sabato 22 giugno 2013

IL SACCHEGGIO E LA GUERRA DI CLASSE



Russia, primavera del 1919, siamo in pieno comunismo di guerra. Il 13 Maggio 1919 compare sul “Notiziario del consiglio dei deputati operai di Odessa” il seguente annuncio: “La giornata odierna, 13 maggio, è stata decretata giorno di espropriazione della borghesia. (…) Le classi possidenti dovranno riempire un questionario dettagliato, elencando i prodotti alimentari, le calzature, gli abiti, i gioielli, le biciclette, le coperte, le lenzuola, l'argenteria, il vasellame e altri oggetti indispensabili al popolo lavoratore (…) Tutti devono assistere le Commissioni di espropriazione in questo sacro compito (…) Chi non obbedirà agli ordini delle Commissioni di espropriazione sarà arrestato immediatamente. Chi resisterà verrà fucilato sul posto”.
Un episodio, uno dei tanti e neppure fra i più gravi, eppure estremamente significativo di un modo di pensare, di rapportarsi ai problemi economici.
Ci si può rapportare all'economia e ai suoi problemi in due modi.
Il primo è quello di cercare di
accrescere la produzione di ricchezza. Per farlo occorre incentivare i produttori a lavorare nella maniera più efficace ed efficiente possibile, aprire e snellire i canali del commercio e del credito, invogliare chiunque ne abbia le possibilità ad investire.
Il secondo è quello di
appropriarsi della ricchezza già prodotta per redistribuirla o comunque utilizzarla a fini che l'autorità politica ha stabilito.
Sappiamo bene quale fu a suo tempo la scelta di Lenin e del suo governo: feroci requisizioni nei confronti dei contadini, con conseguenti carestie, militarizzazione del lavoro,
proibizione del commercio privato, razionamento. Dopo la breve pausa della NEP questa linea fu ripresa ed amplificata fino al parossismo da Stalin, con conseguenze umane, sociali ed economiche devastanti.

La politica degli espropri e delle requisizioni può essere paragonata al
saccheggio:non produrre ricchezza, toglila a chi la ha già prodotta”, in particolare, nelle condizioni della Russia sovietica, ai contadini (altro che “borghesia e “classi possidenti”!). A parte tutte le obiezioni che è possibile fare sul piano etico alla pratica del saccheggio, è fin troppo chiaro che tale pratica è assolutamente inefficace sul piano economico. Si può saccheggiare l'altrui ricchezza solo se qualcuno la ha prodotta. Il saccheggio ha comunque bisogno della produzione, non può sostituirsi ad essa. Saccheggiare la gente vuol dire farla smettere di  lavorare e produrre. E' quanto avvenne in Russia coi contadini. Espropriati di tutti o quasi i frutti del loro lavoro, si tramutarono da produttori in orde di affamati che cercavano disperatamente di dare l'assalto ai magazzini in cui il loro grano era stato rinchiuso, quando non era lasciato a marcire al sole, protetto però da guardie armate. L'agricoltura della Russia sovietica non si sarebbe più ripresa da una simile follia.
Inoltre, anche a prescindere dalla corruzione e dalle ruberie inevitabilmente connesse al sistema del saccheggio (la gran parte dei beni sottratti ai “possidenti” non andavano al “popolo lavoratore” ma ai membri delle “commissioni di espropriazione”), anche a prescindere da questo, è fin troppo chiaro che la politica del saccheggio non migliora in alcun modo la condizione dei meno abbienti. Le condizioni di un operaio russo, inquadrato nelle squadre di lavoro forzato ideate da Trotskij, non sarebbero migliorate, neppure di pochissimo, se sua moglie avesse avuto un anello espropriato ad una “possidente”, o se a lui fosse stato consegnato un paio di mutande, (di quale taglia?) usate fino a poco tempo prima da un “borghese”. Quanto ai generi alimentari, davvero si poteva pensare che del pane o della carne sottratte alle mense dei “ricchi” potevano risolvere il problema della fame endemica delle campagne e delle città? La politica del saccheggio poteva avere conseguenze solo
politiche: poteva servire a terrorizzare i nemici, veri o presunti, della dittatura bolscevica, sul piano economico aveva conseguenze tutte e solo negative.

Le requisizioni erano strumento di lotta sociale e politica, oltre che rozzo e fallimentare tentativo di risolvere i problemi economici; ma si trattava di uno strumento di lotta che aveva alle spalle una concezione ben precisa dell'economia e della società. Secondo tale concezione i problemi economici potevano essere risolti solo in un'ottica di guerra di classe, ed i comportamenti delle classi considerate nemiche erano tout court assimilati a crimini. La resistenza contadina alle requisizioni veniva in questo modo considerata un crimine da punire con inaudita spietatezza, ma eguale spietatezza veniva riservata a tecnici, impiegati, strati di piccola e media borghesia (non parliamo degli ex imprenditori); gli stessi operai che si opponevano alla militarizzazione del lavoro o che osavano scioperare per salari non da fame erano considerati “nemici dello stato proletario” e trattati di conseguenza. La riduzione dell'economia alla politica, e della politica alla guerra di classe metteva il partito bolscevico in guerra contro la società nel suo complesso. Si trattava però di una società disgregata, priva di rappresentanza politica, quindi incapace di organizzare una risposta unitaria. Il partito al potere era l'unica forza organizzata in un oceano di disgregazione sociale. Questo spiega la sua vittoria sulla società. Amara vittoria, pagata ad altissimo prezzo da interi popoli.

Non voglio fare ridicoli confronti fra la Russia di Lenin e Stalin e l'Italia di oggi. Simili confronti sarebbero, fra le altre cose, offensivi per le innumerevoli vittime del comunismo sovietico, e non solo. Esistono però, nel panorama politico e culturale (si fa per dire) dell'Italia, e forse anche dell'Europa, odierne idee, sentimenti, prese di posizione che ricordano in qualche modo la filosofia politica di Lenin e dei primi bolscevichi.
Non si trovano i soldi per pareggiare il bilancio? Si metta una bella tassa sulla casa; Cipro è troppo indebitata con banche estere? Si confischi una parte del denaro dei correntisti, non si sa come risolvere il problema degli esodati, creato da un ministro pasticcione? Si imponga a tutti, o ad alcuni, una tassa
di solidarietà. Tutto questo non è certo saccheggio ma risponde ad un'ottica che gli si avvicina, in qualche modo: non si riesce a produrre ricchezza, quindi si mettono le mani sulla ricchezza già prodotta, che poi questo non risolva nulla, anzi, aggravi tutti i problemi, è secondario.
Ed ancora. L'ex leader Monti che dichiara che lo stato è in guerra, si ha usato proprio questo termine:
guerra, con gli evasori; il dottor Ingroia che propone tranquillamente l'esproprio di tutti i patrimoni dei presunti evasori, lasciando loro, bontà sua, sei mesi per dimostrare la loro innocenza (è il sospettato a dover dimostrare di essere innocente, interessante); Equitalia che mette all'asta la casa di chi ha un debito col fisco anche di poche migliaia di euro, tutto questo prefigura una concezione del rapporto stato cittadini che non è quella democratico liberale. Una concezione per cui i cittadini, o certe categorie di cittadini, sono nemici da battere, non persone che hanno doveri, certo, ma anche diritti, persone che se in difficoltà è interesse di tutti aiutare, non spingere alla disperazione. Si leggano con attenzione le dichiarazioni di un Ingroia o di un Grillo, di una Rosy Bindi o di un Vendola e si vedrà che la loro concezione del rapporto fra stato e cittadini è una concezione di tipo bellico. Un sindacalista, non ricordo ora quale, ha affermato negli scorsi giorni che la disoccupazione è un “crimine contro l'umanità”; Grillo usa continuamente una terminologia militare (arrendetevi e sarete risparmiati), Vendola e Rosy Bindi parlano in continuazione di parassiti e speculatori da colpire. Tutti sono alla costante ricerca di un nemico da battere, non delle misure per far funzionare quel meccanismo delicato e complesso che è un sistema economico. Non si tratta però di nuovi Lenin, questo deve essere chiaro. Manca a queste mezze figure della italica politica il fanatismo coerente di un Lenin, ma mancano loro anche, diciamolo pure, le palle di un Lenin, la capacità di rischiare tutto essendo pronti anche a pagare di persona, e a prezzo assai caro. Gli italici radicali dei nostri giorni sono persone sempre presenti nei salotti bene come in TV, godono di invidiabili redditi, girano il mondo in business class a spese dei contribuenti. Se il colpo di mano dell'ottobre del '17 fosse fallito Lenin rischiava la pelle, la breve avventura politica di Ingroia gli è costata un... trasferimento in Valle d'Aosta (è tanto bella la valle d'Aosta, perché rovinarla?). I radicali italiani, ed europei, sono rivoluzionari da operetta, o da comiche finali, molto ma molto meno pericolosi dei Lenin, dei Trotskij o dei Robespierre che a volte cercano di scimmiottare. Non meritano di essere odiati, ma neppure meritano il rispetto che è invece, forse, dovuto ai grandi e tragici campioni del fanatismo.

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