domenica 28 dicembre 2014

LA BONTA' PELOSA, E ZUCCHEROSA

L'occidente di oggi è letteralmente sommerso da una densa, zuccherosa melassa. Un sentimento tanto diffuso e reclamizzato quanto insincero: la bontà. Non la bontà vera, quel sentimento che ci porta a condividere le altrui sofferenze. Una bontà “alla moda” che ha poco a che vedere con l'umana solidarietà verso chi soffre, e che anzi spesso si accoppia con la totale indifferenza nei confronti delle sventure autentiche. E' la bontà che spinge molti occidentali a solidarizzare non con le vittime di mostruose violenze ma con i loro carnefici, che provoca scoppi di indignazione a senso unico, e rende molti “buoni” sordi ciechi e muti di fronte a drammi di immani dimensioni.
Questa “bontà”, che sarebbe meglio chiamare “buonismo” se il termine non fosse un po' troppo abusato, può essere definita come la pretesa che tutti i problemi del mondo possano essere risolti con il dialogo, la reciproca comprensione, la migliore conoscenza di chi è “diverso” da noi. Conoscere, amare, dialogare sono le tre parole magiche. Si abbandonino i pregiudizi, si guardi dritto negli occhi chi erroneamente riteniamo nemico ed i problemi saranno risolti.
Una simile convinzione si basa, non può non basarsi, su una precisa concezione del mondo. Per i sostenitori del “dialogo” sempre e comunque il mondo sarebbe sostanzialmente buono ed armonioso. Se così non fosse la pretesa di risolvere ogni problema con l'amore e la reciproca comprensione sarebbe priva di ogni fondamento. Se il malvagio fosse davvero tale dialogare con lui sarebbe fatica sprecata, e adottare il suo punto di vista renderebbe malvagi anche noi. Così si stabilisce che il malvagio altro non è che un apparente malvagio, un diverso che noi, nella nostra arroganza, giudichiamo malvagio.

Bastano le telegrafiche considerazioni che abbiamo appena fatto a mettere in luce il carattere aporetico della bontà “buonista”. Una simile “bontà” predica di continuo il dialogo e l'amore ma resta del tutto indifferente di fronte allo spettacolo raccapricciante delle vittime di coloro con i quali si pretende di dialogare.
Inoltre, la visione di un mondo buono ed armonioso, una sorta di enorme palla di zucchero filato, non solo fa a pugni con la realtà empirica, ma contrasta radicalmente con gli stessi presupposti da cui partono i teorici del “dialogo”. Si, perché se davvero il mondo fosse tanto dolce come ce lo presentano i “buoni” non si capisce perché ci sarebbero tanti problemi da risolvere, col “dialogo”, ovviamente. Se c'è tanto bisogno di “amore”, “comprensione” e “dialogo” vuol dire che il mondo tanto armonioso e traboccante di amore in fondo non è.
Tutta la mielosa bontà che ci viene versata addosso dai media ad ogni ora del giorno e della notte si basa in fondo su un trucchetto da illusionista: la sostituzione del mondo reale con l'immagine ideologica del mondo. Nel mondo reale esistono la violenza e le guerre, l'odio ed il fanatismo. Nella immagine ideologica del mondo tutto questo scompare. L'odio e la violenza fanatica si dissolvono ed al loro posto resta la melassa leggermente soffocante dei buoni sentimenti.
Però anche dopo che il mondo reale è stato sostituito con la sua immagine ideologica i problemi restano, del tutto immutati. Anche i “buoni” devono prendere atto che non tutto va nel migliore dei modi, sul pianeta terra, è la loro stessa martellante propaganda dei buoni sentimenti a dimostrarlo.
E così, per cercare di spiegare l'inquietante presenza di un male che resiste a tutti i tentativi di rimozione, il “buono” compie un secondo giochetto di prestigio: dopo aver sostituito al mondo la sua immagine ideologica addebita i mali che pure nel mondo restano, all'occidente. Il male autentico consisterebbe nella boria occidentale, nel pervicace rifiuto di “comprendere il diverso”. Fanatismo ideologico e religioso, totalitarismo, condizione servile della donna, teocrazie fondamentaliste, tutto scompare, meglio, tutto diventa colpa dei viziosi occidentali asserviti al “Dio denaro”. In molte parti del mondo le adultere vengono lapidate o frustate a morte, gli apostati decapitati, i cristiani crocifissi, gli oppositori politici rinchiusi nei lagher? La colpa è di chi non lapida e non crocifigge, e neppure sbatte in galera gli oppositori politici. La colpa è nostra, nostra che non aiutiamo abbastanza i popoli dei paesi poveri, che a volte tanto poveri poi non sono, che non rispettiamo i loro costumi e la loro cultura, costumi e cultura che spesso prevedono, appunto, fustigazioni e lapidazioni, decapitazioni e crocifissioni.
La cosa curiosa è che nel loro entusiasmo tanti presunti buoni non si rendono conto di quanto sottilmente razziste siano le loro concezioni. L'occidente sarebbe il responsabile degli altrui crimini esattamente come i genitori di un bambino un po' difficile sono responsabili delle monellerie del figlio. Solo per noi valgono i concetti di libera scelta e responsabilità personale. Gli altri sono una sorta di minorati mentali incapaci di intendere e di volere. Noi abbiamo la responsabilità delle loro azioni malvagie, loro non hanno colpe, come non hanno colpe, né meriti, i ragni o i topi (nessuno però pretende di “dialogare” con topi e ragni). Gratta un po' il buono e viene fuori il razzista, un razzista di tipo nuovo, particolarmente stupido, che ci invita a dialogare con chi viene amorevolmente collocato fuori dalla dimensione etica.

Come tutti i sentimenti assolutizzati la bontà mielosa e pelosa oggi di moda in occidente non può ovviamente, essere generalizzata. Il “buono” propaganda un amore universale, ma basta parlare pochi minuti con lui per rendersi conto che sono in molti ad essere esclusi da questo suo zuccheroso amore. Il “buono” ama tutti, ma non ama chi, ad esempio, nega che la colpa di tutti i mali del mendo sia di noi occidentali, ed ama ancora meno chi si permette di incolpare di qualcosa i nostri “fratelli” mussulmani; addirittura odia, il nostro “buono”, coloro che ritengono che si debba rispondere con la forza ai crimini di chi uccide in nome di Dio. Appena ha a che fare con simili personaggi il nostro “buono” diventa subito cattivello. Abbandona i toni angelici, il mite sorriso scompare dal suo volto, la voce gli diventa stridula ed alte urla escono dalla sua angelica gola. Il “buono” politicamente corretto dialoga coi carnefici senza troppo badare alle loro vittime, ama i diversi ma detesta chi non confonde la sua soffocante melassa con la vera bontà. Il “buono” non ama tutto e tutti, prova antipatie, oltre che simpatie, arriva ad odiare, a volte, alcuni esseri umani.
Il “buono” politicamente corretto non è diverso in fondo dagli altri uomini: ama a volte e a volte non ama, può addirittura detestare qualcuno, come accade a tutti qualche volta, nel corso della vita.

Diversamente dagli altri esseri umani però il buono politicamente corretto ama o detesta, o addirittura odia gli esseri umani non per come questi realmente sono, ma per come appaiono nella caricatura ideologica che egli si è fatto di loro.
Dietro alla classe o al ceto sociale, alla cultura, alla civiltà c'è, sempre l'uomo. Ed è doveroso criticare l'azione di certi gruppi sociali, o le caratteristiche di certe culture e certe civiltà precisamente perché offendono e degradano l'uomo. La persona davvero buona tiene ferme le differenze fra esseri umani e gruppi sociali. Può ad esempio detestare l'Islam ma prova una profonda umana vicinanza per una adultera di sincera fede mussulmana condannata alla lapidazione. Avversa l'Islam non perché oppone a questa religione un opposto fondamentalismo, ma perché pratiche come la lapidazione sono quanto di più radicalmente disumano si possa immaginare. I “buoni” politicamente corretti invece prima riducono l'uomo alla funzione sociale: non esiste l'uomo, esistono le classi, o le culture, o le civiltà e se sei membro di una classe o di una civiltà “condannata dalla storia” non sei, mai, innocente, sei colpevole dei crimini, veri o presunti, della tua classe o della tua civiltà. Una volta compiuta questa inaccettabile equiparazione i “buoni” politicamente corretti si affrettano a trasformare in caricature quegli stessi soggetti collettivi che hanno posto a fondamento della storia, escludendo da questa gli autentici esseri umani. La borghesia ad esempio è trasformata in una classe di sanguisughe, un manipolo si sfruttatori che mira solo ad opprimere gli operai. Se Tizio è imprenditore cessa per ciò stesso di essere un uomo, è solo un imprenditore, poi cessa anche di essere imprenditore per diventare “padrone”, ed il padrone, si sa, è un vampiro assetato di sangue operaio. Prima l'uomo scompare nel gruppo sociale, poi il gruppo diventa la caricatura di se stesso e può essere oggetto del più veemente odio che si possa immaginare.
Una sorte opposta tocca, ovviamente, ad individui e gruppi che i “buoni” politicamente corretti ritengono degni di amore e rispetto. Il terrorismo islamista ad esempio non riguarda gruppi, non ha alle spalle modi di pensare ed agire, culture, è solo la risultante dell'azione individuale di pochi squilibrati. La stessa “bontà” che in certi casi assimila senza riserve il singolo al gruppo dissolve ora qualsiasi legame di gruppo. E se, malgrado tutto, il gruppo resta, viene ridotto a caricatura, ma non più caricatura malvagia, caricatura “buona”. L'Islam viene trasformato in una “religione di pace”, aperta, laica, tollerante, cosa facile, tutto sommato, dopo che tutti i suoi aspetti, diciamo così, “discutibili” sono stati definiti “azioni di singoli squilibrati”. L'imprenditore è per definizione un vampiro, l'islamico è, sempre per definizione, un uomo aperto, laico e tollerante. E la realtà? Ma suvvia, lo sanno tutti che la realtà non esiste. Non esistono fatti, solo interpretazioni.

Non deve stupire che la bontà zuccherosa e pelosa che opprime oggi l'occidente detesti il principio di realtà. Il rifiuto di questo fondamentale principio ha origini antiche. Senza andare troppo indietro nel tempo ci si può fermare alla scuola di Francoforte ed alla critica del pensiero scientifico che la ha caratterizzata. Disincanto e matematizzazione del mondo, fisica moderna, leggi scientifiche... pura risultante della alienazione prodotta dal sistema capitalistico, meglio ancora, come specificherà Marcuse, dalla società industriale avanzata, simbolo di progresso tecnico. L'oggettività del mondo non esiste se non come oggettività opprimente imposta all'uomo da un sistema disumano. Fatte tutte le distinzioni (che non sono distinzioni da poco) i “buoni” di oggi proseguono su questa strada. Sostituiscono al mondo ciò che loro pensano del mondo, costruiscono dei fantocci polemici da odiare e degli zuccherosi pupazzi di peluche da amare. Eliminano dal mondo fanatismo, irrazionalità, odi religiosi e li sostituiscono con onnipotenti multinazionali, finanzieri ebraici, agenti di CIA e Mossad. Riducono a trascurabili dettagli fustigazioni e lapidazioni, sgozzamenti e crocifissioni ed incolpano di questi dettagli il corrotto occidente. Quanto al terrorismo, si tratterebbe di una naturale reazione all'arroganza sionista ed occidentale, messa in atto con rudimentali “armi giocattolo”. E i principali, grandi attentati terroristi? Quelli sono, è ovvio, la risultante di diabolici complotti di americani ed israeliani.
Una volta trasformato in questo modo il mondo il nostro “buono” può ricoprirlo col suo amore smisurato, e deturparlo col suo altrettanto smisurato odio.
Non bisogna farsi ingannare dalle parole, e meno ancora dalla zuccherosa melassa che lo circonda: nessuno è tanto malvagio quanto il buono politicamente corretto. E' un “buono” molto strano, capace solo di amare chi odia, e di odiare il resto del genere umano. La pura negazione della bontà.

sabato 20 dicembre 2014

GLI IMMONDI


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“A tre mesi esatti dalle elezioni israeliane, i rapporti tra il mondo e Tel Aviv non sono stati mai così tesi”. Così scrive “il fatto quotidiano” commentando il “riconoscimento” della “Palestina” da parte della Unione Europea. Da una parte lo stato di Israele, dall'altra il mondo. I giornalisti del “fatto” forse non lo sanno, ma con questa contrapposizione non fanno altro che riproporre uno dei temi classici dell'antisemitismo.
Per Adolf Hitler il mondo avrebbe dovuto essere organizzato in base ad un rigido schema gerarchico. Sopra tutti gli “ariani”, i popoli dominatori, creatori di cultura, poi tutti gli altri. Più in alto i popoli non “creatori” ma “portatori” di cultura, più sotto, via via, tutte le “razze inferiori” cui la natura e la storia hanno riservato il ruolo di schiavi.
Gli ebrei però sono esclusi da questo schema. Gli ebrei non sono una “razza inferiore”, un popolo di schiavi, sono la malattia del genere umano. Gli ebrei non si collocano sull'ultimo gradino della scala dell'essere, sono fuori dall'essere, non sono ultimi nel mondo, sono estranei al mondo. Apolide, parassita che vive dell'altrui lavoro e contamina le altrui culture, privo di storia, eternamente sradicato, mentitore ed usuraio l'ebreo si contrappone al mondo che infetta con la sua sola presenza. E' l'immondo. Non può essere assimilato, integrato, redento. Resta ebreo anche se si converte, anche se rifiuta le sue origini. L'ebreo non può neppure essere asservito: va eliminato, come si eliminano gli insetti velenosi, per la salvezza del mondo.

Il quadro che il “fuhrer” faceva degli ebrei viene riproposto pari pari, oggi, per lo stato di Israele. Israele è un piccolissimo stato di sei milioni di abitanti, più o meno tanti quante le vittime della shoah. Eppure questo mini stato è responsabile di praticamente tutto quanto di male esiste al mondo, sfida il mondo. Israele, che chiede solo di poter esistere, è il massimo pericolo per la pace mondiale, è la causa subdola delle tensioni che ci minacciano. Da una parte Israele, dall'altra il mondo, dice “il fatto quotidiano” e rivela così i suoi sentimenti più autentici.
Un paio di giorni fa mi è capitato di sentire in una trasmissione radio, mentre guidavo, un tipetto che affermava candidamente: “Se la Palestina fosse liberata il fondamentalismo ed il terrorismo sarebbero subito superati”. I fondamentalisti islamici ammazzano in Canada ed in Australia, negli Usa, in Spagna ed in Inghilterra, in Russia ed in Africa ma la colpa è tutta dello stato di Israele. Gli ebrei hanno oggi un loro stato, non sono più erranti apolidi, per questo il mondo è in pericolo! Si cancelli lo stato maledetto ed il mondo sarà salvo. Si sacrifichino gli ebrei, per la salvezza del mondo. Oggi come nel 1941.
Oggi non è più possibile dichiararsi apertamente anti semiti. Così non si parla di “ebrei” ma di “stato di Israele”. Non si devono sacrificare gli ebrei ma eliminare dalla faccia della terra lo stato che per la prima volta nella storia ha offerto loro asilo e protezione. Ma se Israele fosse eliminato dal mondo gli ebrei sarebbero eliminati, e tutto l'occidente precipiterebbe nel baratro. L'antisionismo dietro a cui si nasconde l'antisemitismo diventa ogni giorno di più una foglia di fico piccola, molto piccola

venerdì 19 dicembre 2014

DUE STATI CHE NON ESISTONO

La autorità palestinese afferma, qualche volta, di "acccettare", bontà sua, di “riconoscere” lo stato di israele; lo fa anche se è alleata di Hammas, che di riconoscimento di Israele non vuole neppur sentire parlare.
Però cosa chiede la autorità palestinese in cambio del "riconoscimento" di israele?
1) Israele dovrebbe tornare ai confini del 1967.
Quei confini sono indifendibili, da quei confini i “razzi giocattolo” di Hammas colpirebbero facilmente Tel Aviv. La autorità palestinese è alleata di Hammas che bombarda quotidianamente Israele e pretende, “in cambio” del riconoscimento che Israele accetti confini che lo farebbero facile bersaglio dei razzi di Hammas. Davvero una proposta interessante.
2) Israele dovrebbe accettare che i “profughi” palestinesi rientrassero in massa nello stato ebraico.
E' un po se la Francia dicesse all'Italia: “io ti riconosco, ma tu devi accettare che in Italia entrino tutti i francesi che vogliono”. Insomma, se vuoi essere riconosciuto devi rinunciare ad ogni controllo sui flussi immigratori, sei OBBLIGATO ad accogliere tutti. Se Israele accettasse una simile proposta si trasformerebbe prima o poi in uno stato palestinese. Ecco come intendono i palestinesi "moderati" il famoso principio "due popoli due stati": ci deve essere uno stato palestinese e in più Israele deve diventare a sua volta palestinese. Davvero bravi!
3) La capitale della “Palestina” dovrebbe essere Gerusalemme, città santa per l'Islam.
Nel Corano si cita Gerusalemme un paio di volte, Gerusalemme è città santa per cristiani ed ebrei; lo è anche per gli islamici solo perché questi hanno la pessima abitudine di considerare “santa” più o meno ogni grande città che in passato hanno conquistato.

Se la autorità palestinese vuole uno stato palestinese questo deve comportarsi da stato. Deve ad esempio accettare che siano gli altri stati a regolare i loro flussi immigratori, far si che la gran maggioranza dei suoi abitanti lavorino in patria, smettere di dipendere per il consumo di energia da un altro stato, darsi una sua moneta che i mercati potranno valutare adeguatamente, avere un suo esercito regolare. Soprattutto deve rispettare gli altri stati, conscio che se non lo fa può subire le loro sacrosante ritorsioni. I palestinesi per ora vogliono un loro stato, ma di fatto vivono come una provincia autonoma di Israele, lavorano in Israele, usano la moneta israeliana, dipendono da Israele per le forniture di gas, acqua ed energia elettrica. Troppo comodo!

Tutte queste cosette i paesi della UE fanno finta di ignorarle, infatti hanno votato per il riconoscimento della “Palestina”, mentre la corte europea cancellava Hammas dalla lista dei gruppi terroristi.
La loro cecità è pari solo alla loro malafede. Per fortuna gli israeliani sanno combattere, e se ne fregano delle decisioni di un parlamento che non conta nulla. In fondo la UE è uno stato inesistente, non stupisce che abbia “riconosciuto” un paese inesistente.

mercoledì 17 dicembre 2014

LA PAURA







“Non bisogna avere paura”
“La paura è una pessima consigliera”
“Si ha paura di ciò che non si conosce”
“Non si deve aver paura del diverso”
Si potrebbe continuare. La paura è  oggetto di universale esecrazione da parte dei politicamente corretti. Guai ad aver paura, specie di ciò che non si conosce, specie di chi è diverso da noi. Conosciamolo, e smetteremo di averne paura, dicono sorridenti i "buoni" di mezzo mondo.
Ma, stanno davvero così le cose?
La paura è un sentimento, o un istinto, fondamentale, utilissimo alla sopravvivenza. La gran maggioranza delle specie animali, compresa, forse, la specie umana, si sarebbero estinte se la paura non avesse spinto istintivamente i singoli a fuggire i pericoli.
Ed è naturalissima la paura nei confronti di chi non conosciamo, ci è radicalmente diverso. Se mentre sto per coricarmi vedo sul cuscino del mio letto un grosso ragno istintivamente mi ritraggo, impaurito. Sbaglio a farlo? Forse quel ragno è del tutto inoffensivo, forse tenerlo accanto a me mentre dormo potrebbe giovare alla mia salute. Ma io mi ritraggo lo stesso, l'istinto mette a tacere le pretese rassicuranti della ragione, meglio, di una ragione ideologica, per fortuna. Perché non è affatto certo che quel simpatico ragno sia un mio potenziale amicone, forse è velenoso, addirittura mortale. E la paura che mi spinge ad allontanarmi da lui è una ottima consigliera.
Chi ripete fino alla noia che la paura nasce dall'ignoranza, e che se si conosce il “diverso” si cessa di temerlo, ha in mente l'idea di un mondo “naturalmente” dolce e buono. Tutti siamo buoni e bravi, tutto è dolce, bello, armonioso, basta conoscerlo. Peccato che le cose siano leggermente diverse, e meno rassicuranti. A volte è vero che conoscendo il diverso smettiamo di temerlo, ma a volte capita esattamente il contrario: cominciamo a temere il diverso precisamente nel momento in cui iniziamo a conoscerlo. Ciò che a prima vista appariva bello e rassicurante si rivela terribile. Conoscendo meglio chi ci sembra amico scopriamo che è un nostro implacabile nemico.

Fuor di metafora, chi oggi sbraita continuamente contro la paura, e ci invita a conoscere meglio chi ci è diverso per smettere di temerlo, è l'occidentale politicamente corretto; ed il diverso che dovremmo conoscere per non temere è l'Islam fondamentalista. Il fondamentalismo sarebbe una sorta di feticcio, il parto delle menti impaurite di occidentali incapaci di conoscere chi è diverso da loro. Si conosca meglio chi non è come noi e scopriremo che non c'è motivo per temerlo, anzi, ci sono ottimi motivi per amarlo. Il mondo è dolce ed armonico, tutte le culture e le civiltà, specie quelle non occidentali, sono caratterizzate da buoni sentimenti, basta conoscerle. Un gran bel quadretto, non c'è che dire. Però, se le cose stanno così, perché tanti occidentali hanno paura? Perché creano feticci terrorizzanti? Di nuovo, noi siamo i responsabili di tutto. Le nostre paure inconsce, forse conseguenza di atavici sensi di colpa per i nostri crimini storici, creano spettri paurosi che ci impediscono di conoscere e di amare. E provocano guerre, lutti e distruzioni.
Peccato che i fatti facciano a pugni con un simile, rassicurante quadretto. E non mi riferisco ai fatti di cui tutti i giorni ci parlano i media: gente sgozzata, attentati, lapidazioni, fustigazioni e tante altre simili dolcezze. Mi riferisco al fatto incontestabile del crescere fra gli occidentali della paura nei confronti del fondamentalismo terrorista. Si, perché la paura è cresciuta proprio nella misura in cui abbiamo iniziato a conoscerli, i nostri "buoni fratelli". Più aumentava la conoscenza più cresceva la paura. Ben lungi dall'essere figlia di istintivi pregiudizi la nostra paura nei confronti del fondamentalismo è figlia della conoscenza. Dopo che abbiamo ripetuto infinite volte che “si ha paura di ciò che non si conosce”, iniziamo a capire che a volte si ha paura di ciò che si conosce, proprio perché lo si conosce. A giusta ragione.

La paura è un sentimento utile, come è utile il coraggio. Ma, esattamente come è sbagliato trasformare il coraggio in temerarietà è profondamente sbagliato lasciare che la paura ci prenda la mano, si trasformi in panico. La paura va gestita, controllata. Tenuta sotto controllo può trasformarsi in alleato, se, fuori controllo, degrada in terrore, paralizza le nostre azioni e ci renda facili vittime di chi ci vuole distruggere.
Una paura ben gestita convive col coraggio, la determinazione, ci spinge non a fuggire rovinosamente ma a combattere con intelligenza. Se si trasforma in panico ci fa diventare vili, e ci spinge a strisciare di fronte a coloro che ci vogliono morti.
Di nuovo fuor di metafora, ad essere spesso schiavi della paura, anzi, del panico, non sono oggi quelli che intendono rispondere con forza ai crimini del fondamentalismo islamista. Sono i "dialoganti", i giustificazionisti, i “buoni” ad agire in preda ad una paura che ricorda il terrore. Dietro ai quadretti che ci descrivono un mieloso mondo che non esiste non sta una miglior conoscenza dell'altro, sta, in molti casi, l'incontrollabile paura che questo ci ispira. Certo, molti seguaci del politicamente corretto sono schiavi non tanto della paura quanto della ideologia, confondono davvero col mondo reale la loro melensa immagine del mondo, ma in molti casi è la stessa falsa coscienza ideologica ad essere ispirata dalla paura. E' più facile immaginare un mondo di buoni che rapportarsi seriamente con chi troppo buono non è. E, se proprio si deve prendere atto che ci sono anche i cattivi, nel mondo, è molto più rassicurante lottare contro cattivi che in qualche modo ci sono familiari. I malvagi capitalisti ed i perfidi finanzieri, i corrotti ed i corruttori, gli stessi potentissimi agenti di CIA e Mossad sono assai meno paurosi dei fanatici pronti a sgozzare in nome della fede. Per questo molti seguaci del politicamente corretto, trasudanti, insieme, ideologia e paura, eliminano dal mondo i secondi ed esagerano in maniera grottesca il ruolo dei primi.
Sono gli esponenti delle due grandi malattie dell'occidente: due mortali malattie che si alimentano a vicenda, in un pauroso circolo vizioso: l'ideologia politicamente corretta e la paura non controllata dalla ragione.

sabato 13 dicembre 2014

ADOLF HITLER E GLI ANTISIONISTI DI OGGI






L'ebreo nel corso dei secoli non ha mutato la sua essenza, si caratterizza per la mancanza di archè, non ha originalità né creatività, né genialità. Non sa fondare nulla, sa solo distruggere (…) a ben guardare l'ebreo non ha nulla di proprio, ma quello che possiede è solo preso a prestito. In tal senso è deserto di vera cultura
Queste considerazioni compaiono nel "Mein kampf" di Adolf Hitler e sono riportate, direttamente o riassunte, da Donatella Di Cesare in “Heiddeger e gli ebrei”. Qui come più avanti i brani in grassetto sono citazioni dirette di Hitler.
Heiddeger e gli ebrei” è un bel libro che contribuisce a dissipare le illusioni di chi considera l'adesione di Martin Heiddeger al partito nazionalsocialista una sorta di innocuo errore, al massimo un peccato veniale di opportunismo, privo di contenuto filosofico. Non è di questo tuttavia che intendo ora parlare. Mi interessa invece sottolineare la incredibile somiglianza fra le tesi di Hitler e quelle di coloro che si definiscono oggi “antisionisti ma non antisemiti”.

L'ebreo è una sorta di parassita che si nutre dell'altrui lavoro e delle altrui idee. “Al contrario di quel che in genere si crede gli ebrei, afferma Hitler, non sono neppure nomadi, perché il nomade possiede un territorio, sia pure indeterminato, sulla cui base ha potuto creare una cultura. L'ebreo invece, privo di terra e di ogni proprietà, trascina un'esistenza parassitaria a danno degli altri popoli” (Ibidem).
Cosa dicono oggi gli “antisionisti ma non antisemiti”? Gli israeliani vivono su una terra non loro e fondano il proprio benessere sullo sfruttamento parassitario dei palestinesi. Hitler parla di ebreo senza terra, gli israeliani una terra la hanno, ma solo perché la occupano abusivamente. Per gli “antisionisti non antisemiti” gli israeliani, cioè gli ebrei di oggi, sono parassiti, esattamente come lo erano per Hitler.

In cosa consiste l'essenza dell'ebraismo? “L'ebreo è un gran maestro di menzogne. Anzi, la menzogna segna la sua stessa esistenza. L'ebreo finge di essere quel che non è. Dissimula inganna” (ibidem).
Lo stato di Israele inganna il mondo, compie un genocidio mascherato, cerca di far credere di essere bombardato da Hammas che lancia invece sugli israeliani parassiti solo innocue armi giocattolo.

Neppure il Talmud è un libro che prepari all'al di la ma soltanto ad una pratica e redditizia vita quaggiù. Hitler lancia così un'accusa che risale almeno a Kant: l'ebraismo non è una religione, nulla avrebbe quindi in comune con lo spirito del cristianesimo” (ibidem).
E' quanto affermano oggi gli islamisti secondo cui Cristo è stato solo un profeta minore, temporalmente precedente a Maometto, del tutto privo di legami con l'ebraismo. Gesù non era ebreo. Gli “antisionisti non antisemiti” non hanno, ovviamente,  nulla da dire su simili imbarazzanti questioni teologiche, alcuni di loro si sono specializzati nel raccontare la palla di un Gesù "palestinese".

Per Hitler gli ebrei cercano di distruggere gli altri popoli , e oggi, guarda un po', gli israeliani vengono accusati di praticare il genocidio a Gaza. “L'elezione vantata dal popolo ebraico non sarebbe che una strategia perseguita mantenendo all'interno la propria omogeneità e minando dall'esterno l'identità degli altri popoli” (ibidem).

Il sionismo è un potente strumento di conquista e di oppressione che gli ebrei si sono dati. Gli ebrei “con il sionismo danno ad intendere che l'autodeterminazione del popolo ebraico sarebbe appagata con la creazione di uno stato; ma così ingannano un'altra volta gli stupidi perché non pensano di edificare uno stato ebraico in Palestina per abitarci. Non possono infatti mantenere uno stato spazialmente determinato per via del loro andamento anarchico e tribale. Ciò che vogliono è solo una centrale organizzata della loro truffa mondiale che abbia i diritti di sovranità per sottrarsi all'attacco di altri stati. Quel luogo di rifugio, usurpato, dato che non c'è posto nel mondo per l'ebreo, che ovunque può essere accusato di occupare illegittimamente la terra altrui sarebbe uno spazio, per definizione, sconfinato che renderebbe precario l'equilibrio del mondo, preluderebbe al dominio planetario” (ibidem).
Alcuni “antisionisti non antisemiti” hanno affermato che Hitler sarebbe stato sionista, solo perché prese in esame, come soluzione provvisoria della “questione ebraica”, non certo la fondazione di uno stato ebraico, ma il trasferimento coatto degli ebrei in Palestina. Poi, per non rovinare le buone relazioni col gran Muflì di Gerusalemme, Hitler optò per il Madagascar. Qui hanno la risposta, che combacia con molte delle loro tesi.
Hitler parla non di stato ma di territorio ebraico, tutti i leader islamisti, pienamente appoggiati dagli antisionisti occidentali, parlano non di "stato di israele" ma di "entità sionista".
Non c'è spazio al mondo per uno stato ebraico dice Hitler. E' esattamente ciò che teorizzano gli “antisionisti non antisemiti”. Tutti i popoli del mondo hanno un loro stato, Israele, lo stato degli ebrei, è l'unico la cui esistenza è costantemente messa in discussione. 
Gli ebrei occupano “illegittimamente” la Palestina, e sarebbe lo stesso per ogni altro territorio che occupassero dice Hitler. Sembra di sentir parlare un leader di Hammas, o un suo amico occidentale.
Per Hitler uno stato ebraico sarebbe uno strumento di conquista ed aggressione, per gli odierni nemici di Israele, ma, dicono,”amici”degli ebrei, Israele, uno stato delle dimensioni della Lombardia, costituirebbe il maggior pericolo per la pace mondiale.
Per Hitler il sionismo era uno strumento di inganno ed aggressione, per gli antisionsti di oggi una nuova forma di razzismo.
Hitler vedeva ovunque complotti ebraici, gli antisionisti di oggi sono fra i più paranoici propagandisti della teoria del complotto. Dietro a tutti gli episodi rilevanti del mondo di oggi ci sarebbero diaboliche cospirazioni, e chi sono i più diabolici di tutti i cospiratori? Lo stato di Israele, il Mossad, e, ovviamente, la finanza ebraica.

Ce n'è abbastanza, direi. L'antisionismo è la forma specifica che assumono oggi l'antisemitismo e l'antigiudaismo. Tutti i contorcimenti sofistici del mondo non potranno dissimulare questa verità.

domenica 7 dicembre 2014

IDENTITA'

L'identità è l'insieme coordinato delle caratteristiche di un ente, tutto quello che fa di un ente ciò che  questo realmente è. Ogni essere umano ha la sua identità. Ha un nome, un aspetto fisico, una vita interiore. Ha un certo modo di pensare, una storia privata e pubblica, un insieme di ricordi. Ha una cultura, sentimenti, simpatie ed antipatie, amori, a volte anche odi. Ha un suo modo di vedere il mondo e di rapportarsi agli altri. Soprattutto, ha la capacità di tenere unito tutto questo. Io coordino in ogni istante della mia vita stati mentali e fisici, il muoversi del mio corpo ed il fluire dei miei pensieri e delle mie sensazioni. Collego nel tempo i ricordi del passato alle aspettative per il futuro, unificandole in quell'attimo sempre fuggente che è il presente. Ed è questo “tenere unito” che fa si che io possa considerare mie le esperienze che vivo e possa dire che quella che sto vivendo è la mia vita.
La perdita della identità coincide con lo sfaldarsi di questo “tener unito”. Quando l'attività unificante inizia a perdere colpi l'io va incontro ad un irreversibile processo di decomposizione. Non connette, non unifica, la sua vita diventa un fluire indistinto in cui va persa ogni organizzazione, ogni distinzione ed ogni gerarchia di eventi . E' un processo che termina con la morte, ma anche prima del grande salto un io sgretolato, non unificato, non più centro della sua esperienza, cessa, a rigore di essere un io. E' un io privo di identità.

Anche le società e le civiltà hanno una loro identità. Certo, una società, e, a maggior ragione, una civiltà non sono degli individui. Non esiste una “signora società” con un suo sentire, pensare, agire distinto da quello degli individui che la compongono. Le società e le civiltà sono composte da individui, non sono super individui. Ma gli individui formano una società solo se sono uniti da qualcosa: un insieme di interessi, idee, valori, sentimenti comuni. Un comune senso di appartenenza, il legame con un linguaggio, un territorio, una tradizione. Questo insieme di interessi, idee, valori, costituisce il centro di gravità di civiltà e società. Se questo scompare la convivenza diventa ogni giorno più difficile, la cooperazione cessa, la società si spezzetta in una miriade di gruppi ed individui che si combattono o si ignorano a vicenda. Società e civiltà perdono allora la propria identità, si trasformano prima in contenitori vuoti, insiemi di persone non unite da nulla. Poi inevitabilmente decadono e muoiono.
Qualcuno potrebbe obbiettare che società libere, pluraliste e democratiche, non hanno, né possono avere un centro unificante. Libertà e pluralismo sono policentrici, pretendere che società fondate sul rispetto per la libertà individuale abbiano un centro unificante equivarrebbe a distruggere la libertà, dicono alcuni. Le cose sono però un tantino più complesse. Le società libere hanno più delle altre bisogno di un centro unificante, di pochi ma fondamentali valori largamente condivisi. Una economia di mercato non può funzionare se la gran maggioranza degli operatori non rispetta le regole della corretta concorrenza e, più in generale, se non esiste fra loro almeno un buon livello di reciproca fiducia. Una democrazia vive solo se il principio di maggioranza, e le sue limitazioni, sono largamente rispettati e condivisi. La libertà individuale degenera e muore se la stragrande maggioranza degli esseri umani non considera un valore fondamentale, stavo per scrivere “sacro”, la libertà della persona. In società prive di un centro di aggregazione gli individui si trasformano in monadi incomunicanti, capaci non di competere ma di combattersi, di ignorarsi ma non di ascoltarsi e rispettarsi reciprocamente.

I politicamente corretti odiano l'identità, meglio, la nostra identità. Parlano di "presunta identità”, storcono la bocca se qualcuno accenna ad una identità occidentale e subito appiccicano al malcapitato l'etichetta di “identitario”. Chi rivendica la nostra identità sarebbe un un pericoloso “reazionario” desideroso di “innalzare muri invece che costruire ponti”. Un intollerante sciovinista xenofobo, e chi più ne ha più ne metta. Invece di perdere tempo con le “identità” dovremmo “aprirci all'altro”, confrontare le idee, discutere, dialogare.
Si tratta però di sciocchezze. In realtà può aprirsi all'altro chi intanto è qualcuno o qualcosa, ha una sua identità. Posso scambiare idee se ho delle mie idee, posso prendere in considerazione valori in cui altri si riconoscono se ho dei miei valori, posso cercare di tener conto degli altrui interessi e cercare di armonizzarli con i miei se, appunto, ho dei miei interessi. E posso fare tutte queste belle cose se l'altro a cui desidero aprirmi è disposto ad aprirsi a sua volta con me, mi riconosce come interlocutore, senza considerarmi nemico.
Un individuo, un popolo o una civiltà privi di identità non possono discutere, confrontarsi, aprirsi con nessuno. Non si relazionano all'altro, possono al massimo cercare di contenerlo.
Contenere, questa è la parola chiave. Tutte le pretenziose sciocchezze che i seguaci del politicamente corretto spargono senza tregua dai media si basano in fondo su un fraintendimento, probabilmente voluto. Si scambia il confrontarsi con il contenere. Confrontarsi è impossibile se non si ha una identità propria.  Contenere vuol dire semplicemente accogliere in casa propria coloro che hanno una identità diversa. Accoglierli senza confrontarsi con loro, senza chieder loro nulla, un po' come il proprietario di un albergo non chiede nulla, né si confronta con i suoi clienti. Con una sostanziale differenza però: i clienti dell'albergo pagano.
Altro che apertura, confronto! I politicamente corretti vogliono solo accogliere. “Venite da noi”, dicono, “e noi non faremo nulla che possa urtare la vostra suscettibilità. Se i nostri discorsi vi infastidiscono noi parleremo a voce bassa, o smetteremo di parlare, ed anche di scrivere. Se le nostre feste sono per voi offensive noi le cambieremo: trasformeremo il Natale in festa dell'inverno e la Pasqua in festa della primavera, e se anche questo non basterà rinunceremo a Pasqua e Natale. Se i nostri costumi vi sembrano peccaminosi cercheremo di cambiarli, se le merci che si vendono nei nostri supermercati sono per voi intoccabili simboli di corruzione noi non obbligheremo quelli che di voi nei supermercati ci lavorano a toccarle, quelle orribili merci; col tempo vedremo di cessare di produrle e venderle. Costruiremo piscine separate per maschi e femmine, modificheremo le regole delle competizioni sportive, rimuoveremo simboli civili e religiosi che voi potreste considerare offensivi. E cambieremo i programmi scolastici, i nostri figli dovranno studiare la vostra storia e la geografia dei vostri paesi. Cercheremo, col tempo di imparare la vostra lingua. E se, malgrado tutto, voi continuerete a mettere bombe nelle nostre stazioni e dei nostri aerei noi, pur condannando certi atti estremi, cercheremo di capire le ragioni del vostro odio, e di meritarci il vostro amore”.
Nessun confronto, nessuna apertura quindi: solo la riduzione della nostra civiltà a contenitore. Un contenitore vuoto, asettico, una scatola in cui possano trovarsi bene coloro che hanno una identità diversa dalla nostra. Perché loro possono averla, una identità. Per loro essere “identitari” non è un crimine, loro non sono sciovinisti e xenofobi se rivendicano storia, tradizioni, simboli della loro civiltà.
La civiltà di Platone ed Aristotele, Kant e Newton, Dante e Shakespeare, Michelangelo e Beethoven ridotta a scatola vuota, e forse neppure a scatola, perché, in fondo, una scatola ha la sua identità: ha una forma, una dimensione, un colore. Sarebbe meglio dire ridotta ad un nulla culturale, mera virtualità, potenzialità ad accogliere, a contenere. Tutti, sempre, senza alcun confronto, scambio di idee, dibattito. Senza vero dialogo. Questa è la sostanza del politicamente corretto imperante nell'occidente decadente di oggi. Una sostanza celata, nascosta da fumosi discorsi, mascherata da bontà, solidarietà, volontà di dialogo e confronto. Ma che, al di là di tutte le maschere, si palesa tragicamente per quella che è: la proposta di una eutanasia dell'occidente.

venerdì 5 dicembre 2014

QUEI VENTI ANNI

La sinistra italica lo ha detto, ripetuto, strillato per oltre venti anni: “i mali del paese hanno una sola causa e quella causa ha un nome ed un cognome: Silvio Berlusconi”.
Per venti anni l'obiettivo della sinistra ideologica (e purtroppo la gran maggioranza della sinistra italiana E' ideologica) è stato uno solo: far fuori il cavaliere. Farlo fuori non politicamente, sconfiggendolo alle elezioni, farlo fuori nel senso di cacciarlo dalla politica, possibilmente richiuderlo in una cella, qualcuno pensava addirittura ad altro...
La magistratura ha aperto sul cavaliere centinaia di inchieste, in venti anni l'uomo di Arcore ha subito oltre 34 (TRENTAQUATTRO) processi, un record che neppure Al Capone, Luky Luciano, Totò Riina e Vito Genovese messi insieme possono avvicinare. E contro l'uomo di Arcore sono scesi in campo, a frotte, comici e cabarettisti, giornalisti e scrittori, intellettuali, filosofi, sacerdoti. Con i libri di alcuni di loro, tesi e "dimostrare” i crimini del cavaliere si potrebbero riempire gli scaffali di intere biblioteche. Da Santoro a Benigni, da Fazio alla Litizzetto, da Travaglio a Flores D'Arcais l'obiettivo è stato, per VENTI ANNI, sempre lo stesso. I sindacati dal canto loro hanno accolto ogni provvedimento economico del cavaliere con “combattivi” scioperi generali, mentre la commissione europea non perdeva occasione per esternare la sua antipatia nei confronti di questo “parvenu” che guidava la politica italiana.
Alla fine, in qualche modo, ci sono riusciti. La tanto sospirata ed attesa condanna del cavaliere è arrivata, al termine di una vicenda giudiziaria che definire “poco chiara” è eufemistico. Una piccola condanna, autentico topolino partorito da una imponente montagna di inchieste e processi, ma comunque una condanna. Poi, si è applicata retroattivamente al cavaliere una legge forcaiola ed il grande obiettivo è stato centrato: Silvio Berlusconi fuori dal parlamento! EVVIVA!
L'espulsione dal parlamento del resto è stato solo l'atto finale di un processo di emarginazione di Berlusconi iniziato con la caduta del suo governo e la nascita del governo Monti. Altra vicenda poco chiara (per usare un altro eufemismo).

Comunque, dal 2011 Berlusconi è, se non fuori, ai margini della politica italiana. Il mostro è stato sconfitto, la democrazia è salva, l'onestà può finalmente trionfare. Il grande inquinatore, il corruttore massimo è finalmente messo nella impossibilità di nuocere. Il paese si appresta a rinascere.
Ma, stanno davvero così le cose? Non mi interessa qui esprimere giudizi sulla persona, sulla politica o sulle vicende giudiziarie dell'uomo di Arcore, mi pongo solo una domanda: da quando lui non c'è le cose sono migliorate? Silvio Berlusconi era la causa di tutti o quasi i nostri mali, ebbene, ora che Berlusconi non ci governa più da oltre tre anni le cose vanno meglio? La crisi si sta risolvendo? L'occupazione aumenta? La povertà diminuisce? E la famosa “Europa”, quella che la sinistra italica applaudiva freneticamente quando rimproverava il cavaliere, ci è forse diventata amica ora che il nemico pubblico numero uno è emarginato? Strano, ora che il berlusca non c'è più sono in molti ad accorgersi che i famosi “vincoli europei” ben lungi dallo stimolare lo sviluppo, lo stanno strozzando.
E, scomparso il grande corruttore, sono migliorate le cose almeno nel settore della corruzione? Non sembra. Anzi, ora che il cavaliere non è più al centro della scena, molti magistrati hanno iniziato ad indagare su altre cosette, ed è venuto fuori che uomini e forze politiche che per anni si sono sciacquati la bocca con parole come “onestà”, “legalità”, “solidarietà”, proprio integerrimi non sembrano essere. Di fronte a quanto sta venendo fuori nell'inchiesta di Roma certi “crimini” che si attribuivano al cavaliere appaiono autentiche bazzeccole.
Lo ripeto, non mi interessa qui valutare la persona e la politica di Silvio Berlusconi. Sono però convinto che quando tutta la sua vicenda potrà essere valutata col necessario distacco l'antiberlusconismo fazioso e fanatico che ha caratterizzato per venti anni l'Italia sarà bollato come uno dei fenomeni più deleteri della nostra storia recente.