venerdì 22 novembre 2019

IL MANIFESTO DELLE SARDINE


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Le “sardine” hanno un manifesto. E' importante un manifesto. Si tratta di qualcosa che identifica un movimento, dice chiaro e tondo a tutti cosa quel movimento
è, cosa vuole, che obbiettivi si pone, come intende realizzarli. Il manifesto delle “sardine” fa in qualche modo qualcosa di simile? Espone un programma, una concezione del mondo, enumera una serie di obiettivi, si rivolge a determinate forze sociali, dice quali interessi intende tutelare e quali no? C'è in questo “manifesto” una qualsiasi analisi della società ed una previsione qualsiasi del suo movimento?
La risposta è chiarissima:
NO, in questo sedicente “manifesto” non c'è nulla, assolutamente nulla di tutto questo.

Chi sono le sardine? Perché nasce il loro movimento? Ecco come risponde il manifesto:

“ Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita.
Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata”.

Il movimento nasce da un sentimento soggettivo: loro, le “sardine”, si sono stufate. Per troppo tempo hanno subito la politica dei cattivi “populisti” (aperta parentesi: lo sanno le “sardine” che il populismo è storicamente un movimento di sinistra? Chiusa parentesi) per troppo tempo dicevo loro, le “sardine, hanno subito le (presunte) prepotenze dei “populisti" ed ora si sono stufate. La corda si è spezzata. Nessuna analisi socio economica, nessun richiamo a nessuna filosofia politica.
Alla base di tutto c'è l'esaurimento della loro pazienza. Se le “sardine” fossero state un po' più pazienti il loro movimento sarebbe nato fra due o tre anni, se lo fossero state un po' meno due o tre anni fa. Tutto dipende dalla loro capacità di sopportazione.
Quello che stupisce in tutto questo è come gli “intellettuali” del movimento delle “sardine” non si rendano conto che una simile motivazione potrebbe benissimo essere addotta da qualsiasi movimento politico. Con le stesse parole potrebbe nascere il movimento dei “tonni” di destra, o quello dei “calamari” di centro. “Per troppo tempo avete tirato la corda” potrebbe benissimo dirlo un seguace di Salvini a coloro che dipingono il loro leader come un mostro. Tutti possono essere stanchi di ascoltare idiozie, a tutti possono venire a noia le banalità da quattro soldi, i discorsi stereotipati, i linguaggi fatti apposta per parlare senza dire. Se le “sardine” sono stufe dei “populisti” questi possono essere stufi del mondialismo, del buonismo, dell'eurofanatismo, ed anche, dopo soli pochi giorni delle, “sardine”. Stufarsi è un diritto dell'uomo, ma non può essere la base di alcun movimento politico.

E' istruttivo confrontare l'esordio del manifesto delle “sardine” con l'esordio di un altro manifesto, che ha avuto un certo peso nella storia. Parlo dell celeberrimo “manifesto del partito comunista” di Karl Marx e Fiedrich Engels, del 1848.

“Uno spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo. (…)
E' ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alle fiabe dello spettro del comunismo contrappongano un manifesto del partito.”

Qui non troviamo nessun sentimento, nessuna “corda che si spezza”, nessuna pazienza che si esaurisce. E' letteralmente inimmaginabile un Marx che fa appello all'esaurirsi della sua pazienza per giustificare la nascita del movimento comunista.
I comunisti esistono e vogliono esporre il loro programma, così esordisce Marx. Detto questo il “manifesto” in effetti chiarisce la concezione comunista – marxista del mondo. Vengono esposte la concezione materialistica della storia, la teoria del valore e dello sfruttamento, si esaminano le differenze fra il comunismo marxiano ed altri tipi di comunismo, si fanno previsioni sul futuro della società capitalistica e si enumerano alcuni obiettivi immediati dei comunisti. Solo alla fine di tutto questo si lancia un avvertimento minaccioso alle “classi dominanti”: “tremino pure le classi dominanti davanti ad una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. Ed hanno un mondo da guadagnare”.
La minaccia deriva dall'analisi, è la conclusione di un discorso in cui gli obiettivi di un certo movimento vengono chiariti, i suoi valori dichiarati, i suoi referenti sociali evidenziati.
Personalmente non condivido affatto, in tutti i suoi punti essenziali, l'analisi marxiana, ma non ho alcuna difficoltà a riconoscerne l'importanza storica e filosofica. Soprattutto, il “manifesto” comunista è un
vero manifesto, espone sul serio una filosofia politica, una visione del mondo. Si articola sul serio in un programma.
Si può dire altrettanto per il manifesto delle “sardine”? Il solo chiederselo è ridicolo.

Le sardine definiscono se stesse in positivo, va loro riconosciuto, ma...
come lo fanno? Ecco come si definiscono:

Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”.

Chi ha scritto queste belle cose neppure immagina, probabilmente, che anche un “populista” può impegnarsi nel suo lavoro, amare lo sport, la casa, la famiglia, le cose divertenti, la bellezza, la non violenza, la creatività e l'ascolto. Anche un “populista” può insomma essere una “persona normale”. No, per le “sardine” un “populista” non è, per definizione, una “persona normale”, solo loro, le “sardine” lo sono. Gli altri sono “anormali”: esseri alieni, repellenti, mostri. Il “populista” è il non – uomo, esattamente come per Hitler era non - uomo l'ebreo ed erano non - uomini per Stalin i Kulaki da far morire di fame.
Alla luce di un simile settarismo manicheo i richiami alla “non violenza” ed all'”ascolto” si rivelano per quello che sono: miserabili, ipocriti espedienti per nascondere la natura violenta ed intollerante del proprio movimento.
Non violenza da parte di chi è, nella migliore delle ipotesi, amico dei centri sociali? Di coloro che strillano: “non sparate a salve ma a Salvini”?
Ascolto da parte di persone che sanno solo strillare slogan, e vogliono tappare la bocca a chi la pensa diversamente da loro?
C'è solo da ridere, o da piangere. O da vomitare.

Non a caso del resto il “manifesto” altro non è che una serie di insulti e di minacce, più o meno larvate.

“Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare. (…) Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete.
Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare”:

Si può essere o meno d'accordo con questa o quella misura di contrasto della immigrazione clandestina, ma “inorridire” di fronte alla pretesa che i confini di un paese siano difesi, e che in quel paese entri solo chi ha diritto di entrare é, questa si, una cosa che fa “inorridire”.
E denunciare, anche usando la rete, che qualcuno ti vuole “appeso a testa in giù” sarebbe “distruggere la vita delle persone sulla rete”? Per le sardine è lecito incitare la gente ad uccidere un certo leader politico ma questi diventa un criminale se rende note tali lodevoli intenzioni. Siamo di nuovo di fronte ad un settarismo sconfinato.

E, cosa ovvia, le “sardine” non si limitano ad insultare, minacciano:

“ Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. (…) siamo tanti, e molto più forti di voi.”
Minacce, come si vede, anche se espresse in tono allusivo, quasi in stile mafioso. Minacce che culminano in una affermazione di sorprendente, forse involontaria, sincerità:

avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare”.

Parole che lasciano senza fiato cui val la pena di dedicare un breve commento.
Tutti, dai “populisti” alle “sardine”, hanno diritto di parola. E nessuno, dalle “sardine” ai “populisti”, ha diritto di essere ascoltato se con questo si intende il diritto di obbligare qualcuno ad ascoltarlo.
Ma tutti i cittadini hanno il diritto, il sacrosanto diritto costituzionale, di poter ascoltare chi vogliono, senza che nessuno cerchi loro di impedirlo, con la violenza fisica o le pressioni psicologiche.
Scendere in piazza per protestare contro il diritto di parola di un leader politico e quello di ascolto di un certo numero di liberi cittadini significa comportarsi da squadristi. Che questi squadristi facciano uso della violenza fisica o di quella psicologica è qualcosa che ha grande importanza sul piano giuridico, molto poca su quello etico e politico.

Quanto al resto... il nulla. Il manifesto non dedica una parola ai grandi temi della politica. Non parla di lavoro, occupazione, pressione fiscale, pace e guerra, immigrazione, Europa, terrorismo... solo silenzio su quelli che sono i temi che toccano la vita delle persone davvero normali.
Pazienza. Tacere è un diritto dell'uomo. Le “sardine” se ne avvalgono, buon pro gli faccia.
Solo, val la pena di dare una pacata risposta alle loro minacce.
Care “sardine”, non scambiate lo spirito pacifico, dialogante, tollerante di tanti liberi cittadini per paura. I democratici liberali detestano la violenza, sia fisica che verbale, amano il dibattito e la discussione, non cercano risse. Preferiscono la pace alla guerra, il confronto allo scontro. Sono disposti anche a fare dei passi indietro pur di non compromettere la pace civile.
Ma non sono disposti a tutto. Non accettano farsi mettere il piede sul collo dagli squadristi, comunque mascherati.
Se aggredite anche le persone più tolleranti e pacifiche del mondo sanno difendersi.

sabato 16 novembre 2019

COSTITUZIONE: ARTICOLO 12 DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI

Una premessa, per quanto ovvia: sono lontanissimo da ideologie fasciste e comunque totalitarie di qualsiasi tipo. Punto e basta.

Ogni volta che qualche teppista cerca di impedire qualche comizio lo tirano fuori: l'articolo 12 delle disposizioni transitorie e finali della nostra costituzione.
Tralasciamo pure il fatto che quasi sempre le persone a cui si tenta di impedire di parlare tutto sono tranne che fasciste, a meno che il fascismo non venga definito nei termini che i teppisti vogliono. E tralasciamo pure il fatto che NON spetta di certo ai membri dei centri sociali, o ai giornalisti di “repubblica”, o ai signori Lerner o Saviano stabilire chi sia e chi non sia fascista e chi ha e chi non ha diritto di tenere comizi.
Ciò tralasciato, vediamo cosa dice questo famoso articolo:

“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”.

L'articolo NON vieta la costituzione di partiti che per ideologia, filosofia politica, richiami storici si richiamino alla esperienza fascista. Vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista.
Le due cose non coincidono.
I costituenti volevano evitare che venisse “riorganizzato”, sotto qualsiasi forma, quel certo partito, non che si costituissero partiti che potessero avere con questo alcune affinità. In termini più generali, la proibizione riguardava partiti che ponessero nel loro programma politico l'abbattimento violento del sistema democratico parlamentare, non richiami ad ideologie, valori, filosofie che potessero essere definite “fasciste”.
Non a caso, a mio parere, l'articolo 12 usa il termine “riorganizzare”: si riorganizza qualcosa che già esisteva, che è stato sciolto e che si vorrebbe far rivivere.
Sempre non a caso, e sempre a mio modesto parere, il secondo comma dell'articolo 12 pone per un periodo di 5 anni delle limitazioni al diritto di voto per i responsabili del regime fascista. Il punto di riferimento resta il partito fascista sconfitto nel 1945.
Che questa interpretazione sia corretta è provato dal fatto che la proibizione della riorganizzazione del “disciolto partito fascista” appare nelle disposizioni transitorie e finali della nostra costituzione e non all'inizio della stessa, fra i principi fondamentali. Si trattava di impedire che riprendesse vita un partito contro cui si era combattuta una guerra civile.

Questa interpretazione trova numerose conferme anche livello giudiziario.
La corte costituzionale, in una sentenza del 16 gennaio 1957, stabilì cosa si dovesse intendere per “apologia del fascismo”. Il reato di apologia non si verifica, per la suprema corte, nel caso di una mera difesa elogiativa, ma solo nel caso di una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista”. Si vuole impedire la riorganizzazione di un partito che miri alla distruzione della democrazia, non l'espressione di idee o giudizi storici. Del resto, il Movimento sociale italiano, che si richiamava abbastanza esplicitamente all'esperienza fascista, non fu mai messo fuori legge.
Giorgio Pisanò fondò nel 1990 il partito “fascismo e libertà”. Dovette affrontare vari processi perché accusato di aver ricostituito il disciolto partito fascista. Venne tutte le volte assolto. Con quale motivazione? Nel suo programma tale partito affermava di accettare senza riserve il sistema democratico parlamentare. Era in contraddizione con se stesso? Sicuramente SI, ma in un paese democratico essere in contraddizione con se stessi non implica essere imprigionati e neppure vedersi proibire la attività politica.

Non credo valga la pena di continuare. In una democrazia liberale, per lo meno in periodi normali, si puniscono le azioni, non le idee, meno che mai i sentimenti. Si sanzionano i reati, non i peccati.
A meno che non si attraversi un periodo eccezionale, una guerra ad esempio, una democrazia non mette fuori legge i partiti anti sistema, impedisce semmai agli stessi di mettere in atto quelle parti dei loro programmi che porterebbero alla distruzione della democrazia stessa.
Qualcuno potrebbe obbiettare: “le azioni nascono dalle idee, i reati dai peccati”.
Può essere vero, ma l'essenza del liberalismo democratico consiste nel saper fare distinzioni. Da un'opera di filosofia politica può nascere un programma politico e da questo azioni miranti a distruggere la democrazia. Tutto vero. Ma sarebbe criminoso e equiparare il trattato di filosofia politica con il programma politico e questo con le azioni che potrebbero derivarne. Se così fosse essere antifascisti ci dovrebbe spingere a vietare le opere di un Carl Schmitt, di un Oswald Spengler, magari di Nietzche e Giovanni Gentile. Ed essere anticomunisti dovrebbe indurci a vietare non solo gli scritti di Lenin e Trotzkij, ma anche quelli Marx ed Engels e, perché no, pure quelli di Hegel che è fra gli ispiratori di Marx. Una follia che trasformerebbe la democrazia liberale in un totalitarismo identico a quelli che si dice di voler combattere.
E se è vero che a volte i reati nascono dai peccati, non mi sembra molto liberale né garantista sbattere in carcere per “violenza” chi prova il desiderio di prendere a pugni il tal uomo politico o giornalista.
Lasciamo queste aberrazioni ai nuovi barbari totalitari e forcaioli. Personalmente preferisco continuare a far distinzioni, da vecchio democratico liberale fuori moda.

lunedì 11 novembre 2019

TRUCCHI LOGICI DA QUATTRO SOLDI

Esiste un metodo infallibile per avere ragione in una discussione. Basta modificare la definizione di un ente in maniera tale da farla coincidere con quanto si sostiene, dopodiché additare quell'ente come “prova” che quanto si sostiene è vero.
Facciamo un esempio.
Poniamo che io voglia dimostrare sulla terra ci siano moltissimi marziani pronti a conquistarci.
Definisco “marziano” ogni essere umano coi capelli biondi.
Dopodiché sostengo che la presenza sulla terra di moltissime persone bionde “prova” il fatto che milioni di marziani sono fra noi.
Coloro che sostengono che in occidente e più in particolare in Italia esiste un “pericolo fascista” operano più o meno nello stesso modo.
Prima definiscono “fascista” chi è contro l'immigrazione clandestina, non è eurofanatico, vuole che in Italia le leggi le faccia il parlamento italiano e non la commissione europea e cose simili.
Poi si fanno forti del fatto che moltissimi sostengono cose simili per “provare“ l'esistenza di un “pericolo fascista”.
Per essere ancora più chiari:
prima stabiliscono che chi vota lega è “fascista”.
Poi, a fronte del fatto che più di un terzo degli italiani vota lega, possono sostenere che in Italia esiste una “emergenza fascismo”.
A quel punto scattano i tentativi di imbavagliare la rete, di restringere la libertà di parola, si fa di tutto per impedire libere elezioni e dolcezze di questo genere.

Il trucco può essere usato anche al negativo, quando si vuole negare che un certo ente abbia determinate caratteristiche. In questo caso basta sostenere che se quel certo ente HA invece quelle caratteristiche non è “autentico”, “vero”.
Ad esempio, poniamo che io voglia sostenere che i leoni sono erbivori.
Mi si indica un leone che sta divorando una zebra.
Io sostengo: “quello non è un VERO leone”.
Così "dimostro" di avere ragione.
Usano spesso e volentieri questo trucco coloro che sostengono che l'islam sia una “religione di pace”, laica, tollerante e democratica
A coloro che parlano di terrorismo, lapidazione della adultere, decapitazione degli apostati questi signori rispondono che chi fa simili cosette non è un “vero” islamico.
E così possono dire di avere "ragione".
E anche in questo caso scatta a repressione. Chi non cade nella trappola, non si fa ingannare dal giochetto rischia di essere accusato di “islamofobia”, “razzismo”, “sciovinismo” eccetera.

E' ovvio che modificando a piacere la definizione degli enti e/o inventandosi, sempre a piacere, enti “veri” o “falsi”  si può "dimostrare" tutto ed il contrario di tutto: lo stupro della logica.
Ma non è lo stupro della logica la cosa più grave.
Ad essere grave è l'attacco alla democrazia, alla libertà di parola, alla libera espressione del pensiero oggi in atto.
Va contrastato con tute le forze, prima che sia troppo tardi.

lunedì 4 novembre 2019

LA GRANDE CARESTIA

La grande carestia. La guerra di Stalin all'Ucraina

Sul finire degli anni '20 Stalin decide la grande svolta. La NEP, nuova politica economica, deve essere abbandonata. Fino a quel momento Stalin era stato alleato col maggior sostenitore della NEP: Bucharin. Sconfitta, grazie anche a quella alleanza, l'opposizione interna di Trotckij, Zinov'ev e Kamenev il georgiano si rivolta contro il suo alleato e ha buon gioco a sconfiggerlo. Stalin domina ormai totalmente un enorme apparato burocratico e repressivo che i suoi stessi oppositori hanno contribuito a costruire e che ora li schiaccia con irrisoria facilità.
La NEP aveva dato buoni risultati, sia in campo industriale che agricolo riuscendo a riparare almeno alcuni dei danni provocati dalla folle politica del comunismo di guerra. Ma nella NEP è insito un pericolo, che già Lenin e Trotckij avevano visto bene: se spinta alle sue logiche conseguenze porta al rinascere dei rapporti di produzione capitalistici. Si tratta di un pericolo mortale, non per il popolo russo, ovviamente, ma per il partito bolscevico ed il suo immenso apparato. Stalin questo lo sa bene, e agisce di conseguenza. Eliminata l'opposizione interna scatena nelle campagne la guerra ai contadini. Inizialmente la sua furia è rivolta contro i “kulak”, i contadini “ricchi” secondo Stalin. In realtà bastava possedere un appezzamento un po' più ampio della media e un paio di mucche per essere definito “kulak”. Poi ad essere coinvolti sono i contadini nella loro quasi totalità. Si requisiscono i loro raccolti, senza lasciar nulla neppure per le semine. Poi le requisizioni si ampliano: tutto viene loro strappato: ortaggi, frutta, pollame, addirittura piatti, stoviglie, indumenti, spesso la casa. Nel contempo si cerca di obbligare i contadini ad entrare nelle fattorie collettive dove vige nei fatti il lavoro forzato. Vengono pagati con un po' di cibo; praticamente tutto il frutto del loro lavoro è requisito dallo stato. Questa politica criminale provoca una carestia in cui, secondo stime prudenziali, trovano la morte, nella sola Ucraina, circa 4 MILIONI di esseri umani. E' il tragico Holodomor, letteralmente “sterminio per fame”.
L'agricoltura sovietica entra in una crisi da cui non si solleverà più.
L'apparato repressivo dello stato assurge a dimensioni ciclopiche. Per spezzare la resistenza dei contadini li si sottopone a deportazioni di massa. Per impedire che orde di affamati si riversino nelle città in cerca di cibo si instaurano i passaporti interni. I contadini non possono entrare nelle città del loro stesso paese, muoiono di fame nelle strade e nelle ferrovie che conducono alle località urbane. Per bloccare i “furti” di grano e generi alimentari si decidono pene severissime. Il “furto” di un pugno di frumento o di una patata, se scoperto, porta spesso alla fucilazione, sempre ad anni di lavori forzati in Siberia. Il tutto ovviamente in nome di una “superiore” forma di libertà.

Il libro di Anne Applebaun, “La grande carestia”, Le scie, Mondadori 2019, costituisce una narrazione appassionata e scientificamente rigorosissima di questa immane tragedia.
Il libro della Applebaum non si limita ad esaminare la carestia del 1931 - 34, che raggiunse il suo picco negli anni '32 – '33. Prende in esame un periodo più ampio della storia Ucraina. Si sofferma sul movimento nazionale ucraino, sulla partecipazione autonoma di gran parte degli ucraini alla guerre civile: le famose armate nere dell'anarchico Machno e quelle verdi dei contadini che non appoggiavano né i bianchi né i rossi. Esamina la carestia ucraina del '20 - '21, provocata dalle requisizioni del comunismo di guerra, la mini carestia del '28 – '29 e quella del 1947. Parla dell'occultamento della tragedia compiuto in URSS e del tentativo di minimizzarla messo in atto nella Russia post sovietica. Dedica spazio anche alla maniera mistificante con cui gli occidentali si sono rapportati alla grande carestia, tentando anche loro di minimizzarla se non di negarla, per motivi di real politik se non, a volte, di ipocrita stupidità.
Il saggio di Anne Applebaum è assolutamente rigoroso sul piano scientifico, scevro da intenzioni propagandistiche. Prova ne sia che sul problema fondamentale del numero delle vittime dell'Hodolomor corregge al ribasso numerose valutazioni delle stesse. Non si saprà mai il numero esatto delle vittime della grande carestia, si va dalle poche decine di migliaia ammesse dal regime ai sette, addirittura dieci milioni. La Applebaum, sulla base di recenti studi demografici, ritiene che il numero più vicino al vero sia di circa 4 milioni di morti causati direttamente dalla guerra mossa da Stalin ai contadini ucraini. Per rendersi conto di quanto sia mostruosa tale cifra occorre tener conto che l'Ucraina di quegli anni contava circa 31 milioni di abitanti, nel biennio '32-'33 perse quasi il 14% della sua popolazione. In un paese come la attuale Italia questo corrisponderebbe a quasi 8 milioni di morti.
Sempre restando nel campo delle cifre sono impressionanti i numeri che la Applebaum fornisce sull'andamento globale della popolazione sovietica. Nel 1934 la popolazione dell'l'URSS era di 168 milioni di persone. I demografi del regime prevedevano che nel 1937 fosse salita a 170, addirittura 172 milioni.. I dati del censimento del 1937 furono però una doccia fredda: la popolazione dell'URSS era scesa a 162 milioni: mancavano all'appello dai sei ai dieci milioni di individui. Stalin allora decise che il censimento era stato falsificato dalle spie dell'imperialismo e dalle forze antisovietiche. Il capo dell'ufficio censimenti finì di fronte al plotone d'esecuzione, molti suoi colleghi lo seguirono. Fu fatto un nuovo censimento e stavolta la popolazione dell'URSS “salì” a 170 milioni di unità. Se la realtà non quadra con le indicazioni del partito si cambi la realtà. E' una prassi d moda anche oggi.

Ma, pur molto accurato dal punto di vista scientifico, il libro della Applebaum non consiste affatto di fredde elencazioni di numeri e tabelle. E' invece emotivamente molto coinvolgente. Ricco di tragiche testimonianze su cosa fu davvero, per chi ebbe la sventura di provarla sulla sua pelle, la grande carestia. In pagine terribili e affascinanti l'autrice ci fa quasi vedere lo spettacolo orribile delle morti per fame, i villaggi abbandonati, i bambini che cercano disperatamente una patata marcia o una pannocchia di granturco da mettere sotto ai denti.
Particolarmente orripilanti le pagine sul cannibalismo che in quel periodo assunse in Ucraina dimensioni quasi di massa. La narrazione assume un carattere allucinante nei rapporti, ovviamente segreti, della polizia segreta sui casi di cannibalismo. Eccone uno:
“Una donna kulak si cinquanta anni (…) lungo la strada della stazione di Horodisce ha adescato un bambino di dodici anni di passaggio e gli ha tagliato la gola. Ha messo in una borsa gli organi ed altre parti del corpo. Nel villaggio di Horodisce il cittadino Serstjuk, abitante del posto, ha permesso alla donna di passare da lui la notte. In modo disonesto, lei ha fatto finta che gli organi provenissero da un vitello e ha dato al vecchio il cuore da bollire e arrostire. Esso è stato usato per cibare tutta la famiglia di lui”.
Nel freddo linguaggio di un burocrate il dramma appare se possibile ancora più spaventoso.

Anne Applebaum, come la gran maggioranza degli storici più seri, sostiene che la tragedia dell'Hodolomor non fu solo l'inevitabile conseguenza di una politica economica insieme demenziale e criminale. Fu questo, ma anche qualcosa di più: una scelta politica deliberata per piegare la resistenza dei contadini e del movimento nazionalista ucraino.
Sin dall'inizio i bolscevichi considerarono i contadini come potenziali nemici. Il contadino mira alla proprietà della terra quindi è difficilmente inquadrabile in una politica di pianificazione statale dell'intera economia. Inoltre in Ucraina la questione contadina si sommava alla questione nazionale. Gli stessi comunisti ucraini richiedevano spesso una ampia autonomia da Mosca, cosa del tutto inaccettabile per Stalin ed i suoi scherani. Quando Stalin lancia la politica della collettivizzazione forzata i contadini, ovunque ma in modo particolare in Ucraina, cercano di opporsi. Ci furono anche numerosi episodi di rivolta armata. Grazie alla morte per fame di milioni di persone e a spietate misure repressive la resistenza dei contadini e dei nazionalisti ucraini fu brutalmente spezzata. E il potere di Stalin enormemente rinforzato.

E' inutile dilungarsi ancora. Anne Applebaum è una delle massime esperte della storia sovietica. Ho letto tempo fa un altro suo libro, “la cortina di ferro”, dedicato alla imposizione del comunismo nei paesi “liberati” dall'armata rossa. In questo “la grande carestia” la saggista polacca naturalizzata statunitense supera però, a mio modesto parere, la sua precedente fatica, e non era affatto facile superarla.
Fra tanti i libri che fanno cattiva mostra di se negli scaffali delle librerie, fra le tante opere di nullità letterarie e sottonullità scientifiche che inquinano il panorama culturale italiano questo libro di Anne Applebaum costituisce una fortunata e preziosa eccezione. Consiglio a tutti di leggerlo. Ne vale davvero la pena.

sabato 2 novembre 2019

STEREOTIPI

Uno dei bersagli polemici della famosa commissione proposta dalla senatrice Segre sono gli “stereotipi”. Non bisogna creare stereotipi, dice.
Ma cosa è uno “stereotipo”?
Una delle definizioni è la seguente, tratta da Wikipedia:
Visione semplificata e largamente condivisa su un luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di persone accomunate da certe caratteristiche o qualità”.
Un'altra definizione, sempre reperibile in rete, sottolinea che lo stereotipo è un generalizzazione che  "prescinde dalla valutazione dei singoli casi".
Tirando le somme: lo stereotipo è una generalizzazione semplificata, poco corretta, frettolosa, che non tiene nel debito conto tutta una serie di casi particolari.
Però, se così stanno le cose, un po' tutte le generalizzazioni hanno qualcosa dello stereotipo. Ogni generalizzazione prescinde da un buon numero di casi particolari. La celebre premessa maggiore del sillogismo perfetto di Aristotele: “tutti gli uomini sono mortali” prescinde dall'esame di una quantità potenzialmente infinita di casi particolari. Le generalizzazioni sono inferenze induttive e le inferenze induttive prescindono, per definizione, dall'analisi di tutti i casi particolari.
Ed ogni generalizzazione, anzi, ogni proposizione espressa in un linguaggio simbolico, è, per definizione, semplificata. “La terra è sferica”, si dice, ma le cose in realtà non stanno così, la terra non è affatto perfettamente sferica, definirla tale è il risultato di una semplificazione. Ed ancora, “l'anno solare si compone di 365 giorni” è una affermazione semplificata, in realtà l'anno solare non dura esattamente 365 giorni. Si potrebbe continuare...
Certo, esistono generalizzazioni e semplificazioni serie ed altre meno serie. Affermazioni scientificamente fondate ed altre che sono solo il risultato di fuggevoli impressioni. Ma il confine fra le due è estremamente sfuggente e difficile da individuare. Soprattutto, è LIBERTICIDA affidare ad una commissione il compito di stabilire volta per volta cosa è stereotipo e cosa no, ed adottare di conseguenza misure repressive.

Esaminiamo queste tre affermazioni.

1) “Il comunismo è una filosofia politica totalitaria”.

2) “L'Islam non è laico”
3) “I democristiani amavano il sottogoverno”

Tutte sono semplificazioni della realtà, tutte non tengono conto di moltissimi casi particolari, tutte non sono perfettamente fondate dal punto di vista scientifico. Sono per questo degli stereotipi? Le si deve censurare? Si deve punire chi le fa? Chi deve decidere in proposito?
E siamo certi che chi deve decidere in proposito non discrimini fra le tre affermazioni? Per un democristiano sarebbe probabilmente "stereotipo" la 3, per un comunista la 1, per un militante di più Europa la 2. Che fare allora? Censurare la uno, la due o la tre? Bel dilemma, vero?

La lotta agli stereotipi si può trasformare con facilità estrema in proibizione di ogni giudizio generale, tentativo nichilista di ridurre il generale in mera somma di particolari slegati fra loro. Non si deve parlare di Islam, meno che mai di terrorismo islamico, ma di Tizio, Caio e Sempronio che sono terroristi e, casualmente, anche islamici.
Ma la scienza, la politica, la filosofia, il discorso comune è tutto, per intero farcito di generalità, di affermazioni che vanno oltre l'immediato “qui” ed “ora” e sono quindi, in una certa misura, degli “stereotipi”.
Dietro l'attacco agli “stereotipi si nasconde in realtà una visione nichilista e totalitaria della politica, dell'uomo e della società. Forse anche questo è uno stereotipo. E allora?