mercoledì 8 settembre 2010

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CAPITOLO PRIMO

Non ne poteva più di rigirarsi sotto le coperte. Si fece forza, un gesto deciso e si trovò del tutto scoperto. Un brivido di freddo lo attraversò mentre si metteva a sedere sul bordo del lettino su cui per tutta la notte aveva cercato, senza riuscirci, di prendere sonno. Si alzò e passò la mano sul muro cercando nel buio l’interruttore della luce. Lo trovò, infine, e accese quello che con molto ottimismo era stato definito un “lampadario”. Si trattava solo di una lampadina attaccata all’estremità di un filo elettrico che pendeva dal soffitto e dava alla misera stanza in cui aveva passato la notte un’aria ancora più squallida. Il mobilio era limitato al letto, a un piccolo armadio dentro cui la sera prima aveva sistemato la sua uniforme di sottufficiale della milizia volontaria e ad una sedia su cui aveva posato la biancheria intima, gli occhiali e l’orologio. Guardò l’ora. Erano solo le cinque, ancora due ore e poi tutto sarebbe finito, per fortuna. Non vedeva l’ora di tornare alle sue attività consuete. Quella mattina finiva la settimana dell’aiuto solidale e l’indomani lui avrebbe potuto ricominciare a dedicarsi solo al suo lavoro, al suo lavoro usuale. Non è che gli piacesse particolarmente si intende, ma era sempre meglio di quello squallore, di quel fare cose assurde e crudeli in nome dell’amore e della tolleranza. Soprattutto non vedeva l’ora che arrivassero le sette e che la cosa che doveva comandare terminasse. Mancavano ancora due ore, due ore! Una eternità, non sarebbero passate mai! Come avrebbe voluto che fossero già le sette, no, non le sette, le sette e dieci e che tutto fosse finito, concluso una volta per tutte.
Uscì dalla stanza e tremando per il freddo percorse un lungo corridoio malamente illuminato. Raggiunse il bagno, aprì il rubinetto e attese che un rigagnolo d’acqua gelida si degnasse di uscire. Si lavò alla bellemeglio e si avviò di nuovo verso la sua stanza. Il bar della caserma apriva alle sei, cosa avrebbe fatto fino a quell’ora? Avesse avuto almeno qualcosa da leggere! Ma cosa avrebbe letto poi? Qualche storia edificante di comprensione fra diversi o qualche denuncia dello spirito esclusivista e borghese che ancora impregna certi strati della società. Erano anni, no, decenni che non leggeva altro. Leggere roba simile non era leggere, era solo guardare segni sulla carta.. no, meglio non avere nulla da leggere meglio stare seduto sulla sedia o sdraiato sul letto, stare lì senza far nulla, nulla tranne aspettare.
Guardò di nuovo l’orologio: le cinque e mezza, fra mezzora avrebbe potuto fare colazione al bar della caserma, poi avrebbe cercato di ingannare il tempo in attesa dell’ora, delle sette.
Mentre si avvicinava al bar, si avvicinava camminando lentamente, per far passare il tempo, passò davanti alla saletta della meditazione finale. Lì dentro c’era lui, lui, il responsabile di tutto, del suo malessere, della sua notte insonne, della sua ansia, del mal di testa che lo tormentava.
“Accidenti a lui” pensò “se non avesse fatto la cazzata che ha fatto non gli sarebbe successo niente, ora sarebbe un buon studente o un buon militante della milizia giovanile e io non dovrei fare quello che farò.. che farò fra un’ora, no, un’ora e venti, un’ora e un quarto…”
“Per te il tempo non passa mai, per lui vola” non poté fare a meno di pensare e quel pensiero gli fece attorcigliare le viscere. Si, avrebbe voluto odiare quel ragazzo, avrebbe voluto provare sentimenti di implacabile esecrazione nei suoi confronti ma non ci riusciva, gli faceva solo una pena infinita. In realtà lui odiava quel diciassettenne stupido, lo odiava per la pena che gli faceva, perché quella pena lo faceva soffrire, lo penetrava tutto, gli dava la nausea; se fosse riuscito ad odiarlo per quello che aveva fatto, per la sua aggressione all’armonia su cui il suo, il loro mondo si reggeva! Se ci fosse riuscito non sarebbe stato male, non così male almeno. Ma non ci riusciva.

Il caffè era pessimo, come la focaccia. Tanti, tantissimi anni prima fare la prima colazione era diverso, era qualcosa di piacevole che aiutava ad iniziare la giornata di lavoro. Bar belli, grandi banchi su cui facevano mostra di se tante ghiottonerie, un ambiente rilassato e accogliente. Ora le cose erano ben diverse: sale fredde e sporche, la scelta dei cibi e delle bevande ridotta al minimo: si poteva accompagnare il caffè alternativo con qualche fetta di focaccia rinsecchita o un dolcetto ecologico dal sapore indefinibile. “L’umanità sperpera una quantità enorme di risorse in cose di cui si può fare benissimo a meno” strillava di continuo la propaganda ufficiale. “Non ha senso coltivare aree enormi di terreno, togliere spazio a intere specie animali solo per mangiucchiare una brioche, una fetta di torta o di focaccia! Basta con questi sprechi criminali!” Non passava giorno senza che giornali, radio e televisione non facessero discorsi di questo tipo. No, ora non si “mangiucchiavano” più torte, brioche e focacce, meno che mai bistecche ed arrosti e tutti erano più forti, sani e felici. Giovanni però avrebbe dato chissà cosa pur di poter gustare una colazione d’altri tempi.
Guardò l’orologio per l’ennesima volta. “Beh.. ormai è quasi ora” si disse e si avviò verso la stanza in cui lo attendevano i quattro componenti del plotone d’esecuzione.
Non erano molto più grandi del condannato: quattro ragazzi intorno ai 18, 20 anni, non di più. Si erano già vestiti e passeggiavano nervosamente per la stanza spoglia. Quando Giovanni Bertini entrò lo guardarono con espressione tesa. “Allora che si fa?” Chiese Francesco, il più adulto dei quattro, un ragazzo alto e secco, vistosamente nervoso.
“Che vuoi che si faccia?” Rispose Giovanni con rabbia “si fa quello che si deve fare, il nostro dovere”. “Allora non c’è stata nessuna sospensione..” insistette Francesco.
Giovanni accennò un sorriso ironico. Quello spilungone credeva ancora nelle sospensioni di pena, magari nella grazia. E si che non era vecchio come lui, era un giovane nato e vissuto nella società dell’amore! Erano anni che nessun condannato veniva graziato. All’inizio si, qualcuno aveva beneficiato della clemenza del ministro dell’amore, a quei tempi mostrarsi magnanimi poteva ancora riuscire utile, ma ormai ne era passata di acqua sotto i ponti! Ormai le sentenze venivano eseguite, ed in gran fretta! Venivano eseguite sempre, tutte.
“No, nessuna sospensione, nessuna grazia” disse secco Giovanni. “Muoviamoci è l’ora”.

Raggiunsero il cortile. Era squallido: un quadrato di terra circondato da alte mura che lasciavano vedere solo il cielo scuro di nubi. Di fronte a loro, ben infisso per terra, situato a circa mezzo metro dal muro grigio, c’era il palo a cui il condannato sarebbe stato legato. Pioveva e faceva freddo. Il terreno era fangoso, pieno di pozzanghere. Proprio ai piedi del palo si era formata una pozzanghera particolarmente grossa.
“Quello sciagurato morirà con i piedi bagnati” pensò Giovanni “le ultime sensazioni che proverà saranno il freddo e l’umido. L’acqua che gli scivola addosso, gli entra nel collo, gli appesantisce gli abiti e il freddo, e i piedi in quella pozzanghera, poi… poi basta, basta freddo, acqua, umidità.. basta tutto”
Una piccola porta si aprì sul muro a loro fianco e il condannato uscì. Era davvero solo un ragazzo, biondiccio, mingherlino, piuttosto basso. Era pallidissimo, camminava a piccoli passi guardandosi intorno smarrito. Due guardie enormi lo sorreggevano per le braccia spingendolo avanti senza troppi complimenti; lo psicologo seguiva il terzetto e parlava all’orecchio del ragazzo, parlava senza interrompersi, in continuazione. Il ragazzo neppure sentiva le sue parole consolatorie, cercava di rallentare il passo, puntava i piedi in avanti come fanno i muli ma le guardie che gli stringevano inesorabili le braccia erano troppo forti per lui, lo spingevano, lo spingevano e i tacchi della sue scarpe sdrucite lasciavano solchi profondi nella fanghiglia. Infine raggiunse il palo. Lo legarono stretto e lo bendarono. Giovanni notò che il condannato cercava di togliere i piedi dall’acqua fangosa della pozzanghera, cercava di spostarli, di metterli all’asciutto. Si trattava probabilmente di un gesto meccanico ma sembrava che in quegli ultimi istanti lo sventurato volesse concentrarsi su qualcosa che non fosse ciò che stava per succedergli.
“Avanti ragazzi” disse Giovanni.
Avanzarono e si schierarono. Imbracciarono i fucili.
“Caricate, puntate…fuoco!”
Il ragazzo si afflosciò sulle corde che lo sostenevano. Giovanni avanzò verso di lui, pistola in pugno, alla distanza giusta puntò il revolver alla testa del criminale e sparò. Si, finalmente tutto era finito.

Fu impegnato in formalità varie fin quasi a mezzogiorno. Dovette compilare un resoconto dettagliato dell’esecuzione che aveva comandato e depositarlo, debitamente firmato, nell’ufficio del direttore della casa di rieducazione. Poi fu la volta di moduli vari che compilò meccanicamente o firmò senza neppure leggere e finalmente fu libero: la settimana dell’aiuto solidale era finita, finalmente.
Aveva lavorato duro in quella settimana. Aveva comandato una esecuzioni capitale e svolto una quantità enorme di altri lavori socialmente utili: aveva portato da mangiare a gatti, topi e cani randagi, rifornito di droga le farmacie del quartiere gioioso, controllato che le case della fine serena fossero linde e pulite. Ora era finita e lui aveva la bellezza di una mezza giornata tutta per se prima di riprendere il suo usuale lavoro.
Passeggiava per le vie larghe ed anonime della periferia della città del sole, quella che un tempo era stata Milano. Poteva camminare in mezzo alla strada, le auto erano rarissime ormai. Però doveva essere ben pronto a scansare quelle che eventualmente avesse avvistato. Solo pochissimi avevano il permesso di usare l’automobile: alti papaveri del partito dell’amore ed eroi della società che si erano distinti per imprese di altissimo valore umanitario. Questi pochissimi però usavano l’auto in maniera che un tempo sarebbe stata definita criminale: sfrecciavano a velocità folle per le vie semideserte divertendosi a terrorizzare i passanti. Molto spesso qualche auto lanciata a gran velocità faceva letteralmente a pezzi qualche vecchio poco rapido a spostarsi o, il più delle volte, qualche bambino distratto. Gli autisti naturalmente non rischiavano nulla: non infrangevano alcuna legge perché la legge non esisteva e meno che mai esisteva un codice della strada, e poi era assurdo anche solo il pensare di punire persone che si erano meritate riconoscimenti tanto alti. Certo, anche loro avevano qualche debolezza, ma era lecito condannarle per questo? Non si può negare che dia una certa ebbrezza vedere un bambino colpito in pieno da un’auto volare per alcuni metri prima di sfracellarsi al suolo, sarebbe stato criminoso criticare autorevoli cittadini solo perché, ogni tanto, si lasciavano trasportare da questa naturalissima ebbrezza.

Malgrado fosse ancora scosso dal lavoro orribile della mattina, o forse proprio per questo, Giovanni aveva una certa fame. Entrò in un ristorante alternativo e si mise in coda. Il ristorante alternativo era quello che un tempo si sarebbe definito un self service. Era piuttosto affollato, come tutti i ristoranti alternativi, cioè gli unici ristoranti esistenti, e decisamente poco pulito.
Guardò i cibi fra i quali poteva scegliere: miglio bollito, spaghetti biologici, gli immancabili dolcetti ecologici… era scoraggiato.
“Oggi si può mangiare il seme della terra” disse una voce alle sue spalle.
Si girò: Marco Ponzi gli sorrideva con aria soddisfatta. “Non ne hai sentito parlare? E’ l’ultima scoperta dei nostri chimici, provala”
Ma si, perché no in fondo? Intanto con le alternative che c’erano…
Prese una porzione abbondante di seme della terra, un paio di dolcetti ecologici, un grosso bicchiere d’acqua e si avviò col vassoio verso un tavolo libero. Marco lo seguì senza essere stato invitato.
Posarono i vassoi su un tavolo di plastica riciclata un po’ meno sporco degli altri e si accomodarono.
“Si, il seme della terra è una grande scoperta.” Riprese Marco. “Finalmente si riesce a produrre cibo dalla materia inanimata. Fino a ieri questo sembrava qualcosa di impossibile, oggi non lo è più. Ora possiamo ricavare tutto ciò che serve alla nutrizione direttamente dal mondo minerale, senza essere più costretti ad eliminare vite innocenti”.
Giovanni guardò in silenzio il piatto di seme della terra: una sorta di pappa semiliquida, verdognola, priva di odore. Se ne portò un cucchiaio alla bocca: non sapeva di niente.
“Si, forse il gusto non è il massimo” proseguì Marco “ma, ci stanno lavorando sopra, E poi chi ha detto che il gusto sia tanto importante? Nella nutrizione quello che conta è rifornire di sostanze utili il proprio corpo, e con il seme della terra oggi possiamo farlo senza uccidere nessun altro essere vivente, né animali né piante. Ti rendi conto di quanto si importante una cosa simile?”
Si, Giovanni Bertini se ne rendeva conto. Voleva dire che gradualmente anche gli spaghetti e le insalate biologiche, il miglio e i dolcetti ecologici avrebbero abbandonato le loro mense.
“E’ una novità sconvolgente” continuava a ripetere Ponzi.
Mah, non era poi una grande novità: anche negli anni oscuri ci si poteva nutrire con le flebo, immettere direttamente nell’organismo le sostanze necessarie alla sopravvivenza senza ricavarle da agnolotti, bistecche o insalate..
Giovanni continuava a mangiare in silenzio. Non aveva nessuna intenzione di contraddire Marco Ponzi. Discutere con lui era inutile, inutile e molto pericoloso.
Marco Ponzi aveva ventitre anni, era un bel ragazzo alto e biondo, gli occhi fiammeggianti, l’espressione ascetica ed ispirata. Era straordinariamente magro. Tutti, tranne i guardiani della rivoluzione e pochissimi altri erano magri nella società dell’amore, ma Marco lo era più della media; soprattutto Marco era fanaticamente convinto di ciò che faceva. Aveva fatto una brillante carriera, prima come educatore di disadattati, poi come pubblico accusatore nei processi a carico degli irrecuperabili, qualcuno parlava di una sua prossima promozione: avrebbe potuto diventare membro di qualche importante commissione di controllo sociale o addirittura del comitato centrale del partito dell’amore. Si, Marco poteva farcela: era abbastanza intelligente, disinteressato e fanatico per farcela, pensò Giovanni. Ed era anche abbastanza stupido.
“Non sei troppo allegro oggi mi sembra” disse Marco guardandolo negli occhi. Poi assunse una espressione seria e comprensiva ed aggiunse: “Stai male per quello che hai dovuto fare stamattina?”
“Beh, non è stata una bella esperienza” azzardò Giovanni.
“Ne sono convinto” rispose Marco guardandolo con simpatia. “se ci piacesse tutto quello che facciamo tutto sarebbe più facile” aggiunse “ma è difficile, molto difficile, che tutto quello che facciamo possa anche piacerci. Una cosa è condividere certe idee, capire che certi provvedimenti sono necessari e giusti, altra cosa è metterli in atto. E’ la nostra natura che è così, ci vorrà del tempo per cambiarla, cambiarla del tutto intendo”.

La settimana prima Marco Ponzi aveva sostenuto la pubblica accusa nel processo contro il ragazzo giustiziato in mattinata. Giovanni aveva seguito in televisione le fasi del dibattimento.
Marco si era alzato e lentamente si era avvicinato al ragazzo per interrogarlo. Era calmo, freddo e determinato, voleva che la colpevolezza di quel mostro emergesse al di la di ogni ragionevole dubbio.
“Allora, vuoi raccontarci come sono andate le cose?” chiese all’imputato. Il suo tono era conciliante.
“Si certo” rispose il ragazzo, con fare esitante. Restò in silenzio un attimo poi riprese: “Mi ero addormentato da poco quando qualcosa mi ha svegliato, un rumore strano, non ricordo bene..”
“Continua” gli disse marco seccamente.
“Si, va bene. Ecco, mi sono svegliato, ho acceso la luce e ho visto, ho visto quella bestia, era.. si.. era orribile, lo so non dovrei dirlo… ma a me ha fatto questa impressione! Non era un topo comune, era enorme, se ne stava ai piedi del letto, mi guardava con occhi rossi pieni di odio, lo so, lo so che non mi odiava, lo so che gli animali sono nostri amici, ma io mi ero appena svegliato, mi ha spaventato, mi sembrava enorme, aggressivo, pericoloso”
“E cosa hai fatto allora?”
“Non capivo nulla, mi sono alzato in piedi, ho cercato di scappare, di uscire dalla stanza, ma lui mi si è precipitato addosso, mi ha morso un piede, poi la gamba, più in su. Non sapevo cosa facevo, ero terrorizzato. Ho afferrato un grosso sasso, no, non è un semplice sasso, è un grosso pezzo di quarzo bianco che uso come fermacarte, mi serve quando studio. L’ho afferrato e ho colpito il topo sulla testa. Non so come abbia fatto a centrarlo, non lo so ed ora mi dispiace di averlo centrato. L’ho ucciso, è morto sul colpo. Mi dispiace, tanto…”
Nel suo accorato intervento il difensore d’ufficio aveva cercato di minimizzare le responsabilità del ragazzo.
“Sono d’accordo con la pubblica accusa che le affermazioni di Bruno Merlino sulle dimensioni del topo assassinato sono completamente inattendibili. Ma il mio assistito non mente per gusto di mentire o per cercare i sminuire le sue responsabilità. Semplicemente, ricorda male; è stato svegliato nel cuore della notte, gli è sembrato di vedere qualcosa di spaventoso che esisteva solo nella sua fantasia, ha agito senza pensare, ha ucciso senza vera volontà di uccidere spinto da un impulso malefico di cui non ha vera colpa. Bruno è ancora molto giovane, può essere recuperato, può diventare un buon cittadino della società dell’amore. Vi chiedo di giudicarlo con clemenza.”
Marco Ponzi però aveva facilmente smontato le sofisticherie del difensore.
“E’ ovvio che il topo enorme non è mai esistito. Noi abbiamo visto i resti del povero animale assassinato da questo criminale: un povero topolino, un piccolo essere vivente che, come tutti, aveva diritto di vivere senza subire la violenza razzista che purtroppo ancora avvelena le menti ed i cuori di alcuni esseri umani. Abbiamo sepolto il topo assassinato, non volevamo fare subire ai resti di questo piccolo animale l’oltraggio di venir mostrati ai giudici come se fossero un oggetto qualsiasi.
Merlino ha ucciso per un motivo molto semplice: considera un topo qualcosa di meno nobile e degno di tutela che non un uomo, nella sua mente criminale è ancora ben viva l’idea che si possa discriminare fra esseri viventi, che esista nella natura una scala di cui l’uomo sarebbe al vertice. Avrebbe ucciso un bambino che lo avesse svegliato nel cuore della notte? No, non lo avrebbe fatto, forse non lo avrebbe neppure schiaffeggiato o preso a calci, magari gli avrebbe sorriso. Per il topolino invece, per il topolino un orribile colpo di quarzo bianco, un atto di violenza fredda e razzista, l’assassinio, la morte! Il difensore afferma che il Merlino può essere recuperato ma non è vero, purtroppo non è vero! Cinque anni fa questo criminale aveva già ucciso, aveva assassinato una piccola lucertola, per gioco, per gioco, capite? In quella occasione eravamo stati clementi e la condanna si era limitata a due anni di rieducazione in uno dei nostri migliori istituti. Valenti insegnanti, stimati psicologi hanno cercato di modificare la mente ed il cuore di Bruno Merlino, tutto è stato inutile però, lo dimostrano i drammatici eventi di cui stiamo discutendo. Se allora fossimo stati severi il lutto di oggi non ci sarebbe stato.
La società dell’amore si basa sul rispetto di ogni diversità, sulla tutela generalizzata di tutti i diversi. Uccidendo il topo Bruno Merlino ha attentato al fondamento stesso della nostra convivenza civile, ha mostrato di essere un nemico implacabile della società dell’amore
Signori giurati! E’ triste distruggere una vita, anche una vita umana, ma a volte può essere tragicamente necessario farlo. Si lascino circolare i tipi come Bruno Merlino ed in poco tempo potremmo ritrovarci cacciati indietro di decenni, potrebbe riaffacciarsi l’incubo dei tempi oscuri. E’ con la morte ne cuore ma assolutamente conscio di fare il mio dovere che vi chiedo di condannare alla pena capitale Bruno Merlino”
Dopo sedici minuti di camera di consiglio la corte aveva accolto la richiesta di Marco Ponzi.

“Si, è non è stato piacevole chiedere la pena di morte per quel criminale, ma era necessario farlo, ne sarai convinto penso” disse Marco “anche per te deve essere stato piuttosto brutto comandare il plotone d’esecuzione ma anche tu facevi solo il tuo dovere..”
“Si, hai ragione” rispose Giovanni “sarebbe terribile se simili eventi dovessero moltiplicarsi, meglio prevenire, essere severi subito”. Restò un attimo in silenzio poi si alzò da tavola. Avevano finito di mangiare ma lui si sentiva vuoto più di prima.
Un pallido sole era spuntato fra le nuvole. “Arrivederci Marco, vado a casa a riposare un po’ domani si riprende il solito lavoro”.
“Ciao Giovanni, a presto”









CAPITOLO SECONDO

Entrò nel suo ufficio. Giovanni Bertini si occupava di mutui e prestiti personali in una delle innumerevoli agenzie della banca equa e solidale, l’unica banca esistente. Si sedette alla sua scrivania ed accese l’antiquato computer che aveva in dotazione. Lunghe strisce di parole incomprensibili iniziarono a scorrere sullo schermo nero. Era il giorno di paga e una bella busta bianca era stata depositata dal commesso nel bel mezzo della scrivania, impossibile non vederla. Giovanni la prese e la aprì con timore. Non guardò le varie voci che la componevano, concentrò l’attenzione sulla casella finale, quella che attestava l’ammontare del suo debito nei confronti della società
Le previsioni più pessimistiche si erano avverate. Questo mese gli avevano addebitato in conto 350 punti, la settimana dell’aiuto solidale non sarebbe bastata, avrebbe dovuto compiere altri lavori socialmente utili per mettersi in pari.
A Giovanni succedeva esattamente la stessa cosa che a tutti gli altri, esclusi naturalmente gli alti dirigenti del partito e gli eroi della società. Fino ad una decina di anni prima il totale delle tasse e delle ritenute aveva più o meno pareggiato l’ammontare delle retribuzioni, poi ciò che i cittadini dovevano al fisco aveva iniziato a superare l’ammontare dei loro redditi.
L’idea che fossero i singoli cittadini a decidere come spendere il proprio denaro era stata sottoposta a critiche durissime già nell’ultima fase degli anni oscuri. I cittadini lavoravano, pagavano allo stato una quantità enorme di imposte, tasse e contributi vari, e lo stato rendeva loro il tutto in forma di beni e servizi. Inizialmente un simile gioco si era limitato ad alcuni settori di primaria importanza sociale: previdenza e sanità soprattutto, poi le pressioni per un suo progressivo allargamento erano diventate irresistibili. Se era lo stato a decidere quando dovevi andare in pensione e quanto del tuo reddito dovevi destinare alla salvaguardia della tua salute perché, si diceva, non poteva fare la stessa cosa per tutto il resto? Perché doveva essere lui, Giovanni Bertini a stabilire cosa e quanto mangiare, come vestirsi, dove abitare o dove andare in vacanza? Lui era solo un piccolo individuo ignorante, non poteva decidere autonomamente su cose tanto importanti che, ben prima di lui, riguardavano la società tutta.
Con la vittoria del partito dell’amore il sistema aveva raggiunto in effetti la massima estensione e perfezione. La commissione per la nutrizione si dedicava a far si che cittadini avessero da mangiare cibi sani e nutrienti, la commissione per il vestiario forniva a tutti abiti comodi ed eleganti, la commissione edilizia stabiliva in quali abitazioni i cittadini dovessero vivere mentre quella per lo svago alternativo si occupava del loro tempo libero. Ogni aspetto della vita degli esseri umani era studiato attentamente da apposite commissioni che fornivano ad ognuno ciò di cui aveva bisogno. Il cittadino non possedeva denaro perché non gli serviva: lo stato pensava a tutto. Un gran vantaggio di questo sistema era che i sentimenti egoistici, individualisti e distruttivi venivano fortemente repressi. Eliminato il denaro che senso aveva rubare? Se lo stato decideva tutto aveva poco senso la smania di far carriera o di accumulare beni materiali. Nel partito naturalmente il carrierismo era incoraggiato, ma questo era un fatto positivo: chi raggiungeva alte cariche nel partito era una persona profondamente amante degli altri, raggiungendo una carica importante non espandeva il proprio io individuale ma l’io collettivo, sociale, contribuiva allo sviluppo dell’amore.

Certo, quando l’ammontare di imposte, tasse e ritenute aveva nettamente superato l’importo delle retribuzioni erano sorti alcuni problemi tecnici. I disfattisti avevano mormorato che la situazione era comica: come potevano i contribuenti pagare più di quanto guadagnavano? Ma si trattava solo di lamentele insensate. Ciò che i cittadini non potevano pagare allo stato in forma monetaria veniva pagato in forma di lavoro volontario. Se guadagnavi 100 e l’insieme delle ritenute era pari a 120 dovevi effettuare un certo numero di giornate di lavoro socialmente utile. Il giorno della paga ti veniva addebitato in conto l’importo delle ritenute che eccedeva l’ammontare dello stipendio e uno o due giorni dopo, a volte addirittura lo stesso giorno, la direzione dell’azienda presso cui lavoravi ti comunicava quante giornate di lavoro socialmente utile avresti dovuto fare per rimetterti in pari. Poiché nella società solidale il benessere e la dignità dei lavoratori erano tenuti nella massima considerazione, chi doveva compiere dei lavori socialmente utili aveva la possibilità di scegliere quali effettuare. Ai lavoratori venivano consegnate liste di attività ed ognuno di loro poteva scegliere a quale dedicarsi. Ovviamente, visto che non tutti i lavori erano parimente urgenti ed importanti, alcuni davano diritto ad uno sconto sul debito maggiore di altri. Chi comandava un plotone d’esecuzione poteva vedersi scontare in una volta sola anche 100 punti del suo debito, riparare strade invece dava diritto a sconti assai più modesti, non più di una o due decine di punti per giornata di lavoro. Malgrado le lamentele dei disfattisti il sistema funzionava egregiamente già da parecchi anni, funzionava talmente bene che le lamentele erano cessate dopo pochi mesi dalla sua messa in pratica. E non solo erano cessate le lamentele, gli stessi disfattisti erano scomparsi.

Giovanni fece mentalmente l’elenco degli impegni che lo attendevano nei prossimi giorni e giunse subito alla conclusione che il solo tempo libero che gli restava era quello dedicato al sonno. La cosa lo depresse alquanto. La sua vita assomigliava sempre più ad una corsa a vuoto: il lavoro, e poi le riunioni di educazione politica, e poi le settimane di lavoro solidale, e poi ancora i preparativi per la festa della pace, gli incontri con i rappresentanti delle comunità islamiche.. lui, Giovanni Bertini non era padrone di un solo attimo del suo tempo.
Forse era meglio concentrarsi sul lavoro. In fondo fra le tante attività che occupavano tutti i suoi giorni era questa che gli riusciva meno pesante, a volte provava addirittura un po’ di soddisfazione nell’espletarla.
Il cliente entrò nel suo ufficio e si accomodò sulla poltrona senza aspettare il suo invito. Non era una questione di cattiva educazione, facevano tutti così, ormai. Era piuttosto alto, sulla quarantina, il viso paffuto era simpatico e sorridente, i capelli ricciuti e nerissimi, la carnagione molto scura. Tutto nel suo aspetto faceva pensare che doveva trattarsi di un nord africano, un marocchino o forse un egiziano. A differenza degli italiani e degli occidentali in generale i nord africani non erano affatto magri, almeno, non lo erano tutti. Per loro non valevano i vincoli e le direttive severissime che avevano trasformato i pasti degli occidentali in tristi cerimonie. In quanto membri di una diversa civiltà gli islamici (e praticamente tutti gli africani erano ormai islamici) non potevano essere costretti al rispetto assoluto di ogni forma di vita, con conseguenti digiuni e dimagrimenti collettivi. Con loro si discuteva, ma nessuno si sarebbe azzardato anche solo a pensare di contestare le loro abitudini alimentari.
“In cosa posso esserle utile?” chiese Giovanni.
“Mi interessa il mutuo sociale”
Ci avrebbe scommesso. Tutti gli immigrati ormai chiedevano il mutuo sociale, nell’ultimo mese Giovanni aveva fatto decine di pratiche.
“Benissimo, vediamo.. ecco, ora prendo i moduli”
Tirò fuori dal cassetto della scrivania una cartella piena di moduli e li esaminò attentamente. Si, bene, non mancava nulla. “Allora, qual’è il suo nome?”
“Assam bel Alì”
“Bene, ora dovrò farle alcune domande personali, non ha niente in contrario spero”
No, Assam non aveva nulla in contrario, così Bertini annotò sul primo modulo che il suo cliente era nato a Rabat il 10 gennaio del 2015, aveva 40 anni, quasi 41 visto che era il 2 dicembre 2055.
Assam aveva sei mogli ma solo una era con lui nella città del sole, le altre lo avrebbero raggiunto dopo l’acquisto della casa. Lavorava come muratore presso una delle più importanti imprese edili del quartiere islamico, un enorme aggregato che comprendeva oltre un milione di famiglie, e arrotondava lo stipendio facendo piccoli lavoretti a domicilio. Il suo reddito non era particolarmente elevato ma più che sufficiente a far fronte alla rata del mutuo che stava per ottenere.
“Quanto le serve?” chiese Bertini.
“Ma, facciamo 200.000 punti”
Duecentomila punti! Una cifra elevatissima. Negli anni oscuri nessun normale lavoratore, meno che mai un muratore immigrato, avrebbe mai potuto pagare la rata di un mutuo simile, ma ora le cose erano ben diverse. Il mutuo sociale permetteva a tutti gli immigrati di acquistare la casa dei loro sogni senza che le rate li strozzassero.
Gli immigrati non erano sottoposti alle ferree regole cui dovevano sottostare i nativi. Erano quasi del tutto esenti da tasse ed imposte nei confronti del governo centrale ma naturalmente dovevano pagare numerosi balzelli al governo etnico. Esisteva un governo etnico islamico che amministrava i quartieri islamici, un governo etnico cinese per i quartieri cinesi e così via. Ogni comunità etnica aveva i suoi quartieri con le sue leggi, il suo governo, i suoi usi e costumi. L’idea di integrazione era stata messa al bando molti anni prima come sostanzialmente razzista e con lei era stata bollata di razzismo la concezione secondo cui tutti i cittadini dovrebbero sottostare alle stesse leggi. Sottoporre tutti alle stesse leggi avrebbe significato distruggere tradizioni culturali, usi e costumi vecchi di secoli, avrebbe sostituito una soffocante uniformità alla ricchezza della diversità culturale. I partiti che teorizzavano l’eguaglianza di fronte alla legge, i diritti umani generalizzati, il primato dell’individuo sull’etnia, erano stati i primi ad esser messi fuori legge, molti anni prima e nessuno ne sentiva la mancanza.
Rispettare la diversità non poteva però voler dire disinteressarsi della sorte dei diversi. Questi arrivavano da paesi lontani, versavano spesso in condizioni di povertà e, soprattutto, erano stati oppressi per secoli dall’imperialismo occidentale. Il governo centrale aveva il dovere di aiutare i diversi. Un autentico fiume di denaro veniva trasferito dal governo centrale ai vari governi etnici che li usavano per soddisfare i bisogni della loro gente; così avrebbe dovuto essere almeno, ma i risultati non erano molto lusinghieri. Per venire maggiormente incontro alle esigenze delle popolazioni immigrate era stato istituito da alcuni anni il mutuo sociale, e questo era stato indubitabilmente un vero, grande successo.
“Dov’è situata la casa che intende acquistare?” chiese Giovanni ad Assam.
“All’inizio del quartiere islamico, vicino alla zona occidentale”
“E’ una gran bella posizione, ha delle foto, documenti catastali?”. Giovanni quasi si morse la lingua. Dannazione, aveva ancora le vecchie abitudini, parlava come se il mondo di oggi fosse uguale a quello di quaranta anni fa! Non esisteva un catasto nei quartieri islamici, una simile domanda avrebbe potuto essere considerata da Assam come una vera provocazione, sarebbe stato un bel guaio se ne avesse riferito ai superiori. Scrutò con una certa ansietà l’espressione del suo cliente.. no, non sembrava essersi offeso, anzi, sorrideva.
“Non esiste catasto da noi..”
Era andata bene! Assam non doveva essere uno di quegli immigrati pronti ad offendersi per tutto. Solo allora Giovanni notò che parlava piuttosto bene l’italiano. La cosa era abbastanza rara, molto spesso era costretto a chiamare l’interprete per poter portare a buon fine le pratiche.
Continuò a parlare con Assam della casa e a compilare moduli.
“A quanto ammonta la rata che dovrò pagare?”
“Mah,, vediamo, il tasso è dello 0,001 per cento, in quanto tempo vuol pagare?”
“ma, facciamo una trentina d’anni”
“Bene, dunque, duecentomila punti in 30 anni allo 0,001 per cento.. fanno circa quattrocentosessanta punti al mese”.
“Beh.. non è male.. accetto”
Meno male, accettava, non chiedeva alcun ribasso del tasso né un contributo a fondo perduto. Non chiedeva neppure che gli venissero rimborsate le spese del trasloco, o i tre quarti di quanto avrebbe dovuto spendere per acquistare i mobili. Era da tempo che Giovanni non incontrava un cliente così poco pretenzioso! Non che simili richieste lo preoccupassero particolarmente, la direzione della banca equa e solidale non si poneva alcun problema di redditività e non sarebbe certamente stato lui a porselo. Solo, se Assam avesse avanzato qualche ulteriore richiesta il suo lavoro si sarebbe allungato, avrebbe dovuto compilare altri moduli, fare altre domande, chiedere autorizzazioni e francamente non ne aveva alcuna voglia.
Assam Ben Alì lasciò l’agenzia 12 della banca equa e solidale visibilmente soddisfatto: aveva ottenuto il mutuo, l’indomani la cifra, tradotta in valuta islamica, sarebbe stata disponibile ed entro pochi giorni avrebbe potuto acquistare casa. Anche Giovanni Bertini era soddisfatto. Guardò con un certo compiacimento la pratica appena conclusa: tanti bei moduli compilati con ordine e, posta sopra tutti gli altri fogli, la delibera di accettazione. Mancava solo la firma del direttore ma si trattava di una mera formalità. La pratica di mutuo in realtà consisteva nell’esame dei documenti che provavano che il richiedente era un immigrato e proveniva da paesi qualificati come non-occidentali. Una volta appurato questo la richiesta di mutuo veniva accolta, sempre.

“Vieni pure avanti” disse Laura Conti a Giovanni che aveva bussato con discrezione alla porta del suo ufficio.
“Ho una delibera di mutuo da farti firmare”
“Bene, fammi vedere”
Laura Conti osservò con occhi professionali i documenti che Giovanni le aveva messo sulla scrivania. Per alcuni minuti tacque, tutta presa dall’importanza del suo lavoro.
“Si direi che va tutto bene” disse regalandogli un sorriso, poi senza ulteriori indugi firmò la delibera.
Laura Conti dimostrava qualche anno in più dei ventuno che aveva. Magra, i capelli biondi tagliati molto corti, piacevole, addirittura elegante nella sua divisa blu di direttore, era estremamente conscia dell’importanza del suo ruolo. I direttori di medio livello erano nella stragrande maggioranza molto giovani, tutti sotto i venticinque anni, qualcuno addirittura sotto i venti e le donne superavano nettamente il cinquanta per cento. La società nuova non poteva dar spazio agli anziani, che, chi più chi meno, avevano avuto esperienza diretta degli anni oscuri. La nuova classe dirigente doveva essere composta da giovani, ragazzi con la mente sveglia, pulita, non corrotti dalla precedente organizzazione sociale.
Laura era cortese con Giovanni come con tutti, ma si trattava di una cortesia puramente formale, fredda. La cosa più importante, per lei come per tutti coloro che ricoprivano cariche direttive, era osservare le regole.
“Ho visto che dovrai svolgere altri lavori socialmente utili” disse a Giovanni con espressione seria.
“Si, dovrò svolgerli..” Giovanni stava per dire “purtroppo” ma si frenò in tempo. Stava davvero invecchiando, non riusciva a controllare le parole e questo poteva diventare estremamente pericoloso.
“Hai qualche preferenza?” chiese il suo capo.
“Ma.. non saprei, potrei partecipare ai preparativi per la festa della pace”
“Era proprio quello che stavo per proporti, farò oggi stesso la segnalazione”.
Non era una cattiva scelta, partecipare ai preparativi per la festa della pace e della solidarietà fra i popoli dava diritto ad un discreto abbuono di punti. Certo, comandare un’altra esecuzione capitale sarebbe stato più vantaggioso, ma sinceramente non aveva voglia di ripetere l’esperienza del giorno prima, non così presto almeno.
Tornò al suo ufficio. Prima che la giornata finisse aveva terminato le pratiche di altri tre mutui sociali.




CAPITOLO TERZO

Giovanni Bertini aveva 58 anni. Nato nel giugno del 1997 era ormai un uomo fatto quando il mondo occidentale era entrato nella fase finale della sua crisi. Aveva avuto esperienza diretta degli anni oscuri ed era stato testimone degli sconvolgimenti che avevano portato alla affermazione della società dell’amore. Giovanni non era più giovane e questo era per lui insieme un grande vantaggio, un terribile pericolo ed un tormento. Era un uomo ancora abituato a pensare, non accettava acriticamente tutto ciò che la propaganda propinava a tutti ogni giorno, ogni ora, in maniera martellante. Per i più giovani, quelli che erano nati quando la nuova società si era ormai consolidata, era abbastanza facile mettere a tacere il cervello, evitare di analizzare la coerenza di quanto le autorità affermavano o di confrontare le loro affermazioni con la realtà. Il buon cittadino, il fratello di tutti i suoi simili, non analizzava, non confrontava affermazioni e realtà, si limitava a reagire alle parole. Parole come “sociale” o “naturale” o “pace”, verbi come “aiutare” o “prendersi cura” bastavano a far scattare nella mente del buon cittadino entusiastici sentimenti di approvazione, altre parole come “sfruttamento” o “egoismo” o “guerra” provocavano al contrario immediati fortissimi sentimenti di repulsa. Se le autorità avessero accusato un contadino di “sfruttare la terra” subito migliaia di fratelli avrebbero preso ad odiarlo o, quanto meno, il malcapitato avrebbe suscitato diffusi sentimenti di diffidenza e disapprovazione. Se dello stesso contadino le autorità avessero invece detto che si “prendeva cura della terra” egli sarebbe stato circondato da unanimi sentimenti di simpatia e di approvazione. Nella società dell’amore il linguaggio stava sempre più perdendo ogni legame con la realtà, le parole non rimandavano più alle cose, servivano quasi esclusivamente da stimolo per i sentimenti. Certo, gli esseri umani erano ancora capaci di ragionare. Se qualcuno avesse chiesto ad un gruppo di buoni cittadini come doveva essere trattato uno “sfruttatore della terra” ci sarebbero state risposte diverse. Qualcuno avrebbe detto: “va punito con la morte”, altri avrebbero optato per il carcere o per la rieducazione e ognuno avrebbe saputo argomentare in maniera ragionevole la sua proposta. Sul fatto che uno sfruttatore della terra andasse punito non ci sarebbe stata però divergenza alcuna. Il termine “sfruttatore” indicava per definizione un essere abietto, “sfruttare” era qualcosa di moralmente riprovevole al di à del fatto che ad essere sfruttati fossero esseri umani, animali, la terra o le risorse del pianeta. Questa reazione immediata, istintiva alle parole riusciva assai bene ai giovani, riusciva molto meno bene a chi, come Giovanni, giovane non era più.
Non c’era da stupirsi della cosa. Giovanni aveva vissuto in una società in cui esisteva ancora la libertà di parola, in cui era possibile scambiarsi idee, opinioni. Il mondo in cui Giovanni aveva vissuto la sua giovinezza era ben lungi dall’essere perfetto, era al contrario tormentato da problemi gravissimi, ma era per lo meno un mondo in cui la logica aveva ancora un senso e in cui i fatti avevano ancora importanza. Nel primo decennio del nuovo secolo l’irrazionalismo si stava espandendo a macchia d’olio in occidente ma era ancora diffuso a livello di massa un rude buon senso capace in qualche modo di arginarlo. Giovanni si era formato in quegli anni e non riusciva a reagire alle parole come facevano i buoni cittadini, specie quelli giovani. Non provava simpatia verso una persona per il solo fatto che proveniva da una cultura diversa, né riusciva davvero ad indignarsi se a qualcuno veniva voglia di mangiarsi un bel pollo arrosto. Giovanni era quello che negli anni oscuri si sarebbe definito un uomo normale, quindi era un alienato, un individuo mentalmente instabile, potenzialmente pericoloso.
Dentro di se Giovanni era fiero della sua diversità, si considerava superiore, si, superiore, era capace di pensare quella parola proibita, ai cittadini modello, ai tantissimi ragazzi che pieni di entusiasmo dirigevano fabbriche ed uffici. Ma questa sua consapevolezza lo riempiva di terrore. Sentiva la sua diversità e sapeva che gli altri la sentivano. Non era troppo capace di simulare, di nascondere i suoi pensieri. Ultimamente gli era capitato troppo spesso di tradirsi, di usare termini proibiti, farsi sfuggire frasi compromettenti. Quanto era accaduto in ufficio con Assam Ben Alì era ad esempio imperdonabile: rischiare di offendere un islamico poteva costargli carissimo. Ma non era solo la paura a tormentare Giovanni. Essere capace di pensare con la propria testa lo riempiva di soddisfazione, ma era anche fonte di una angoscia tormentosa. Se solo fosse stato capace di accettare acriticamente tutto quanto lo circondava avrebbe vissuto meglio. Comprendere l’assurdità di quanto succedeva intorno a lui lo deprimeva. Lo deprimeva anche perché non poteva parlarne con nessuno, perché gli altri sembravano non rendersi conto di nulla. Ciò che per lui era follia appariva a chi lo circondava qualcosa di pienamente accettabile, di ovvio addirittura. Forse non era così per tutti, ogni tanto gli sembrava che qualcuno dentro di se provasse sentimenti simili ai suoi, ma poi si ricredeva, comunque non osava cercare di stabilire un contato, aprire un discorso; no, non poteva farlo, il rischio era troppo grosso. Paura e tormento si rafforzavano a vicenda e Giovanni si sentiva irrimediabilmente solo.

Si guardò allo specchio mentre si infilava una vecchia e comoda felpa. Un tempo Giovanni era stato un discreto uomo, ora… ora era tutto meno che bello. Il volto era magro, con la pelle delle guance e del collo che gli cascava floscia. Aveva le borse sotto gli occhi scuri, i capelli bianchi si erano fatti radi. Era magro, naturalmente. Le spalle ossute e cascanti davano l’impressione della fragilità, il petto era incassato,la schiena leggermente curva. Dimostrava più dei suoi 58 anni, o meglio, dimostrava molti più anni di un suo coetaneo che aveva vissuto negli anni oscuri, ma era del tutto simile agli ultra cinquantenni del suo tempo. A parte poche eccezioni non esistevano begli uomini, o belle donne, nella società dell’amore.
“Ciao Giovanni, dovrai preparati la cena da solo, io esco”
Qualche bella donna c’era ancora nella società dell’amore e Simona Martini era certamente una di queste. Non era bella, era decisamente molto bella. Era più alta della media e aveva un bel fisico pieno, muscoloso quanta basta per rendere una donna attraente e sensuale. E Simona era certamente attraente. Era pressoché impossibile per Giovanni guardare il suo seno sodo e le gambe ben tornite senza che gli venissero in mente pensieri sconvenienti. Il volto di un’ovale perfetto, circondato da lunghi e morbidi capelli biondi sembrava avere una vaga espressione erotica, in singolare contrasto con l’aria ingenua che assumeva a volte quando lo guardava fisso con i suoi grandi occhi azzurri. Averla in giro per la casa era per Giovanni un autentico tormento, ma anche una fonte di speranza.
“E, dove vai?” Giovanni si pentì subito di quella domanda.
“Ecco, vedi? Sotto sotto sei geloso. Parli, cerchi di mostrarti diverso, ma non riesci a rinnovarti davvero, a rinnovarti in maniera profonda, radicale. Tutto quello che fai resta alla superficie, non entra nel profondo..”
“Ma no, volevo solo chiedere, così, pura curiosità”
“Su Giovanni, non mentire e.. non avere paura, non ho certo intenzione di denunciarti. Del resto lo sapevo che con te ci sarebbe stato da lavorare molto”
“Beh.. ormai è più di un anno che sei mia moglie, che lavori su di me”
“E ti sembra un periodo lungo? Ti sembra che un anno basti? Se davvero bastasse un anno il tuo caso sarebbe senza speranza, visto che in un anno non sei cambiato molto... ma tutti sappiamo che le cose sono più complicate, che il tempo che occorre è maggiore”
“Si, lo sappiamo tutti, compresi tu e io”
“Su, non fare quella faccia” disse Simona. “Me ne accorgo sai? Tu cerchi di collaborare, solo, non ci riesci..”
Un largo sorriso illuminò il volto di Giovanni. “Si, io ce la metto tutta, ho un grande desiderio di migliorare, di cambiare..”
“Ma, questo peggiora le cose, lo vedi anche tu” ribatté pronta Simona. Non sorrideva ora, il suo viso aveva assunto una espressione professionale, quasi dura. “Il vecchio modo di pensare, di sentire tu te lo porti talmente dentro che anche con tutta la buona volontà non riesci a cambiarlo, sarebbe quasi meglio che ammettessi di non voler collaborare”
Giovanni si rese conto di aver di nuovo sbagliato. Maledizione! Continuava a parlare, a pensare come un tempo. Gli veniva naturale pensare che se qualcuno dimostrava buona volontà nell’emendarsi dovesse riscuotere quanto meno un po’ di simpatia. Le cose invece erano ormai del tutto diverse: contavano i risultati, non le intenzioni. Lo attraversò un brivido di paura.
Simona gli sorrise di nuovo. “Dai, non fare quella faccia, e, non temere, io non ho alcuna intenzione di arrendermi, il mio lavoro continuerà, il nostro lavoro..”
“Si e le cose miglioreranno, vedrai”
“Lo spero. Beh, devo andare ora se no arrivo tardi alla riunione del collettivo femminista.”

Il breve dialogo con la moglie educatrice che il partito gli aveva assegnato aveva molto innervosito Giovanni. Era più di un anno ormai che quella cosa ridicola e crudele andava avanti. Erano marito e moglie ma lo scopo del matrimonio nella società dell’amore era ben diverso da quello di un tempo. I coniugi non dovevano condividere un progetto di vita, porsi obiettivi comuni, avere dei figli ed educarli. Questo poi sarebbe stato intollerabile: i bambini che nascevano ancora in maniera tradizionale, cioè che non venivano clonati o concepiti in provetta dalla commissione per lo sviluppo demografico, venivano tolti ai genitori in età tenerissima ed allevati in grandi istituti di educazione sociale. L’educazione oltre che la riproduzione della specie erano un fatto pubblico, collettivo, da sottrarre all’arbitrio dei singoli. Lo scopo principale del matrimonio era quello di migliorarsi. I coniugi dovevano aiutarsi vicendevolmente ad emendarsi dai loro difetti e a diventare buoni cittadini. Più che un compagno di vita un coniuge era l’educatore, il maestro e la spia dell’altro. Nel caso di Giovanni tuttavia le cose erano un po’ diverse. Simona era certamente un’ottima cittadina, membro di numerosi comitati di controllo sociale aveva addirittura diritto ad una dieta diversa da quella della gran maggioranza dei normali esseri umani; c’era chi mormorava che avesse anche il permesso di guidare un’automobile, ma Giovanni non la aveva mai vista al volante di un’auto e lei non gli aveva mai detto nulla. Nel suo matrimonio era solo lui a dover essere migliorato, solo lui a doversi emendare, solo lui a rischiare una denuncia ed anche solo lui a potere sperare.
Sperare, si, sperare che lei riconoscesse i suoi passi avanti e lo premiasse, un giorno. Il sesso non era escluso dal suo matrimonio, anzi, era l’ambita ricompensa per i miglioramenti che lui avesse fatto registrare. Naturalmente Simona non aveva mai acconsentito a concedersi a lui, anzi, i goffi tentativi che Giovanni metteva ogni tanto in atto per “conquistarla” erano interpretati come prova del perdurare in lui di una mentalità sessista e maschilista. Da oltre un anno Simona giocava con lui come il gatto col topo, alternava atteggiamenti duri e velate minacce a piccole manifestazioni d’affetto e ad ancora più velate promesse. Giovanni era stretto fra il timore di un rapporto negativo alle autorità, addirittura di una denuncia e la speranza di un rapporto sessuale con Simona, qualcosa di assolutamente meraviglioso, inaudito per un uomo come lui.
Giovanni avrebbe voluto che Simona non abitasse con lui, tra l’altro la sua presenza lo costringeva a dormire in uno scomodo divano letto situato nell’ingresso della piccola abitazione che il partito gli aveva assegnato. Però, “però, se un giorno si convincesse che davvero mi sto emendando? O se pensasse che concedendosi a me può aiutare il mio recupero?” Pensieri come questo avevano un effetto sconvolgente su Giovanni, riaccendevano in lui qualcosa che da tanti anni non sentiva, gli rendevano per pochi minuti bella e dolce la vita. Solo per pochi minuti però, perché poi l’intelligenza aveva il sopravvento: “No, Simona non si concederà mai a me, lei, il partito vogliono fartelo credere, tutto qui. E poi, che razza di pretese hai, come puoi pensare che una come Simona possa avere anche il minimo interesse per un uomo come te? Far l’amore con te sarebbe per lei qualcosa di disgustoso…” Su questo non aveva dubbi: il sentimento più positivo che una ragazza come Simona poteva provare per lui era la pena. Era dura da accettare ma era così, era qualcosa di normale, di molto naturale.

Mentre cercava di addormentarsi gli venne in mente Luisa, la sua vera moglie. Luisa, una donna minuta, dolce che lo amava profondamente, soprattutto la donna che gli aveva dato due figli. Era morta da tanto tempo, nella fase finale della guerra civile che per anni aveva squassato l’Europa, e non solo.
Stava passeggiando con lei ed i bambini nel centro di Milano, era un bel pomeriggio di primavera, una di quelle belle giornate che rendono piacevole la vita e riescono a far apparire accettabili anche le rovine. Milano era stata dichiarata zona pacificata da alcune settimane e loro si erano azzardati ad uscire di casa.
Camminavano per le strade semideserte nel centro di una città ridotta ad un gran cumulo di macerie. I bambini erano allegri, strillavano, giocavano fra loro, malgrado i genitori cercassero di impedirglielo si arrampicavano sui cumuli di detriti scherzando e ridendo.
“Giovanni, guarda dove si sono cacciati” disse Luisa al marito, visibilmente preoccupata.
I due bambini avevano “scalato” una montagna di detriti alta molti metri e ridevano visibilmente soddisfatti per la loro impresa.
Prima che Giovanni potesse precederla Luisa aveva iniziato ad arrampicarsi ed in pochi minuti aveva raggiunto i discoli in cima alla “montagna”. Li aveva rimproverati aspramente e poi, presili per mano, aveva iniziato con loro la discesa. Erano quasi giunti al livello della strada quando l’esplosione li aveva travolti. Poi si disse che avevano calpestato una mina inesplosa ma nessuno indagò per appurare la verità sul disastro, a nessuno importava conoscerla. Luisa ed i piccoli erano solo altre tre vittime di una guerra che aveva mietuto una quantità enorme di vite umane. Quanto a lui, Giovanni, non è che sapere cosa aveva distrutto il suo mondo fosse tanto importante, la cosa davvero importante era che perdendo Luisa ed i piccoli egli perdeva tutto ciò che per lui contava, che dava un minimo di senso alla sua vita.
I sensi di colpa per quanto era avvenuto lo avevano perseguitato per anni: avrebbe dovuto essere lui a salire su quel maledetto mucchio di detriti per recuperare i bimbi. Poi divenne rassegnato, apatico. Oggi, a tanti anni dalla sciagura riusciva a ripensarci con distacco. Che vita avrebbero mai avuto Luisa ed i bambini se fossero sopravissuti? Forse la morte non era poi il male peggiore, forse la cosa peggiore di tutte era la vita che lui stava conducendo. C’era qualcosa di bello nel vivere come lui viveva, come Luisa avrebbe vissuto se quella esplosione non l’avesse uccisa? E cosa sarebbero diventati i suoi figli? Giovani disadattati o fanatici, fanatici pericolosi come Marco Ponzi? Si, il vero incubo era la vita, non la morte.. “forse l’unica soluzione è visitare una stanza della fine serena” pensò, e su quel pensiero rilassante iniziò a prendere sonno.

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