lunedì 30 gennaio 2023

CONSUMO, MERCATO, OMOLOGAZIONE

E’ una caratteristica dei nostri tempi di decadimento culturale: il rimbalzo da uno schieramento politico all’altro, da destra a sinistra e viceversa, di temi e suggestioni ideologiche.
“Il turbo capitalismo” delle multinazionali impone a tutti una una universale omologazione. Scompaiono le differenze e l’uomo viene ridotto a mero consumatore di prodotti in larga misura inutili. Quante volte abbiamo letto frasi simili in rete? Difficile stabilirlo. Ed è anche difficile stabilire lo schieramento politico di chi fa simili affermazioni. Spesso i teorici della riduzione dell’uomo al ruolo di mero consumatore si collocano oggi, per usare termini assai generici, a destra. Eppure si tratta di tematiche che sono state tipiche della sinistra sessantottina.
L’ uomo ad una dimensione, afferma Marcuse, uno degli idoli dei contestatori dello scorso secolo, è il prodotto della società industriale avanzata, caratterizzata dal trionfo di una tecnologia alienante basata sulla razionalità strumentale e la dimensione unica cui l’uomo odierno è ridotto è (se ne poteva dubitare?) quella del consumo. La polemica contro il “consumismo” ha caratterizzato negli ultimi decenni i movimenti di sinistra occidentali. Eppure, a ben vedere le cose, ha antecedenti che si possono definire di destra. La denuncia della “macchinazione” è centrale nella polemica di Heiddeger contro l’inautenticità che caratterizzerebbe i nostri tempi. Allontanatosi dall’essere l’uomo di perde negli enti ed affida alla tecnica i propri destini. In una celebre intervista il filosofo tedesco giungerà a paragonare l’agricoltura industriale ai campi di sterminio nazisti: l’una e gli altri sono infatti caratterizzati dalla razionalità strumentale sostegno di una tecnologia disumana. Piccolo particolare: Heiddeger aderì al NSDAP, Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, nel 1933 e rimase iscritto allo stesso, pagando con teutonica puntualità le quote, sino al 1945.
Non è il caso di dilungarsi, il succo del discorso è piuttosto chiaro: le società contemporanee, dominate dal mercato e dalla tecnologia impoveriscono l’uomo, lo riducono all’unica dimensione del consumo. “Lavora e caga, consuma e crepa”: questo slogan volgarotto esprime abbastanza bene come qualcuno considera l’uomo che vive nelle società a “capitalismo avanzato”. Mera macchina per consumare, priva di valori, idee, sentimenti profondi, solidarietà sociale. Da Heiddeger a papa Bergoglio, da Marcuse a Diego Fusaro il succo non cambia troppo. Stiamo diventando, forse siamo già diventati, una sorta di nuovi automi, cui il mercato impone una mostruosa omologazione. Viviamo per consumare cose inutili a tutto vantaggio del “Dio denaro”.

Ma… stanno davvero così le cose? Per stabilirlo bisogna cercare di rispondere a tre domande.
1) Qual’è il ruolo del consumo nella vita umana?
2) Davvero la tecnologia mortifica l’uomo?
3) Davvero il mercato tende ad omologare gli esseri umani, a ridurli ad “una sola dimensione”?

L’uomo è consumatore, lo è, per usare una terminologia un po’ antiquata, per essenza. Il consumo caratterizza tutta la vita umana, sempre. La semplice riproduzione della vita implica continui atti di consumo: respiriamo, beviamo e mangiamo, quindi consumiamo, solo per sopravvivere. Vivere è consumare energia e risorse esterne per ripristinare di continuo l’energia consumata. Ma il consumo non è legato solo alle caratteristiche puramente animali dell’uomo. Noi consumiamo anche, forse soprattutto, quando ci dedichiamo alle nostre attività più nobili, più specificamente umane. Elaborare teorie scientifiche e filosofiche, comporre romanzi o sinfonie, dipingere o scolpire non implica solo consumare energie fisiche e mentali, implica anche consumare risorse che ci vengono dal mondo esterno. Un poeta ha bisogno almeno di carta e penna per scrivere, un musicista di strumenti musicali, uno scienziato di costose apparecchiature. Pensare che il consumo riguardi solo la componente “inferiore” dell’uomo è una sciocchezza, Più ci eleviamo più i nostri consumi si differenziano, diventano raffinati e sofisticati, superflui se vogliamo, nel senso che si tratta di consumi non legati alla mera riproduzione materiale della vita. Il consumare è una caratteristica ontologica dell’uomo. Consumiamo perché siamo esseri razionali finiti, dipendenti dal mondo che ci circonda. L’uomo consuma perché non è un essere autosufficiente, non è causa sui, in una parola, non è Dio. A qualcuno la cosa non piace? Non possiamo che dolercene.

Per consumare dobbiamo modificare l’ambiente circostante. Dobbiamo farlo perché viviamo in un mondo che non è fatto per noi, non si adatta alle nostre esigenze. E perché è nella nostra natura andare oltre il semplice adattamento al mondo che ci circonda. Una delle differenza fondamentali fra l’uomo e gli altri animali sta tutta qui: l’uomo non accetta di essere componente subordinata di qualche ecosistema. L’uomo è l’animale che “va oltre”; siamo “naturalmente artificiali”, se così non fosse ci saremmo con tutta probabilità estinti da tempo, visto che la nostra capacità di adattamento è radicalmente inferiore a quella di gran parte delle specie animali. Al massimo saremmo ridotti a sparuti branchi di umanoidi assediati da pericolosi predatori.
E’ qui che si innesta il discorso sulla tecnologia e la “razionalità strumentale”. Da sempre l’uomo ha costruito attrezzi che lo aiutino nella lotta per l’esistenza. Da sempre fra uomo ed ambiente è esistito un medio costituito dalla tecnica. In tutte le epoche storiche l’uomo ha sempre fatto ricorso alla tecnica. Per cacciare come per coltivare la terra, per costruire ripari come per vestirsi, per spostarsi come per combattere. La tecnica è presente in tutte le attività umane, da quelle più direttamente collegate alla vita materiale a quelle che riguardano le nostre attività spirituali. La tecnica è presente in un dialogo filosofico, nella composizione di una sinfonia, in una gara sportiva. E non solo perché, tutte queste attività richiedono l’uso di un certo numero di strumenti materiali ma anche, forse soprattutto, perché il linguaggio, le regole della composizione musicale come quelle della competizione sportiva sono esse stesse delle tecniche. Poche cose quindi sono tanto radicalmente umane come la tecnica e la connessa razionalità strumentale, quella che ci dice cosa dobbiamo fare se vogliamo raggiungere un certo fine. Certo, esiste, nessuno lo nega, il problema, enorme, dell’uso che si può fare della tecnica. Come moltissime altre cose anche la tecnica può essere usata bene o male. Per uccidere occorre usare certe tecniche, come occorre usarne altre per salvare la vita ad una persona gravemente ammalata, ma queste considerazioni del tutto ovvie nulla hanno a che vedere col rifiuto della tecnica in quanto tale. Quando Heidegger equipara la coltivazione industriale alle camere a gas fa invece proprio questo: non distingue fra gli usi della tecnica. Coltivare razionalmente grano che serve a sfamare gli esseri umani non è diverso che introdurre gas mortali un una stanza ermeticamente chiusa e piena di vittime innocenti.

Riassumendo: il consumo ha una importanza centrale nella vita umana, a tutti i livelli. La tecnica, ben lungi dall’essere un fattore di “alienazione” è qualcosa di radicalmente, profondamente umano, se ne devono controllare gli utilizzi ma non la si può rifiutare in quanto tale. Occorre ora cercare di rispondere alla terza, fondamentale, domanda: il mercato è fattore di “omologazione”? Cancella le differenze, ci riduce a gregge? Gli scambi eliminano le nostre particolarità trasformandoci in macchine per consumare? La società di mercato è davvero dominata dal “feticismo della merce”?
L’accenno al feticismo della merce ci rimanda a Marx, cioè ad un pensatore sicuramente profondo, quale che possa essere la gravità dei suoi errori. Non è però il caso, in questa sede di addentrarci in una analisi del suo pensiero. Basta ricordare che in Marx il tema del feticismo della merce è legato alla teoria del valore e che questa non trova oggi praticamente alcun difensore.
Ben lungi dall’omologare gli esseri umani, dal cancellare le differenze che li caratterizzano il mercato esalta le differenze. In molti lo ripetono, un po’ papagallescamente: il mercato riduce tutto a quantità, trasforma gli uomini in relazioni numeriche. E’ vero che il mercato è un insieme di relazioni quantitative, ma ridurlo a questo è semplicemente una idiozia. Agli estremi delle relazione quantitative stanno infatti i venditori ed i compratori, esseri umani con le loro specificità individuali, i loro gusti, esigenze, preferenze. Il mercato si basa sul valore di scambio, ma il valore di scambio altro non è che la relazione quantitativa fra valori d’uso. Tizio scambia con Caio tre paia di scarpe contro un abito perché ha bisogno di abiti e non di scarpe. Il fatto che un televisore abbia lo stesso prezzo di un frigorifero o di un certo numero di libri non eguaglia libri, frigorifero e televisore, meno che mai rende indistinguibili i fruitori di questi beni. Trasformare la relazione quantitativa in un fattore distruttivo delle particolarità qualitative è un po’ come affermare che se mi trovo in una località equidistante fra la vetta del Bianco ed il mare non esiste differenza fra le onde marine e la vetta ghiacciata del Bianco, una idiozia, appunto. Il mercato non annulla le differenze, le mette in relazione ed in questa relazione ognuno può cercare di procurarsi i beni che, a suo parere, servono meglio a soddisfare le esigenze per lui più importanti.
Qualcuno potrebbe obbiettare che si tratta di cose di secondaria importanza. Al di là delle differenze fra i carrelli della spesa di chi si reca al supermercato resta il fatto che tutti coloro che spingono tali carrelli sono consumatori, quindi identici in quanto consumatori, omologati, alienati. Cosa rispondere ad una simile obiezione? Solo che chi la fa ritiene il consumo qualcosa di non realmente umano, pensa che consumando gli esseri umani diventino “ad una dimensione”. Si è già risposto a simili considerazioni: gli esseri umani sviluppano le loro peculiarità, la loro multidimensionalità anche consumando, anche usufruendo di beni e servizi. E tanto basta.

La critica alla omologazione che sarebbe tipica dell’economia di mercato non riguarda però solo gli individui, si estende alle culture ed alle civiltà. L’espansione mondiale del mercato distrugge culture vecchie di secoli, cancella le differenze fra i popoli, sminuisce il valore delle nazionalità, in breve, impone al mondo una grigia uniformità, una sorta di notte in cui tutte le vacche sono scure. Esiste del vero in queste critiche, ma si tratta di un “vero” che va analizzato con molta cura, per evitare che si trasformi in una serie di banalità se non di grossolane mistificazioni.
In primo luogo, per amor di precisione, va detto che certe critiche appaiono semplicemente risibili se sostenute da persone che si rifanno alla filosofia marxista. Qualcuno lo deve rivelare al professor Fusaro:  Marx è stato uno dei più mondialisti fra i filosofi contemporanei. Marx considera un merito della borghesia la formazione di un mercato globale, considera questo una conquista positiva e profondamente rivoluzionaria, basta leggere il celeberrimo “manifesto del partito comunista” per rendersene conto.
La critica che Marx muove all’economia capitalistica è completamente diversa da quelle strillate oggi da molti super critici del “turbo capitalismo”. Per Marx la borghesia capitalistica è incapace di portare a termine il compito iniziato. Il Capitalismo non è in grado di superare la ristrettezza dei confini nazionali e dare vita ad una autentica società mondiale. Il mercato mondiale è conseguenza dell’enorme sviluppo delle forze produttive ma i rapporti di produzione borghesi sono diventati, per Marx, un ostacolo ad un loro ulteriore sviluppo. Per farla breve, Marx sottopone a critica non l’universalismo ma la ristrettezza della società borghese, non lo stimolo che essa garantisce allo sviluppo economico, ma il limite a tale sviluppo, non la creazione del mercato mondiale ma il suo carattere parziale e limitato.
C’è della esagerazione in molte espressioni di Marx ma si può tranquillamente riconoscere che alcuni aspetti della sua analisi sono condivisibili. In effetti contrapporre alla apertura del mercato mondiale la chiusura nel localismo è francamente reazionario, come lo è la pura e semplice accettazione di ogni caratteristica di antiche culture e civiltà.
L’espansione del mercato mondiale ha distrutto molti usi e costumi che non possiamo certo ritenere accettabili solo perché caratteristici di culture vecchie di secoli. Sostituire la scienza alla magia è stato un progresso per il genere umano, come lo è poter leggere in Italia le opere di Confucio e quelle di Aristotele in Cina. Anche se le femministe radicali non lo sanno l’unificazione del mondo ha contribuito moltissimo alla emancipazione della donna. Pensare che sia da accettare tutto ciò che è parte di vecchie culture e civiltà è solo stupido.

Le critiche al mondialismo condotte da un punto di vista marxista, a parte il valore dei loro argomenti, poggiano quindi su basi teoriche decisamente fragili, ma, a parte i richiami al vecchio Marx, quali sono oggi le caratteristiche di quello che comunemente si chiama “mondialismo”? Si va davvero, in maniera ineluttabile, verso un mondo privo di differenze culturali o nazionali o quanto meno in cui queste differenze siano semplicemente qualcosa di residuale? Soprattutto, l’economia di mercato tende davvero, in forza delle sue leggi immanenti, verso un mondo di questo tipo? La risposta è a mio parere NO.
A livello concettuale esiste una differenza radicale fra l’idea stesa di omologazione e quella di scambio. Lo scambio avviene perché i vari attori dello stesso sono diversi l‘uno dall’altro, quindi mai interamente omologabili. Lo scambio e l’economia di mercato basata sullo scambio esistono perché esistono le diversità fra gli esseri umani. Tizio scambia con Caio perché è diverso da Caio, ha gusti, esigenze, aspettative di vita non coincidenti con le sue. E fa parte a pieno titolo di queste differenze la cultura di Tizio, il suo appartenere ad una determinata civiltà, l’essere cittadino di un certo paese, parte di una certa nazione, avere alle spalle una certa tradizione. A livello sovra individuale, i vari paesi hanno fra loro rapporti di scambio perché sono soggetti autonomi, relazionati agli altri ma non coincidenti con questi. Il mercato mondiale relaziona individui, paesi, culture, civiltà e nazioni diverse, ma relazionare non vuol dire eliminare le differenze, vuol dire metterle in contatto. Studiare la filosofia cinese è per un occidentale fonte di arricchimento culturale, ma questo arricchimento smetterebbe di essere tale se la filosofia cinese diventasse non distinguibile da quella occidentale. Una cosa è leggere Aristotele e Confucio, cosa completamente diversa mischiare i due, confondere le tradizioni storico culturali che stanno dietro al greco ed al cinese. Vale per i singoli come, fatte le debite differenze, per nazioni, culture e civiltà: Fra il relazionamento e l’omologazione che annulla le differenze non esiste identità alcuna, esiste al contrario una autentica incompatibilità.
Precisazioni a parte, esistono certamente oggi nel mondo, meglio, nell’occidente in crisi, forze potenti che premono nel senso della eliminazione delle differenze. Vanno in questo senso i no border, per i quali i confini non avrebbero oggi alcun motivo di esistere ed interi popoli avrebbero il diritto di spostarsi liberamente da uno stato o addirittura da un continente all’altro, senza alcun limite, vincolo o controllo. Vanno nello stesso senso i teorici del “gender” per i quali il sesso non sarebbe più una caratteristica essenziale degli esseri umani ma una “scelta” che può cambiare da un anno, o da un mese all’altro ed i teorici della “cancell culture” che vorrebbero imporci di gettare alle ortiche una tradizione culturale millenaria e di enorme rilevanza. In una parola premono per la riduzione del mondo ad area grigia indifferenziata tutti coloro che seguono le varie teorie del politicamente corretto, e dietro questi pseudo teorici ci sono forze economiche potenti, legate alle grandi multinazionali industriali e finanziarie. Tutto questo è vero e difficilmente contestabile.
Ma si tratta, appunto, di settori, parti dell’occidente. Potenti fin che si vuole ma non invincibili, cui si oppongono non tanto gli strenui difensori di un localismo ormai indifendibile ma tutti coloro che non identificano l’apertura all’altro con una “inclusività” che nei fatti elimina il concetto stesso di “altro” e riduce il mondo in una sorta di notte in cui tutte le vacche sono grigie.

Parlando delle forze potenti che tendono alla mondializzazione occorre porsi una domanda: si tratta di forze espresse dalla dinamica spontanea del mercato e che agiscono conformemente a tale dinamica? O non si tratta piuttosto di forze certamente inserite nell’economia di mercato che agiscono però in larga misura seguendo logiche proprie, che col mercato e le sue dinamiche non hanno troppo a che vedere?
In realtà il legame fra certe multinazionali e le dinamiche di mercato è alquanto labile. I settori che maggiormente spingono per la mondializzazione hanno il loro punto di maggior forza non nel mercato me nei legami col potere politico. Si è parlato di capitalismo di relazione, o di “modello cinese” e già la terminologia lascia intendere quale sia il carattere di fondo del mondialismo economico: non la logica dello scambio e dei rapporti mercantili ma la pretesa di programmare il più possibile l’economia. Più che ad un risveglio del “liberismo” stiamo assistendo al tentativo, forse il primo nella storia, di una programmazione a livello mondiale di interi settori dell’economia. Gli esempi sono numerosi: si cerca di imporre all’economia mondiale, o quanto meno occidentale, nientemeno che una globale transizione energetica. In passato le grandi rivoluzioni tecniche ed industriali partivano e si misuravano con esigenze e domande di mercato. Oggi gruppi di burocrati si riuniscono e stabiliscono che entro un certo numero di anni in tutta Europa, meglio in tutto l’occidente, meglio ancora in tutto il mondo, si dovranno produrre solo auto elettriche. La UE poi è scatenata in scelte di questo tipo. Sembra che ai massimi livelli di questa istituzione ci siano persone davvero convinte che si possa programmare nientemeno che il clima del pianeta. Entro pochi anni tutte le case di civile abitazione europee dovranno avere certe caratteristiche “energetiche”, si TUTTE, non solo quelle di nuova costruzione. Per carità di patria evito ogni commento sulle innumerevoli direttive europee tendenti a stabilire il diametro della pizze, l’inclinazione del gambo dei carciofi o la portata degli sciacquoni nei bagni pubblici e privati. Per farla breve: una autentica orgia programmatoria che col “liberismo”, quale che sia il giudizio che se ne può dare, poco ha a che vedere. E nulla ha a che vedere col pluralismo liberale, molto poco con la stessa democrazia.
Certo, la pretesa di imporre ad interi popoli processi migratori incontrollati ha un certo sapore di “liberismo” ed alcune analogie con lo stesso liberalismo, ma si tratta di analogie superficiali. L’economia di mercato prevede ed auspica, ovviamente, la libertà di movimento negli e fra gli stati, ma nessuno dei grandi teorici del mercato ha mai teorizzato la scomparsa degli stati stessi, né la loro marginalizzazione. Lo scambio economico, val la pena di ripeterlo, avviene fra soggetti caratterizzati tutti dalle loro caratteristiche naturali e socio culturali; processi migratori privi di controllo distruggono o stravolgono in maniera violenta proprio queste caratteristiche distorcendo in profondità gli stessi rapporti di scambio. Permettere a masse enormi di esseri umani di spostarsi liberamente da un continente all’altro nulla ha a che vedere con la libertà liberale e con la stessa libertà degli scambi. Sarebbe come se il governo per garantire la libertà degli scambi permettesse a tutti di entrare ed uscire a loro piacere da casa mia. La libertà liberale presuppone la garanzia delle caratteristiche dei soggetti dello scambio, compresa la libertà fondamentale di riconoscersi in una certa cultura, appartenere ad un certo gruppo nazionale. Se questa garanzia viene a mancare tutto crolla. Non a caso le potenti forze economiche che mirano al mondialismo si servono delle loro relazioni con la politica per cercare di imporre ai popoli l’idea distopica di processi migratori privi di vincoli, limiti e controlli. Dietro al fenomeno di portata storica del trasferimento in Europa di milioni di africani ci sono, molto più che gli automatismo del mercato internazionale, le scelte politiche degli stati e, spesso, l’azione della malavita organizzata.

L’equiparazione fra liberalismo e liberismo, cose diverse anche se non opposte, e di entrambi con una omologazione che elimina ogni diversità è nel migliore, e più raro, dei cosi, un grossolano equivoco, assai più spesso deriva da un autentico odio verso l’idea stessa di libertà individuale. Si tratta di una nuova forma di radicale antiliberalismo che unisce, paradossalmente ma non troppo, settori della destra reazionaria e della sinistra nostalgica del comunismo.
Libertà personali, pluralismo, mercato, democrazia rappresentativa vengono spacciate come rifiuto della dimensione sociale dell’uomo, abbandono nichilista di ogni valore, trionfo di un individualismo gretto che trasforma le persone in pure macchine per consumare, gregge senz’anima controllato dei “padroni del vapore”. Un modo di ragionare che rivela tutta la propria vacuità se si pensa che libertà, pluralismo e democrazia sono essi stessi valori sulla cui base sorgono molti rapporti sociali differenziati. Ed ancora più strana appare l’equiparazione delle società libere al gregge da parte di chi esalta esperienze come quelle della Unione Sovietica staliniana o della Cina maoista (nessuno osa manifestare rimpianti nei confronti della Germania hitleriana, ma dovrebbe farlo, se avesse un minimo di coerenza logica). Gli stessi che, rifacendosi malamente a Nietzsche, strillano contro il gregge o la “massificazione” delle moderne società industriali non sprecano una parola di critica nei confronti di esperienze caratterizzate dal più totale disprezzo, teorico e pratico, nei confronti dell’individuo. Certo, esistono in occidente importanti fenomeni di massificazione, da combattere senza esitazione alcuna. Ma si tratta della patologia, non della fisiologia dell’occidente e nulla è tanto fuorviante quanto opporre a tale patologia il fascino discreto di paesi come la Russia di Putin, la Cina di Xi Jin Ping o l’Iran o la Corea del nord.
Il fascino che paesi simili esercitano su settori non maggioritari ma neppure residuali d
ella pubblica opinione occidentale è un termometro che attesta quanto sia grave la crisi della nostra civiltà. Motivo in più per combatterlo, senza se e senza ma.

 

sabato 28 gennaio 2023

LAGER E GULAG

In occasione della giornata della memoria c’è chi ha discusso delle similitudini e delle differenze fra i lager hitleriani ed i gulag staliniani. Visto che in proposito si dicono molte fesserie val forse la pena di soffermarsi un po’ sull’argomento.
E’ inutile sottolineare le numerose analogie fra lager e gulag, queste sono evidenti a chiunque abbia un minimo di capacità di vedere e ragionare. Vale invece la pena di esaminare le differenze fra loro.
Qualcuno sostiene che i gulag sovietici erano campi di concentramento, non di sterminio. E’ vero, ma in cosa consiste di preciso questa distinzione?
Nei gulag avvenivano a volte fucilazioni di massa di prigionieri ma queste non erano la norma. L’obiettivo principale di chi costruì e gestì i gulag era economico. Non si trattava di sterminare interi gruppi sociali o etnici ma di ridurli in stato di schiavitù. Certo, questo non era l’unico obiettivo: per un certo periodo di tempo, durante il grande terrore per essere precisi, fu fondamentale l’obiettivo di terrorizzare i nemici, veri o presunti, reali o potenziali del regime, di tenere costantemente sotto pressione la società per impedire che si potesse formare un qualsiasi tipo di opposizione, ma l’obiettivo più importante fu quasi sempre economico. Bisognava realizzare gli obiettivi sempre più irrealistici dei piani quinquennali e nulla sembrava più facile che utilizzare a questo fine il lavoro schiavo. E’ ora di dirselo una volta per tutte: l’apparato industriale sovietico è stato edificato in considerevole misura col lavoro schiavo. Gli ospiti dei gulag non erano condannati a morte ma allo schiavismo. Erano schiavi pubblici pronti ad essere sostituiti da altri in caso di morte o al termine della pena (che spesso veniva prolungata senza processo alcuno). Ovviamente il il lavoro schiavo in condizioni proibitive provocava un altissimo numero di decessi, ma non erano questi, di norma l’obiettivo dichiarato di Stalin e dei suoi complici. In questo la differenza con Hitler è evidente, anche se non mi pare si tratti di una differenza rilevante dal punto di vista etico.
Legata a questa differenza possiamo rilevarne un’altra, più generale fra il nazismo hitleriano ed il comunismo staliniano.
Il nazismo hitleriano non lasciava possibilità alcuna di scampo agli sventurati appartenenti a certi gruppi etnici. L’ebreo era condannato a morte, punto e basta. Poteva non rappresentare pericolo alcuno per il regime, poteva essere un genio potenzialmente utile ai nazisti, poteva avere idee politiche di destra, non contava. Era ebreo quindi doveva morire. In una certa misura questo riguardava anche altri gruppi, i rom ad esempio.
Nella Russia staliniana questo non avveniva. Stalin perseguitò crudelmente intere nazionalità, deportò moltissimi ucraini, russi tedeschi, tatari, ceceni, ma, almeno sulla carta, non decise mai di sterminare tutti gli appartenente a queste nazionalità. In linea teorica nella Russia staliniana tutti potevano sperare di salvarsi, in questo, di nuovo, è possibile ravvisare una differenza fra il comunismo di Stalin ed il nazismo di Hitler. Però… però è anche vero che se in URSS tutti potevano sperare di salvarsi, nessuno poteva considerarsi neppur relativamente al sicuro. Nella Germania nazista un cittadino tedesco, non ebreo, se non aveva idee pericolose, non manifestava dissenso, si comportava “bene” aveva discrete possibilità di condurre una vita relativamente normale. Questo non avveniva nella Russia staliniana. Qui chiunque poteva finir male, anche se non apparteneva a gruppi considerati “nemici”, anche se era un buon comunista, anche se manifestava tutti i giorni il suo amore per Stalin. Nei gulag c’erano criminali comuni (era considerato criminale comune anche chi rubava un pugno di grano) ma anche operai, contadini, intellettuali. C’erano i russi come gli ucraini, c’erano i dissidenti politici ma anche chi dissidente non era. Molti staliniani di ferro assaggiarono le dolcezze dei gulag, magari accanto ai nemici del popolo menscevichi e trotzkisti. Il nazismo non lasciava scampo ad alcuni, lo stalinismo lasciava a tutti la speranza di farla franca,  ma non dava a nessuno la minima, relativa certezza di scampare al terrore. Nessuno nella Russia di Stalin era certo, andando a letto la sera, di risvegliarsi la mattina nello stesso letto.
Da qui un’altra differenza. Nei campi nazisti vigeva una distinzione assoluta fra prigionieri da un lato e, dall’altro, amministratori, capi e guardiani. I prigionieri erano la “razza inferiore”, chi li controllava apparteneva alla “razza superiore”.
Nei gulag staliniani invece esisteva invece una certa continuità fra prigionieri e guardiani. I guardiani erano al culmine di una gerarchia di cui anche zek (così si chiamavano gli ospiti dei gulag) facevano parte, ovviamente al grado più basso. Ci furono molti casi di zek (NON fra i politici però) che divennero guardiani e, viceversa, di guardiani che degradarono a zek. Molti aguzzini si ritrovarono a dover subire la stessa sorte di coloro contro cui avevano agito con disumana crudeltà.
Il discorso è ovviamente solo abbozzato, andrebbe approfondito a tutti i livelli. Altri lo hanno fatto in maniera approfondita ed esaustiva.
Un’ultima considerazione: quale fra le due esperienze storiche è stata la peggiore? Si tratta di una domanda a cui non mi sento di rispondere. Il nazismo è stato unico, la Shoah è davvero un fenomeno senza confronto nella storia. Ma anche il comunismo staliniano è stato, a modo suo, unico. Nessun tiranno ha mai oppresso il suo popolo con l’ampiezza e la spietatezza messe in atto da Stalin.
Stabilire quale fra i due sia stato il peggior è un po’ come voler decidere cosa è peggio fra la peste ed il colera.
E tanto può bastare.