Lo dico subito, per chiarire e non
essere frainteso. Se mi trovassi nelle condizioni del Dj Fabo
probabilmente (sottolineo il probabilmente) sceglierei di
morire. Non solo, se una persona che amo si trovasse in quelle
condizioni e mi chiedesse di aiutarla a morire probabilmente
accetterei di farlo. Questo però è solo un aspetto del problema.
Non si tratta di valutare un caso particolare, singolo. In questi
giorni, sull'onda dell'emozione suscitata dal caso del Dj si è
aperto un vasto dibattito, ampiamente pilotato e manipolato dai
media, sul tema più generale del “fine vita”. Apro parentesi,
perché si chiama “fine vita“ la morte? Il
linguaggio eufemistico del politicamente corretto penetra ovunque;
chissà, fra un po' definiremo i morti “diversamente vivi”.
Chiusa parentesi.
Tornando a bomba. Non si tratta di valutare un
caso particolare ma di affrontare un problema generale, perché le
leggi, lo sanno (quasi) tutti, sono generali ed astratte. E se si deve
affrontare un problema generale bisogna cercare quanto meno di
“centrarlo”, capire di cosa realmente si tratta.
Innanzitutto
bisogna smetterla con la confusione in cui i media letteralmente
sguazzano. In questi giorni si sente parlare di “rifiuto
dell'accanimento terapeutico”, “eutanasia” e "suicidio
assistito” come se fossero la stessa cosa. Così non è. Si rifiuta
l'accanimento terapeutico quando non si accettano più cure inutili e
dolorose che possono ritardare solo di poco tempo la fine. Si ha
eutanasia quando si uccide, di solito ma non sempre su richiesta del
paziente, un malato terminale o cronico; entrambi questi casi
differiscono radicalmente dal suicidio assistito. Nel suicidio
assistito una persona che vuol porre termine ai suoi giorni viene
aiutata a farlo. Si mure in maniera “tranquilla” ed indolore,
cosa praticamente impossibile o molto difficile se si ricorre a forme
non assistite di suicidio. Il suicidio assistito non è riservato
solo ai malati terminali o cronici, né a chi conduce una vita semi
vegetativa. Gli esseri umani possono desiderare di morire per
mille ragioni. Si può desiderare il suicidio per una delusione
d'amore, il fallimento economico, la morte di una persona cara. Si
può voler morire semplicemente perché non si trova più alcun senso
al proprio vivere o ci si è “stancati di esistere”. Kirillov,
uno dei personaggi più oscuri di quel capolavoro che è “i
demoni” di Dostoevskij vuole uccidersi perché solo
uccidendosi può opporre la propria distruttiva onnipotenza alla
onnipotenza divina. Non è il caso di dilungarsi troppo. Una cosa
dovrebbe essere chiara: non occorre patire un intollerabile dolore
fisico o essere inchiodati su un letto per desiderare la morte. Del
resto, nella clinica svizzera in cui si pratica il suicidio assistito
è morto, tempo fa, Lucio Magri, a suo tempo dirigente de “il
manifesto”. Non so cosa abbia spinto Magri al suicidio, ma di
certo le sue condizioni non erano quelle del Dj Fabo. Non era un
malato terminale né cronico. Eppure la clinica svizzera ha offerto
anche a lui i suoi “servizi”.
I media come al solito
mistificano tutto e cercano di affrontare un problema generale di
estrema rilevanza e difficoltà facendo leva sull'emozione prodotta
da un episodio particolare. Dietro a tutte le polemiche che la
vicenda del Dj Fabo ha scatenato si cela invece una domanda
terribile, a cui è difficilissimo dare una risposta esaustiva. Una
domanda filosofica, piaccia o non piaccia la cosa: Abbiamo
il diritto di rinunciare alla vita, di darci la morte? Da
sempre gli uomini danno risposte diverse a questa domanda. Per i
cattolici e più in generale i credenti la risposta è NO.
Non abbiamo diritto di rinunciare alla vita perché la vita non
è nostra, è un dono
di Dio, un bene
indisponibile che abbiamo il
dovere di preservare ed utilizzare al meglio. Si tratta di una
posizione molto coerente e dignitosa che non è però esente da
critiche ed obiezioni.
Una salta subito agli occhi: se la vita non
mi appartiene, commetto un crimine tentando di togliermela? Un
poveretto che tenta il suicidio e fallisce dovrebbe essere processato
e condannato? Non sembra davvero che una cosa simile possa essere
considerata in nessun modo “giusta”.
Proseguiamo. Pochi,
penso, sono disposti a negare che io abbia, in quanto essere umano,
certi diritti. Ho il diritto di avere o non avere figli, di scegliere
che lavoro fare e dove vivere, di votare per questo o quel partito e
tanti altri. Ora, se la vita non è mia posso davvero continuare a
godere a pieno titolo di tutti questi diritti? La vita è un dono che
ho il dovere di preservare ed utilizzare al meglio; se le cose stanno
così posso, ad esempio, decidere di non avere figli? Dio ci ha
creati in grado di riprodurci ed è interessato, si dice, alla
riproduzione della specie umana. La mia decisione di non aver figli
non rischia di contravvenire ai desideri di chi mi ha donato la vita?
La concezione secondo cui la vita che vivo non è mia ma un dono di
Dio rischia di privarmi di alcuni fondamentali diritti. A parte
queste considerazioni, questa concezione si scontra comunque con una
difficoltà insormontabile: non vale per chi non ha la
fede. Un credente può
considerare non sua la vita che sta vivendo, ma non può
ragionevolmente cercare di imporre questa sua convinzione a chi
credente non è. Ma le leggi, in un moderno e laico stato di diritto,
valgono per tutti, credenti e non credenti. Il problema resta
irrisolto.
Sul versante opposto troviamo i campioni
dell'estremismo laico. La vita è mia e solo mia, dicono, ed io posso
disporne come voglio. Io HO il diritto di uccidermi
e solo degli integralisti intolleranti possono negarmelo.
Esiste il diritto di scegliersi
un lavoro o la località in cui vivere, il diritto di sposarsi o non
sposarsi, di avere o non avere figli, di votare, ed esiste, accanto a
questi, il diritto al suicidio.
Un diritto estremo, è vero, ma non per questo meno reale, meno
“diritto” di tutti gli altri.
Anche questa posizione ha la sua
dignità e la sua interna coerenza, ma va anch'essa incontro ad
insuperabili obiezioni.
Esiste il diritto di uccidersi come esiste
il diritto di scegliere dove vivere o se avere o non avere figli.
Ammettiamo per un attimo che questo sia vero. Cosa ne discende? Io ho
il diritto di uccidermi, un bel giorno lo metto in atto e mi butto
nel mare in tempesta. Tizio mi vede, si getta anche lui fra le onde,
mi raggiunge e mi salva. Se è vero che cercando di uccidermi io
esercito un mio diritto Tizio che mi ha salvato la vita dovrebbe
essere considerato non un eroe ma un criminale, quanto meno un
prepotente intollerante che mi ha impedito con la violenza di
esercitare un mio sacrosanto diritto. Ed ancora, se uccidersi è un
diritto dovrebbe essere libera la vendita degli strumenti che
permettono alla gente di esercitare questo diritto. Ho il diritto di
scegliere se mangiare carne, pesce o verdura, quindi al mercato trovo
il banco del pesce, quello della frutta e della verdura e quello
della carne. Allo stesso modo dovrei trovare il banco dei veleni e
delle droghe che mi permettono di morire senza sofferenze, se davvero
il suicidio fosse un diritto.
E cosa dovrebbe avvenire, se il
suicidio fosse un diritto, nel campo della salute? Come si dovrebbe
comportare il servizio sanitario nazionale? L'aspirante suicida
dovrebbe entrare in ospedale, munito dell'impegnativa del medico di
famiglia, e chiedere che gli venga indicato dove si trovano le camere
della morte? Non è il caso di dilungarsi troppo. La trasformazione
del suicidio in “diritto” ci mette di fronte a scenari che
qualsiasi persona di buon senso giudica semplicemente mostruosi, e
non a torto.
Il fatto è, molto semplicemente, che il
suicidio non è un diritto. Può
essere una tragica scelta estrema, ma non si può trasformare in
diritto questa scelta estrema, pena il creare autentici scenari da
incubo.
Perché il suicidio non può essere un diritto? E' molto
semplice: perché i confini della vita sono anche i confini
dei diritti e delle scelte. Ha
senso parlare di scelte e diritti fino a che si è dentro
la vita, il diritto di
uccidersi altro non è che il diritto di non avere diritti.
Il
“diritto” di uccidersi è radicalmente diverso dal diritto, ad
esempio, di votare alle elezioni. Il secondo riguarda la vita ed il
modo in cui stiamo nella vita. Il primo vorrebbe essere il diritto di
uscire dalla vita. Ma fuori dalla vita c'è il nulla. L'esistente è
circondato, pressato dal nulla, ed il nulla è indicibile,
impensabile, inesperibile. Il nulla è il non senso che
pressa e delimita il senso. E'
talmente profondo e radicale il non senso del nulla che qualsiasi
frase lo contenga diventa anch'essa, a rigore, priva di senso.
“Entrare nel nulla, andare al nulla”... quale è il senso di
simili espressioni? Si può “entrare nel nulla” se il
nulla non è? Cosa si sceglie
realmente quando si opta per il non essere? Che razza di scelta, che
razza di diritto sarà mai qualcosa che ci immerge nel non senso? Il
non senso in cui, morendo, vogliamo immergerci non fa diventare priva
di senso la nostra stessa scelta di morire? Non esistono
probabilmente risposte a simili domande. Queste in fondo riguardano
la morte per suicidio come quella per vecchiaia o malattia e ci
rimandano, tutte, alla nostra insopprimibile umana finitezza. Ma
anche se prive di risposta una cosa simili domande ce la possono
dire: è impossibile e prima ancora che impossibile terribilmente
sciocco e banale trasformare il suicidio in un diritto. Trasformando
in diritto il suicidio si trasforma il rapporto col non senso del
nulla in un normale rapporto con gli enti e gli eventi del mondo. Il
rapporto col non essere viene ad essere messo sullo stesso piano dei
rapporti variegati dentro la sfera dell'essere. Scegliere se vivere o
morire sarebbe come scegliere se votare per Renzi o per Salvini. Che
terrificante idiozia!
Il suicidio non è né un diritto né un
crimine, è una scelta estrema, un atto disperato, il rifiuto
radicale dell'essere compiuto da chi non vede più nell'essere nulla
di buono.
Come rapportarsi ad un simile atto? Occorre distinguere,
dicono in molti, abbastanza a ragione. Una cosa è il “diritto”
al suicidio cosa ben diversa il rifiuto dell'accanimento terapeutico
o la stessa eutanasia praticata a chi la chieda e si trovi in
situazioni impossibili ed irreversibili. Ma, una volta stabilito che
è bene fare distinzioni non tutto è risolto. Dove tracciare le linee
di demarcazione? Come evitare che, una volta stabilito un precedente
per far fronte ad una situazione estrema, non si amplino sempre più i
limiti e non ci si venga a trovare di fatto nella situazione del
“diritto al suicidio”?
Per rapportarsi al suicidio non servono
le formule e neppure le leggi, credo. Le regole fisse, i SI
SI, NO NO rischiano di condurci
in vicoli ciechi. Intorno al suicidio sorgono spesso i dilemmi
morali: situazioni in cui non
si fronteggiano un torto ed una ragione chiaramente identificabili,
ma due ragioni, diverse e difficilmente mediabili. Meglio far ricorso
allora a quelle che Kant chiamava le idee regolative.
Principi che non dicono, come le regole e le leggi, cosa si debba
fare in tutti i possibili casi, ma aiutino ad orientarsi in una
situazione estremamente complessa e a valutare ragionevolmente caso
per caso. Uno di questi principi potrebbe essere che il
suicidio, pur non diventando mai un diritto, non va criminalizzato. E
questo non solo nel senso ovvio di non criminalizzare chi lo tenta ma
anche chi, in certi casi, lo rende possibile. Se una persona che si
trova in una situazione di sofferenza insopportabile ed irreversibile
chiede di essere aiutata a morire e trova chi pietosamente la aiuta,
non credo che chi compie un simile atto di pietà possa essere
punito. Lo so, è molto indeterminato tutto questo. I principi
regolativi possono trasformarsi in leggi e da questi può venir fuori
il “diritto” al suicidio, oppure restringere talmente il loro
campo di applicazione da risultare praticamente inutili. Ma questo
capita sempre quando ci si muove su un terreno terribilmente
accidentato. Il mondo è assai più complicato di quanto pensino
certi superficiali semplificatori. E a noi non resta che prenderne
atto, consci della nostra strutturale debolezza di uomini.