologie della storia. E nulla scuote le loro miserabili certezze.
Non meritano neppure l'odio delle persone intelligenti. Solo il loro, il nostro, profondissimo disprezzo.