lunedì 24 ottobre 2022

IL MERITO ED IL MARXISMO

 

Come mai la parola “merito” affiancata ad istruzione nella denominazione di un ministero ha suscitato tante reazioni, tra l’altro in un momento in cui ben altri sono i problemi? Si tratta solo di settarismo, desiderio di polemizzare ad ogni costo con la Meloni? Certo, questi fattori esistono, ma non bastano a spiegare tutto.
Storicamente l’ideologia della sinistra comunista è olistica: il tutto precede le parti, la totalità economico sociale precede i singoli riducendoli a “momenti” del suo movimento dialettico. Sintetizzando e semplificando al massimo, in Marx i motori della storia sono soggetti collettivi: le classi sociali. Nell’epoca del capitalismo lo scontro fra questi soggetti: la borghesia ed il proletariato è destinato a condurre l’umanità in una nuova era. La società dello sfruttamento e della alienazione dovrà cedere il passo ad una “associazione” in cui il libero sviluppo di ognuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.
Ora, come si colloca in questo quadro una scuola che valorizzi il merito di ognuno? Molto semplicemente una simile scuola NON può armonizzarsi con un quadro simile. Il perché è facilmente intuibile. La scuola permette l’emergere delle singole individualità. Se si vuole che la società abbia una classe dirigente all’altezza, se si vuole evitare che siano degli incapaci ad operare a cuore aperto, a guidare aerei o a costruire ponti, ogni scuola dovrà essere in qualche misura selettiva. Potrà essere la scuola più democratica del mondo, potrà favorire al massimo gli studenti che vengono da famiglie economicamente disagiate, i governi potranno sperimentare tutti i sistemi per favorire che ha meno di altri, il risultato non cambia: alla fine deve emergere il merito, potrà essere il merito del figlio dell’operaio invece che dell’imprenditore, non cambia nulla: un certo individuo, una certa singola persona, avrà conseguito un titolo di studio che gli permetterà di avanzare socialmente. I contestatori del 68 se ne accorsero: tutto questo favorisce la disgregazione del soggetto collettivo che nella visione rivoluzionaria marxista è destinato a cambiare il mondo dalle fondamenta. Più la scuola è democratica, più apre le sue porte ai figli di chi meno ha, più si disgrega la compattezza dei soggetti collettivi che “fanno la storia”. Allargare a tutti le possibilità dell’istruzione apre ad un numero sempre maggiore di persone le porte dell’ascensore sociale, ma questo fa si che la società diventi sempre più una società di individui. Accade con la scuola ciò che accade con la democrazia politica e la diffusione del benessere: più una società è democratica più le classi un tempo subalterne si integrano in questa, più si diffonde il benessere, meno netti si fanno i confini fra le classi e meno duri i loro contrasti; e più si diffondono forme spontanee di solidarietà che superano i confini delle classi di appartenenza.
Ora, tutto questo che appare assai desiderabile alla gran maggioranza degli esseri umani, fa letteralmente schifo al rivoluzionario (o presunto tale) ex sessantottino. Perché elimina radicalmente dalla scena la prospettiva del “salto dal regno della necessità a quello della libertà” : il suo sogno.
Non a caso negli anni 70 dello scorso secolo si chiedeva il 18 politico, si imponevano gli esami di gruppo, si riteneva un crimine la “selezione”, anche la più ampia, democratica ed inclusiva delle selezioni. Non a caso il contestatori del ‘68 guardarono con enorme simpatia a quel grande crimine che fu la “rivoluzione culturale” in Cina. Non a caso in Italia i maoisti raffinati del “Manifesto” avanzarono al proposta del “metà studio metà lavoro”. La scuola come “corpo separato”, sede di un sapere di tipo individuale doveva essere soppiantata da una organizzazione che permettesse l’acquisizione collettiva, di classe, al sapere.
In Cina la rivoluzione culturale produsse morti a vagonate, distrusse l’economia e permise a Mao eliminare i rivali politici ed affermare il suo potere assoluto nel partito. In Italia la contestazione mise in crisi le strutture universitarie, e ne stiamo ancora pagando le conseguenze.
Però chi ha vissuto quella esperienza e non ha poi trovatola forza e la lucidità di sottoporla a critica radicale ne sente ancora la nostalgia. Se la tenga.


sabato 1 ottobre 2022

PUTIN E L'OCCIDENTE

 

“L'Occidente ha iniziato la sua politica coloniale già nel Medioevo, e poi è seguita la tratta degli schiavi, il genocidio delle tribù indiane in America, il saccheggio dell'India, dell'Africa, le guerre dell'Inghilterra e della Francia contro la Cina (...)

Quello che hanno fatto è stato soggiogare intere nazioni con la droga, sterminare deliberatamente interi gruppi etnici”.

Così parlo Vladimir Putin.
L’autocrate accusa l’occidente di tutti i mali del mondo: schiavista, razzista, imperialista.
Certo, in occidente c’è stato lo schiavismo, il razzismo, l’imperialismo, ma non sono queste le caratteristiche distintive della grande civiltà occidentale.
In occidente c’ stato lo schiavismo, come in TUTTE le civiltà, ma SOLO in occidente è sorto un movimento abolizionista della schiavitù. Come ovunque in occidente c’è stato ed ancora c’è il razzismo, ma è occidentale l’idea della pari dignità di tutti gli esseri umani. Anche l’occidente è statao imperialista, ma è occidentale il principio della autodeterminazione delle nazioni. In occidente ci sono stati i roghi ma anche la rivendicazione della libertà di pensiero, l’’intolleranza ma anche la “lettera sulla tolleranza” di quel pensatore super occidentale che è stato John Locke.
Non si può dire altrettanto, purtroppo, della Russia, che in tutta la sua storia non ha mai conosciuto un periodo di vera democrazia, a parte i pochi mesi che separano il febbraio dall’ottobre del 1917.
Meno che mai si può dire altrettanto della Russia che piace a Vladimir Putin: un enorme stato imperiale compost da circa 200 diverse etnie che dopo l’ottobre del 1917 si è trasformato in una delle più mostruose tirannidi totalitarie di ogni tempo. Uno stato che ha costruito la sua grande industria sfruttando a morte quei nuovi tipi di schiavi che erano gli ospiti dei gulag, che ha cercato, fallendo, di modernizzare l’agricoltura sterminando per fame fatto morire di milioni di contadini, in larga misura ucraini, che ha fatto rinascere forme di coartazione del libero pensiero a cui confronto i tribunali della santa inquisizione erano “liberali”.

Ormai Putin ha gettato la maschera. Prima si limitava ad equiparare in maniera mistificatoria l’occidente ad alcune sue degenerazioni politicamente corrette. Ora usa contro l’occidente tutto l’armamentario propagandistico del peggior stalinismo e, in maniera solo apparentemente paradossale, del peggior politicamente corretto: quello della “cancel culture”.
Putin ha ingannato per un certo periodo di tempo molti occidentali. Molti hanno visto in lui un possibile modernizzatore della Russia, certo, non un democratico occidentale ma un leader con cui si poteva collaborare. Ormai simili illusioni non hanno fondamento alcuno. Putin ha rivelato senza possibilità di dubbio di esser rimasto quello che è sempre stato: un alto funzionario del KGB, la polizia politica del vecchio regime comunista. Che un simile personaggio possa piacere ai nostalgici di baffone Stalin o a pseudo filosofi che odiano l’occidente non desta sorpresa. Che persone che si autodefiniscano “liberali” possano guardare con simpatia ad un simile personaggio è assolutamente inammissibile.
Non sono più possibili equivoci di sorta. Chi ancora prova una certa emozione leggendo la “lettera sulla tolleranza” di Locke non può che provare un senso di nausea leggendo le esaltazioni che fa di Putin quello pseudo filosofo che è Diego Fusaro.
In mezzo non si può stare. O con l’occidente o coi suoi nemici.