
Detesto il fanatismo,la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero.
E’ uno degli argomenti “forti” dei propal: i numeri.“Sono morti meno
di 2.000 israeliani e oltre 50.000 palestinesi e questo la dice lunga
sulle ragioni e sui torti del conflitto”: questo più o meno il
loro “argomento”.Si tratta con tutta
evidenza di una siderale idiozia. Non solo prende per buone l le
incontrollabili cifre fornite da Hamas ma instaura una ridicola
equivalenza fra torti e ragioni di un conflitto da una parte e numero
dei caduti dall’altra. Ragionando (si fa per dire) in questo modo
la Germania nazista avrebbe avuto nella seconda guerra mondiale
enormemente più ragioni della gran Bretagna, visto che ha avuto un
numero di caduti quasi 30 volte superiore. Ma… lasciamo
perdere, prendiamo per buono questo pseudo argomento, concentriamoci
pure sui numeri.
Lo abbiamo visto
tutti: in occasione della liberazione di alcuni ostaggi i
“palestinesi” di Hamas hanno preteso la liberazione di oltre 100
terroristi palestinesi per ogni ostaggio liberato. In molti casi
hanno preteso più di 100 palestinesi vivi per restituire agli
israeliani il corpo senza vita di un ostaggio assassinato. Il
rapporto è stato di uno a 100, forse di uno a 120 o 150.
Negli attacchi del 7
ottobre sono morti circa 1.300 israeliani, tutti civili, inermi,
disarmati: giovani che ballavano, donne, bambini, vecchi.Ebbene, secondo il
rapporto, stabilito da Hamas, in base al quale sono stati liberasti
un certo numero di ostaggi questi 1.300 israeliani assassinati
dovrebbero valere come minimo 130.000 palestinesi, probabilmente
molti di più. In ogni caso, anche prendendo per buone le
inattendibili cifre fornite da Hamas sui caduti palestinesi siamo
ancora ben lontani da una cifra simile.
La mia è solo una
provocazione ovviamente: nulla è tanto rivoltante quanto la macabra
contabilità sui cadaveri che i propal fanno continuamente, ma è una
provocazione che ne mette in risalto la cattiva fede, l'intollerabile
disonestà intellettuale. Non fanno altro che confrontare il numero
dei morti, ma diventano ciechi, sordi e muti di fronte allo
spettacolo indegno di centinaia di terroristi liberati in cambio
spesso di qualche corpo senza vita restituito a persone in lacrime.
Anche quelli sono
numeri! O no?
Sopra
ho parlato del numero dei caduti nella guerra di Gaza riferendomi al
demenziale rapporto di uno a 100, addirittura uno a 150 richiesto da
Hamas in occasione del rilascio di alcuni ostaggi (per inciso,
prendere civili in ostaggio è ufficialmente un crimine di guerra).
Torno sull’argomento
“numeri” affrontandolo da un altro punto di vista: quello del
TEMPO. Il sette ottobre i
tagliagole di Hamas hanno ucciso, in un SOLO giorno, circa 1300
civili israeliani. Hanno colpito questi civili deliberatamente, non
si tratta delle vittime collaterali dei combattimenti, ma di persone
inermi finite nel mirino dei criminali proprio perché inermi. Hamas
non avverte i civili, non li invita ad abbandonare il luoghi dello
scontro, val la pena di sottolinearlo.In ogni caso, in un
SOLO giorno Hamas ha trucidato 1.300 israeliani, poi si è dovuta
fermare, non perché sazia di sangue, semplicemente perché la IDF ha
impedito ai suoi militanti di continuare la mattanza. Ora, 1.300
morti in un giorno vuol dire circa 40.000 in un mese, quasi 500.000
in un anno; certo, Hamas non ha raggiunto simili mostruose cifre, ma,
val la pena di ripeterlo, non le ha raggiunte solo perché NON in
grado di farlo, solo perché ha dovuto pensare a sfuggire agli
attacchi delle IDF, senza potersi concentrare su vecchi, donne e
bambini. Però… che
succederebbe se Hamas vincesse? Se la “Palestina” fosse “libera
dal fiume al mare” come strillano i propal? Cosa succederebbe se
Israele cessasse di esistere e di fronte ai tagliagole di Hamas
restassero solo inermi civili? Basta porsi una
simile, elementare domandina per capire CHI ha davvero in mente un
genocidio, chi dovrebbe essere oggi sotto accusa di fronte al mondo.
Ma tanti occidentali
“buoni” sono ciechi, sordi e muti, in molti casi stupidi, quando
c’è di mezzo Israele.
E’ giusto, doveroso il rispetto nei confronti di chi ha
attraversato la soglia che separa tutti noi dall’insondabile
mistero della morte. Gli strilli, le polemiche faziose, gli insulti,
sempre criticabili, diventano in simili occasioni del tutto
inaccettabili. Tutto questo però non implica che il discorso sulla
vita di chi ci ha lasciati debba trasformarsi in una sorta di osanna
apologetico in cui ogni considerazione critica viene bandita e la
discussione pacata ma rigorosa viene sostituita dalla retorica
ipocrita.
Lo dico col massimo rispetto ma anche con la massima
chiarezza: la mia valutazione sull’apostolato di papa Francesco è
e resta del tutto negativa.
Con lui è salita sul soglio di
Pietro qualcosa di simile alla teologia della liberazione: un
compromesso sincretistico fra cattolicesimo e marxismo che si traduce
in una sorta di populismo pauperistico in cui la povertà diventa
spesso, invece che un nemico da combattere, un valore da difendere,
contrapposta al “consumismo compulsivo” e al “Dio denaro”.
In
effetti, se si guarda con attenzione alla predicazione di papa
Francesco una cosa salta all’occhio: la profonda antipatia di
questo papa nei confronti della civiltà occidentale. Dalla guerra in
Ucraina a quella in medio oriente le critiche di papa Francesco sono quasi
sempre state rivolte, in maniera spesso assai aspra, contro l’occidente.
La crisi in medio oriente in particolare ha spinto Francesco su
posizioni che hanno fatto arretrare di decenni i rapporti fra
cattolicesimo ed ebraismo. Da un lato il papa ha detto più volte di considerare
il fondamentalismo islamico un fenomeno praticamente privo di radici
sociali e culturali, una cosa che riguarda solo pochi fanatici, dall’altro ha strizzato l’occhio a chi accusa di “genocidio” uno stato che da
quasi 80 anni lotta contro nemici spietati che hanno il solo scopo di
cancellarlo dalla faccia della terra.
Tutta la visione socio
economica di Francesco si riduce in fondo a quella che il grande
filosofo conservatore Roger Scruton ha definito “la fallacia della
somma zero”: esiste la miseria perché esiste la ricchezza, nel
mondo ci sono i poveri perché ci sono i ricchi che si appropriano
ingiustamente di gran parte delle risorse che madre natura ha messo a
nostra disposizione. Una concezione elementare dei meccanismi e dei
problemi economici, che lo stesso Marx avrebbe rigettato con sdegno.
Madre natura ci regala poco o nulla, per trasformare in risorse e
poi in ricchezza ciò che madre natura mette a nostra disposizione
occorre il lavoro, lo studio, la ricerca, l’innovazione
tecnologica. Storicamente il segreto della forza dell’occidente non
risiede nella sua capacità di conquista e saccheggio: in questo
altre civiltà sono state altrettanto o anche più forti: risiede
nella rivoluzione scientifica e industriale, nell’autonomia della
società civile, nella “scoperta” dei valori della libertà
individuale e poi della democrazia. Tutto questo manca nella visione
sociale ed economica di papa Francesco.
E questo tocca
profondamente altre parti del suo pensiero: l’atteggiamento ad
esempio dei confronti della, non si sa quanto reale e grave, crisi
ambientale. Su questo problema Francesco non solo ha sposato le tesi
dell’ecologismo più radicale e catastrofista, non solo ha accusato
di tutto, more solito, l’occidente dimenticando che non sono certo
i paesi occidentali a essere all’avanguardia nell’inquinamento
del pianeta, ha avallato, e questa per un credente è forse la cosa
più grave, la divinizzazione della natura, una sorta di
neopaganesimo oggi di moda in occidente che contrasta radicalmente
con la dottrina cristiana. Il cristianesimo, piaccia o non piaccia la
cosa, è antropocentrico: il cristiano rispetta e ama la natura, ma
la ama e rispetta perché frutto della creazione divina che ha
nell’uomo il suo culmine. Per il cristianesimo, e per una parte
importante del pensiero filosofico laico, l’uomo è un
ente “insulare”, parte della natura ma non SOLO natura, quanto
meno, parte della natura con caratteristiche che segnano uno iato
profndo nella natura stessa. Per larga parte del radicalismo pseudo
ecologico oggi di moda l’uomo è, nella migliore delle ipotesi,
solo una componete di qualche ecosistema, nella peggiore un fattore
di squilibrio e crisi. Su questo le posizioni di Francesco sono
sempre state quanto meno assai ambigue.
E ancora, assai poco
condivisibili restano le posizioni del papa ora scomparso sulle
migrazioni clandestine, o sul dialogo inter religioso; attenzione,
NON sulle conseguenze sociali, economiche e politiche delle
religioni, su questo il dialogo è del tutto accettabile, no, dialogo fra le religioni, come se si potesse discutere sui dogmi! Francesco
è giunto al punto di affermare che tutte le religioni credono nello
stesso Dio, divergendo solo sulle “vie” per raggiungerlo. Una
concezione rispettabile per un non credente come me, ma che, oltre a non essere, ad oggi, non
vera dovrebbe essere sostenuta da un deista, non dal vescovo di
Roma.
Non è il caso di prolungarsi ulteriormente, non è questa
di certo la sede per un discorso approfondito sul pensiero del papa
scomparso, né io ho la forza di farlo. Di certo nel suo apostolato
ci sono luci e ombre e nulla è tanto ipocrita quanto il plauso
apologetico di questi giorni.
Francamente non mi sembra che, coi problemi che abbiamo, sia troppo
serio accendere polemiche sul manifesto di Ventotene, vale anche la
pena di ricordare che a riesumare questo vecchio documento non è
stata Giorgia Meloni ma gli organizzatori della manifestazione “per
l’Europa”. Per quanto ovvio vale anche la pena di aggiungere che
persone come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati, appunto,
a Ventotene durante il fascismo sono degne del massimo rispetto,
questo però, è altrettanto ovvio, non significa condividere quanto
da loro scritto.
Quindi, cosa mai è scritto in questo famoso
“manifesto “ da alcuni promosso a carta fondatrice dell’Europa,
fondamento della democrazia, una sorta di emendamento alla
costituzione repubblicana? Personalmente mi limito ad esaminare
alcuni brani contenuti nel capito lo terzo: “i compiti del dopo
guerra la riforma della società”. Diamo quindi la parola al
“manifesto”.
“La rivoluzione europea, per rispondere
alle nostre esigenze dovrà essere socialista” afferma il
manifesto, “cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi
lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di
vita”.
Quindi rivoluzione socialista europea. Siamo però
ancora nel generico, visto che ormai il termine “socialista” può
significare un sacco di cose diversissime fra loro. Quali dovrebbero
essere le caratteristiche del socialismo di Spinelli e Rossi? La
risposta degli autori del manifesto è abbastanza chiara: il loro
socialismo europeo dovrebbe essere radicalmente diverso dal comunismo
sovietico staliniano.
“La bussola di orientamento per i
provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio
puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei
mezzi materialidi
produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata
solo in linea provvisoria” una simile impostazione porta infatti,
prosegue il manifesto, “alla costituzione di un regime in cui
tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati
gestori dell'economia, come è avvenuto in Russia”. Niente
collettivismo di stampo staliniano quindi. Viene da dire: meno
male!
La genericità però sembra ancora non superata, vediamo
di approfondire il discorso.
Il manifesto parte da una
considerazione generale, possiama definirla filosofica, da cui
discende, in maniera più o meno coerente, tutto il resto:
“l
principio veramente fondamentale del socialismo (…) è quello
secondo il quale le forze economiche non
debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro
sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché
le grandi masse
non ne siano vittime”.
Si comincia a far chiarezza:
nell’economia di mercato astratte leggi economiche dominano gli
esseri umani, occorre invece sottomettere quelle a questi. Sembra di
leggere le ben più profonde pagine di Marx dedicate al “feticismo
della merce”: da un lato astratte forze impersonali dall’altro
la volontà e la ragione degli esseri umani. Che le astratte leggi
del mercato siano il risultato dell’interagire di esseri umani
liberi, dei loro interessi, esigenze, valori è allegramente
dimenticato. La società aperta in cui è fondamentale la libertà
dei singoli è rappresentata come il regno della alienazione che
occorre sottoporre ad un controllo “razionale”. Grazie a questo
controllo, proseguono gli estensori del manifesto “possono trovare
la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici
oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei
paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica”.
L’anarchia
della società borghese in cui dominano impersonali leggi economiche
va sostituita da un controllo razionale esercitato in forme democratiche dal basso. Come una società in cui convivono
interessi, idee, valori profondamente diversi possa controllare
unitariamente “dal basso” l’economia nel suo complesso resta un
mistero. Gli estensori del manifesto neppure si chiedono come mai
tutti i tentativi di direzione centralizzata dell’economia si siano
risolti nella instaurazione di forme mostruose di totalitarismo
burocratico. Se vista in quest’ottica è molto indicativa
l’equiparazione che Spinelli e Rossi fanno fra le condizioni dei
lavoratori dei paesi occidentali e quella dei lavoratori sovietici.
Il manifesto è stato scritto nel 1941. A quel tempo milioni di
esseri umani languivano nei gulag staliniani; ridotti al rango di
schiavi lavoravano in condizioni mostruose e morivano a centinaia di
migliaia. In Ucraina la folle politica agraria di Stalin aveva
provocato la morte per fame di come minimo 5, alcuni dicono 10,
MILIONI di esseri umani. I lavoratori nord americani godevano invece
di un reddito fra i più elevati del mondo. Eppure per Spinelli e
Rossi si trattava di liberare “ENTRAMBI”, senza distinzione
alcuna, dall’oppressione. Molto, molto indicativo.
Ma
c’è un punto che mette bene in chiaro tutta la debolezza teorica e
le contraddizioni di questo manifeto considerato da alcuni la “summa”
del pensiero democratico e libertario, riguarda il diritto di
proprietà, vediamolo:
“La proprietà privata deve essere
abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente
in linea di principio.”
In tutte le democrazie occidentali
quello alla proprietà è uno dei diritti fondamentali. Certo, si
tratta di un diritto che, come tutti, va esercitato nell’ambito
delle leggi che lo regolano, ma sempre di diritto fondamentale si
tratta. Gli ordinamenti giuridici delle democrazie occidentali prima
fissano un diritto, lo definiscono, poi chiariscono come lo si debba
esercitare e, se necessario, elencano con la massima precisione i
casi in cui tale diritto può venire temporaneamente limitato. La
legge ad esempio, prima stabilisce il diritto alla inviolabilità del
domicilio (un caso particolare, a veder bene le cose, del diritto di
proprietà) poi enumera i casi in cui questo diritto può essere
temporaneamente limitato: ad esempio, se nella indagine relativa ad
un crimine emergono gravi indizi a carico del proprietario di un
immobile, questo può venir perquisito, dietro autorizzazione,
ovviamente, della autorità giudiziaria. Niente di tutto questo nel
famoso manifesto di Ventotene. In questo la proprietà privata può
essere oggi abolita, domani estesa, dopo domani limitata
drasticamente, così, a seconda dei casi o magari al variare delle
maggioranze parlamentari. Qualcuno potrebbe seriamente cercare di
acquisire delle proprietà in una simile situazione? Chi comprerebbe
una casa sapendo che fra un paio d’anni questa potrebbe essergli
espropriata se “la situazione” cambia?
Ma a cosa va a
parare , in concreto, questo guazzabuglio? Gli autori su questo sono
decisamente chiari:
“non si possono più lasciare ai privati
le imprese che, svolgendo un'attivitànecessariamente
monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei
consumatori (ad esempio
le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in
vita per ragioni di interesse
collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi,
sussidi, ordinazioni di
favore, (...) e le imprese che per la grandezza dei capitali
investiti e il numero degli operai occupati,
o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli
organi dello stato imponendo
la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie,
grandi istituti bancari,industrie
degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere
senz'altro a nazionalizzazioni
su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti
acquisiti”
Dietro le roboanti dichiarazioni contro i monopoli
o i “ricatti ai governi”, come se questi non potessero reagire
agli stessi, Spinelli e Rossi propongono nientemeno che la
nazionalizzazione, senza indennizzo, par di capire, di tutte le
aziende di grandi dimensioni. Una situazione caratterizzata da un
centralismo ancora più estremo di quello instaurato in Unione
sovietica al tempo della NEP e per certi aspetti simile a quello
della Germania nazista. Di nuovo, molto interessante.
Il
manifesto di Ventotene è vecchio di oltre 80 anni, teoricamente non
vale nulla e non ha oggi alcun valore pratico. Perché allora
polemizzare sullo stesso? Semplice, perché l’italica sinistra ha
alcune reliquie sacre e, incapace di dire cose convincenti sui
problemi veri del paese, ogni tanto le tira fuori dal sacrario e le
presenta a tanti militanti pieni di dubbi, un po' come l’ampolla del sangue
di San Gennaro. Non sappiamo che dire o diciamo autentiche oscenità
sui flussi migratori incontrollati, il riarmo, la pressione fiscale e
allora… oplà, ecco a voi il manifesto di Ventotene!
Giochetti
da fiera paesana, che servono solo a far calare ulteriormente il
livello del dibattito politico nel paese, già decisamente basso.