domenica 28 dicembre 2014

LA BONTA' PELOSA, E ZUCCHEROSA

L'occidente di oggi è letteralmente sommerso da una densa, zuccherosa melassa. Un sentimento tanto diffuso e reclamizzato quanto insincero: la bontà. Non la bontà vera, quel sentimento che ci porta a condividere le altrui sofferenze. Una bontà “alla moda” che ha poco a che vedere con l'umana solidarietà verso chi soffre, e che anzi spesso si accoppia con la totale indifferenza nei confronti delle sventure autentiche. E' la bontà che spinge molti occidentali a solidarizzare non con le vittime di mostruose violenze ma con i loro carnefici, che provoca scoppi di indignazione a senso unico, e rende molti “buoni” sordi ciechi e muti di fronte a drammi di immani dimensioni.
Questa “bontà”, che sarebbe meglio chiamare “buonismo” se il termine non fosse un po' troppo abusato, può essere definita come la pretesa che tutti i problemi del mondo possano essere risolti con il dialogo, la reciproca comprensione, la migliore conoscenza di chi è “diverso” da noi. Conoscere, amare, dialogare sono le tre parole magiche. Si abbandonino i pregiudizi, si guardi dritto negli occhi chi erroneamente riteniamo nemico ed i problemi saranno risolti.
Una simile convinzione si basa, non può non basarsi, su una precisa concezione del mondo. Per i sostenitori del “dialogo” sempre e comunque il mondo sarebbe sostanzialmente buono ed armonioso. Se così non fosse la pretesa di risolvere ogni problema con l'amore e la reciproca comprensione sarebbe priva di ogni fondamento. Se il malvagio fosse davvero tale dialogare con lui sarebbe fatica sprecata, e adottare il suo punto di vista renderebbe malvagi anche noi. Così si stabilisce che il malvagio altro non è che un apparente malvagio, un diverso che noi, nella nostra arroganza, giudichiamo malvagio.

Bastano le telegrafiche considerazioni che abbiamo appena fatto a mettere in luce il carattere aporetico della bontà “buonista”. Una simile “bontà” predica di continuo il dialogo e l'amore ma resta del tutto indifferente di fronte allo spettacolo raccapricciante delle vittime di coloro con i quali si pretende di dialogare.
Inoltre, la visione di un mondo buono ed armonioso, una sorta di enorme palla di zucchero filato, non solo fa a pugni con la realtà empirica, ma contrasta radicalmente con gli stessi presupposti da cui partono i teorici del “dialogo”. Si, perché se davvero il mondo fosse tanto dolce come ce lo presentano i “buoni” non si capisce perché ci sarebbero tanti problemi da risolvere, col “dialogo”, ovviamente. Se c'è tanto bisogno di “amore”, “comprensione” e “dialogo” vuol dire che il mondo tanto armonioso e traboccante di amore in fondo non è.
Tutta la mielosa bontà che ci viene versata addosso dai media ad ogni ora del giorno e della notte si basa in fondo su un trucchetto da illusionista: la sostituzione del mondo reale con l'immagine ideologica del mondo. Nel mondo reale esistono la violenza e le guerre, l'odio ed il fanatismo. Nella immagine ideologica del mondo tutto questo scompare. L'odio e la violenza fanatica si dissolvono ed al loro posto resta la melassa leggermente soffocante dei buoni sentimenti.
Però anche dopo che il mondo reale è stato sostituito con la sua immagine ideologica i problemi restano, del tutto immutati. Anche i “buoni” devono prendere atto che non tutto va nel migliore dei modi, sul pianeta terra, è la loro stessa martellante propaganda dei buoni sentimenti a dimostrarlo.
E così, per cercare di spiegare l'inquietante presenza di un male che resiste a tutti i tentativi di rimozione, il “buono” compie un secondo giochetto di prestigio: dopo aver sostituito al mondo la sua immagine ideologica addebita i mali che pure nel mondo restano, all'occidente. Il male autentico consisterebbe nella boria occidentale, nel pervicace rifiuto di “comprendere il diverso”. Fanatismo ideologico e religioso, totalitarismo, condizione servile della donna, teocrazie fondamentaliste, tutto scompare, meglio, tutto diventa colpa dei viziosi occidentali asserviti al “Dio denaro”. In molte parti del mondo le adultere vengono lapidate o frustate a morte, gli apostati decapitati, i cristiani crocifissi, gli oppositori politici rinchiusi nei lagher? La colpa è di chi non lapida e non crocifigge, e neppure sbatte in galera gli oppositori politici. La colpa è nostra, nostra che non aiutiamo abbastanza i popoli dei paesi poveri, che a volte tanto poveri poi non sono, che non rispettiamo i loro costumi e la loro cultura, costumi e cultura che spesso prevedono, appunto, fustigazioni e lapidazioni, decapitazioni e crocifissioni.
La cosa curiosa è che nel loro entusiasmo tanti presunti buoni non si rendono conto di quanto sottilmente razziste siano le loro concezioni. L'occidente sarebbe il responsabile degli altrui crimini esattamente come i genitori di un bambino un po' difficile sono responsabili delle monellerie del figlio. Solo per noi valgono i concetti di libera scelta e responsabilità personale. Gli altri sono una sorta di minorati mentali incapaci di intendere e di volere. Noi abbiamo la responsabilità delle loro azioni malvagie, loro non hanno colpe, come non hanno colpe, né meriti, i ragni o i topi (nessuno però pretende di “dialogare” con topi e ragni). Gratta un po' il buono e viene fuori il razzista, un razzista di tipo nuovo, particolarmente stupido, che ci invita a dialogare con chi viene amorevolmente collocato fuori dalla dimensione etica.

Come tutti i sentimenti assolutizzati la bontà mielosa e pelosa oggi di moda in occidente non può ovviamente, essere generalizzata. Il “buono” propaganda un amore universale, ma basta parlare pochi minuti con lui per rendersi conto che sono in molti ad essere esclusi da questo suo zuccheroso amore. Il “buono” ama tutti, ma non ama chi, ad esempio, nega che la colpa di tutti i mali del mendo sia di noi occidentali, ed ama ancora meno chi si permette di incolpare di qualcosa i nostri “fratelli” mussulmani; addirittura odia, il nostro “buono”, coloro che ritengono che si debba rispondere con la forza ai crimini di chi uccide in nome di Dio. Appena ha a che fare con simili personaggi il nostro “buono” diventa subito cattivello. Abbandona i toni angelici, il mite sorriso scompare dal suo volto, la voce gli diventa stridula ed alte urla escono dalla sua angelica gola. Il “buono” politicamente corretto dialoga coi carnefici senza troppo badare alle loro vittime, ama i diversi ma detesta chi non confonde la sua soffocante melassa con la vera bontà. Il “buono” non ama tutto e tutti, prova antipatie, oltre che simpatie, arriva ad odiare, a volte, alcuni esseri umani.
Il “buono” politicamente corretto non è diverso in fondo dagli altri uomini: ama a volte e a volte non ama, può addirittura detestare qualcuno, come accade a tutti qualche volta, nel corso della vita.

Diversamente dagli altri esseri umani però il buono politicamente corretto ama o detesta, o addirittura odia gli esseri umani non per come questi realmente sono, ma per come appaiono nella caricatura ideologica che egli si è fatto di loro.
Dietro alla classe o al ceto sociale, alla cultura, alla civiltà c'è, sempre l'uomo. Ed è doveroso criticare l'azione di certi gruppi sociali, o le caratteristiche di certe culture e certe civiltà precisamente perché offendono e degradano l'uomo. La persona davvero buona tiene ferme le differenze fra esseri umani e gruppi sociali. Può ad esempio detestare l'Islam ma prova una profonda umana vicinanza per una adultera di sincera fede mussulmana condannata alla lapidazione. Avversa l'Islam non perché oppone a questa religione un opposto fondamentalismo, ma perché pratiche come la lapidazione sono quanto di più radicalmente disumano si possa immaginare. I “buoni” politicamente corretti invece prima riducono l'uomo alla funzione sociale: non esiste l'uomo, esistono le classi, o le culture, o le civiltà e se sei membro di una classe o di una civiltà “condannata dalla storia” non sei, mai, innocente, sei colpevole dei crimini, veri o presunti, della tua classe o della tua civiltà. Una volta compiuta questa inaccettabile equiparazione i “buoni” politicamente corretti si affrettano a trasformare in caricature quegli stessi soggetti collettivi che hanno posto a fondamento della storia, escludendo da questa gli autentici esseri umani. La borghesia ad esempio è trasformata in una classe di sanguisughe, un manipolo si sfruttatori che mira solo ad opprimere gli operai. Se Tizio è imprenditore cessa per ciò stesso di essere un uomo, è solo un imprenditore, poi cessa anche di essere imprenditore per diventare “padrone”, ed il padrone, si sa, è un vampiro assetato di sangue operaio. Prima l'uomo scompare nel gruppo sociale, poi il gruppo diventa la caricatura di se stesso e può essere oggetto del più veemente odio che si possa immaginare.
Una sorte opposta tocca, ovviamente, ad individui e gruppi che i “buoni” politicamente corretti ritengono degni di amore e rispetto. Il terrorismo islamista ad esempio non riguarda gruppi, non ha alle spalle modi di pensare ed agire, culture, è solo la risultante dell'azione individuale di pochi squilibrati. La stessa “bontà” che in certi casi assimila senza riserve il singolo al gruppo dissolve ora qualsiasi legame di gruppo. E se, malgrado tutto, il gruppo resta, viene ridotto a caricatura, ma non più caricatura malvagia, caricatura “buona”. L'Islam viene trasformato in una “religione di pace”, aperta, laica, tollerante, cosa facile, tutto sommato, dopo che tutti i suoi aspetti, diciamo così, “discutibili” sono stati definiti “azioni di singoli squilibrati”. L'imprenditore è per definizione un vampiro, l'islamico è, sempre per definizione, un uomo aperto, laico e tollerante. E la realtà? Ma suvvia, lo sanno tutti che la realtà non esiste. Non esistono fatti, solo interpretazioni.

Non deve stupire che la bontà zuccherosa e pelosa che opprime oggi l'occidente detesti il principio di realtà. Il rifiuto di questo fondamentale principio ha origini antiche. Senza andare troppo indietro nel tempo ci si può fermare alla scuola di Francoforte ed alla critica del pensiero scientifico che la ha caratterizzata. Disincanto e matematizzazione del mondo, fisica moderna, leggi scientifiche... pura risultante della alienazione prodotta dal sistema capitalistico, meglio ancora, come specificherà Marcuse, dalla società industriale avanzata, simbolo di progresso tecnico. L'oggettività del mondo non esiste se non come oggettività opprimente imposta all'uomo da un sistema disumano. Fatte tutte le distinzioni (che non sono distinzioni da poco) i “buoni” di oggi proseguono su questa strada. Sostituiscono al mondo ciò che loro pensano del mondo, costruiscono dei fantocci polemici da odiare e degli zuccherosi pupazzi di peluche da amare. Eliminano dal mondo fanatismo, irrazionalità, odi religiosi e li sostituiscono con onnipotenti multinazionali, finanzieri ebraici, agenti di CIA e Mossad. Riducono a trascurabili dettagli fustigazioni e lapidazioni, sgozzamenti e crocifissioni ed incolpano di questi dettagli il corrotto occidente. Quanto al terrorismo, si tratterebbe di una naturale reazione all'arroganza sionista ed occidentale, messa in atto con rudimentali “armi giocattolo”. E i principali, grandi attentati terroristi? Quelli sono, è ovvio, la risultante di diabolici complotti di americani ed israeliani.
Una volta trasformato in questo modo il mondo il nostro “buono” può ricoprirlo col suo amore smisurato, e deturparlo col suo altrettanto smisurato odio.
Non bisogna farsi ingannare dalle parole, e meno ancora dalla zuccherosa melassa che lo circonda: nessuno è tanto malvagio quanto il buono politicamente corretto. E' un “buono” molto strano, capace solo di amare chi odia, e di odiare il resto del genere umano. La pura negazione della bontà.

sabato 20 dicembre 2014

GLI IMMONDI


http://www.greencrossitalia.org/images/stories/Disarmo/Dossier/img-memoria08.jpg?ml=5&mlt=system&tmpl=component

“A tre mesi esatti dalle elezioni israeliane, i rapporti tra il mondo e Tel Aviv non sono stati mai così tesi”. Così scrive “il fatto quotidiano” commentando il “riconoscimento” della “Palestina” da parte della Unione Europea. Da una parte lo stato di Israele, dall'altra il mondo. I giornalisti del “fatto” forse non lo sanno, ma con questa contrapposizione non fanno altro che riproporre uno dei temi classici dell'antisemitismo.
Per Adolf Hitler il mondo avrebbe dovuto essere organizzato in base ad un rigido schema gerarchico. Sopra tutti gli “ariani”, i popoli dominatori, creatori di cultura, poi tutti gli altri. Più in alto i popoli non “creatori” ma “portatori” di cultura, più sotto, via via, tutte le “razze inferiori” cui la natura e la storia hanno riservato il ruolo di schiavi.
Gli ebrei però sono esclusi da questo schema. Gli ebrei non sono una “razza inferiore”, un popolo di schiavi, sono la malattia del genere umano. Gli ebrei non si collocano sull'ultimo gradino della scala dell'essere, sono fuori dall'essere, non sono ultimi nel mondo, sono estranei al mondo. Apolide, parassita che vive dell'altrui lavoro e contamina le altrui culture, privo di storia, eternamente sradicato, mentitore ed usuraio l'ebreo si contrappone al mondo che infetta con la sua sola presenza. E' l'immondo. Non può essere assimilato, integrato, redento. Resta ebreo anche se si converte, anche se rifiuta le sue origini. L'ebreo non può neppure essere asservito: va eliminato, come si eliminano gli insetti velenosi, per la salvezza del mondo.

Il quadro che il “fuhrer” faceva degli ebrei viene riproposto pari pari, oggi, per lo stato di Israele. Israele è un piccolissimo stato di sei milioni di abitanti, più o meno tanti quante le vittime della shoah. Eppure questo mini stato è responsabile di praticamente tutto quanto di male esiste al mondo, sfida il mondo. Israele, che chiede solo di poter esistere, è il massimo pericolo per la pace mondiale, è la causa subdola delle tensioni che ci minacciano. Da una parte Israele, dall'altra il mondo, dice “il fatto quotidiano” e rivela così i suoi sentimenti più autentici.
Un paio di giorni fa mi è capitato di sentire in una trasmissione radio, mentre guidavo, un tipetto che affermava candidamente: “Se la Palestina fosse liberata il fondamentalismo ed il terrorismo sarebbero subito superati”. I fondamentalisti islamici ammazzano in Canada ed in Australia, negli Usa, in Spagna ed in Inghilterra, in Russia ed in Africa ma la colpa è tutta dello stato di Israele. Gli ebrei hanno oggi un loro stato, non sono più erranti apolidi, per questo il mondo è in pericolo! Si cancelli lo stato maledetto ed il mondo sarà salvo. Si sacrifichino gli ebrei, per la salvezza del mondo. Oggi come nel 1941.
Oggi non è più possibile dichiararsi apertamente anti semiti. Così non si parla di “ebrei” ma di “stato di Israele”. Non si devono sacrificare gli ebrei ma eliminare dalla faccia della terra lo stato che per la prima volta nella storia ha offerto loro asilo e protezione. Ma se Israele fosse eliminato dal mondo gli ebrei sarebbero eliminati, e tutto l'occidente precipiterebbe nel baratro. L'antisionismo dietro a cui si nasconde l'antisemitismo diventa ogni giorno di più una foglia di fico piccola, molto piccola

venerdì 19 dicembre 2014

DUE STATI CHE NON ESISTONO

La autorità palestinese afferma, qualche volta, di "acccettare", bontà sua, di “riconoscere” lo stato di israele; lo fa anche se è alleata di Hammas, che di riconoscimento di Israele non vuole neppur sentire parlare.
Però cosa chiede la autorità palestinese in cambio del "riconoscimento" di israele?
1) Israele dovrebbe tornare ai confini del 1967.
Quei confini sono indifendibili, da quei confini i “razzi giocattolo” di Hammas colpirebbero facilmente Tel Aviv. La autorità palestinese è alleata di Hammas che bombarda quotidianamente Israele e pretende, “in cambio” del riconoscimento che Israele accetti confini che lo farebbero facile bersaglio dei razzi di Hammas. Davvero una proposta interessante.
2) Israele dovrebbe accettare che i “profughi” palestinesi rientrassero in massa nello stato ebraico.
E' un po se la Francia dicesse all'Italia: “io ti riconosco, ma tu devi accettare che in Italia entrino tutti i francesi che vogliono”. Insomma, se vuoi essere riconosciuto devi rinunciare ad ogni controllo sui flussi immigratori, sei OBBLIGATO ad accogliere tutti. Se Israele accettasse una simile proposta si trasformerebbe prima o poi in uno stato palestinese. Ecco come intendono i palestinesi "moderati" il famoso principio "due popoli due stati": ci deve essere uno stato palestinese e in più Israele deve diventare a sua volta palestinese. Davvero bravi!
3) La capitale della “Palestina” dovrebbe essere Gerusalemme, città santa per l'Islam.
Nel Corano si cita Gerusalemme un paio di volte, Gerusalemme è città santa per cristiani ed ebrei; lo è anche per gli islamici solo perché questi hanno la pessima abitudine di considerare “santa” più o meno ogni grande città che in passato hanno conquistato.

Se la autorità palestinese vuole uno stato palestinese questo deve comportarsi da stato. Deve ad esempio accettare che siano gli altri stati a regolare i loro flussi immigratori, far si che la gran maggioranza dei suoi abitanti lavorino in patria, smettere di dipendere per il consumo di energia da un altro stato, darsi una sua moneta che i mercati potranno valutare adeguatamente, avere un suo esercito regolare. Soprattutto deve rispettare gli altri stati, conscio che se non lo fa può subire le loro sacrosante ritorsioni. I palestinesi per ora vogliono un loro stato, ma di fatto vivono come una provincia autonoma di Israele, lavorano in Israele, usano la moneta israeliana, dipendono da Israele per le forniture di gas, acqua ed energia elettrica. Troppo comodo!

Tutte queste cosette i paesi della UE fanno finta di ignorarle, infatti hanno votato per il riconoscimento della “Palestina”, mentre la corte europea cancellava Hammas dalla lista dei gruppi terroristi.
La loro cecità è pari solo alla loro malafede. Per fortuna gli israeliani sanno combattere, e se ne fregano delle decisioni di un parlamento che non conta nulla. In fondo la UE è uno stato inesistente, non stupisce che abbia “riconosciuto” un paese inesistente.

mercoledì 17 dicembre 2014

LA PAURA







“Non bisogna avere paura”
“La paura è una pessima consigliera”
“Si ha paura di ciò che non si conosce”
“Non si deve aver paura del diverso”
Si potrebbe continuare. La paura è  oggetto di universale esecrazione da parte dei politicamente corretti. Guai ad aver paura, specie di ciò che non si conosce, specie di chi è diverso da noi. Conosciamolo, e smetteremo di averne paura, dicono sorridenti i "buoni" di mezzo mondo.
Ma, stanno davvero così le cose?
La paura è un sentimento, o un istinto, fondamentale, utilissimo alla sopravvivenza. La gran maggioranza delle specie animali, compresa, forse, la specie umana, si sarebbero estinte se la paura non avesse spinto istintivamente i singoli a fuggire i pericoli.
Ed è naturalissima la paura nei confronti di chi non conosciamo, ci è radicalmente diverso. Se mentre sto per coricarmi vedo sul cuscino del mio letto un grosso ragno istintivamente mi ritraggo, impaurito. Sbaglio a farlo? Forse quel ragno è del tutto inoffensivo, forse tenerlo accanto a me mentre dormo potrebbe giovare alla mia salute. Ma io mi ritraggo lo stesso, l'istinto mette a tacere le pretese rassicuranti della ragione, meglio, di una ragione ideologica, per fortuna. Perché non è affatto certo che quel simpatico ragno sia un mio potenziale amicone, forse è velenoso, addirittura mortale. E la paura che mi spinge ad allontanarmi da lui è una ottima consigliera.
Chi ripete fino alla noia che la paura nasce dall'ignoranza, e che se si conosce il “diverso” si cessa di temerlo, ha in mente l'idea di un mondo “naturalmente” dolce e buono. Tutti siamo buoni e bravi, tutto è dolce, bello, armonioso, basta conoscerlo. Peccato che le cose siano leggermente diverse, e meno rassicuranti. A volte è vero che conoscendo il diverso smettiamo di temerlo, ma a volte capita esattamente il contrario: cominciamo a temere il diverso precisamente nel momento in cui iniziamo a conoscerlo. Ciò che a prima vista appariva bello e rassicurante si rivela terribile. Conoscendo meglio chi ci sembra amico scopriamo che è un nostro implacabile nemico.

Fuor di metafora, chi oggi sbraita continuamente contro la paura, e ci invita a conoscere meglio chi ci è diverso per smettere di temerlo, è l'occidentale politicamente corretto; ed il diverso che dovremmo conoscere per non temere è l'Islam fondamentalista. Il fondamentalismo sarebbe una sorta di feticcio, il parto delle menti impaurite di occidentali incapaci di conoscere chi è diverso da loro. Si conosca meglio chi non è come noi e scopriremo che non c'è motivo per temerlo, anzi, ci sono ottimi motivi per amarlo. Il mondo è dolce ed armonico, tutte le culture e le civiltà, specie quelle non occidentali, sono caratterizzate da buoni sentimenti, basta conoscerle. Un gran bel quadretto, non c'è che dire. Però, se le cose stanno così, perché tanti occidentali hanno paura? Perché creano feticci terrorizzanti? Di nuovo, noi siamo i responsabili di tutto. Le nostre paure inconsce, forse conseguenza di atavici sensi di colpa per i nostri crimini storici, creano spettri paurosi che ci impediscono di conoscere e di amare. E provocano guerre, lutti e distruzioni.
Peccato che i fatti facciano a pugni con un simile, rassicurante quadretto. E non mi riferisco ai fatti di cui tutti i giorni ci parlano i media: gente sgozzata, attentati, lapidazioni, fustigazioni e tante altre simili dolcezze. Mi riferisco al fatto incontestabile del crescere fra gli occidentali della paura nei confronti del fondamentalismo terrorista. Si, perché la paura è cresciuta proprio nella misura in cui abbiamo iniziato a conoscerli, i nostri "buoni fratelli". Più aumentava la conoscenza più cresceva la paura. Ben lungi dall'essere figlia di istintivi pregiudizi la nostra paura nei confronti del fondamentalismo è figlia della conoscenza. Dopo che abbiamo ripetuto infinite volte che “si ha paura di ciò che non si conosce”, iniziamo a capire che a volte si ha paura di ciò che si conosce, proprio perché lo si conosce. A giusta ragione.

La paura è un sentimento utile, come è utile il coraggio. Ma, esattamente come è sbagliato trasformare il coraggio in temerarietà è profondamente sbagliato lasciare che la paura ci prenda la mano, si trasformi in panico. La paura va gestita, controllata. Tenuta sotto controllo può trasformarsi in alleato, se, fuori controllo, degrada in terrore, paralizza le nostre azioni e ci renda facili vittime di chi ci vuole distruggere.
Una paura ben gestita convive col coraggio, la determinazione, ci spinge non a fuggire rovinosamente ma a combattere con intelligenza. Se si trasforma in panico ci fa diventare vili, e ci spinge a strisciare di fronte a coloro che ci vogliono morti.
Di nuovo fuor di metafora, ad essere spesso schiavi della paura, anzi, del panico, non sono oggi quelli che intendono rispondere con forza ai crimini del fondamentalismo islamista. Sono i "dialoganti", i giustificazionisti, i “buoni” ad agire in preda ad una paura che ricorda il terrore. Dietro ai quadretti che ci descrivono un mieloso mondo che non esiste non sta una miglior conoscenza dell'altro, sta, in molti casi, l'incontrollabile paura che questo ci ispira. Certo, molti seguaci del politicamente corretto sono schiavi non tanto della paura quanto della ideologia, confondono davvero col mondo reale la loro melensa immagine del mondo, ma in molti casi è la stessa falsa coscienza ideologica ad essere ispirata dalla paura. E' più facile immaginare un mondo di buoni che rapportarsi seriamente con chi troppo buono non è. E, se proprio si deve prendere atto che ci sono anche i cattivi, nel mondo, è molto più rassicurante lottare contro cattivi che in qualche modo ci sono familiari. I malvagi capitalisti ed i perfidi finanzieri, i corrotti ed i corruttori, gli stessi potentissimi agenti di CIA e Mossad sono assai meno paurosi dei fanatici pronti a sgozzare in nome della fede. Per questo molti seguaci del politicamente corretto, trasudanti, insieme, ideologia e paura, eliminano dal mondo i secondi ed esagerano in maniera grottesca il ruolo dei primi.
Sono gli esponenti delle due grandi malattie dell'occidente: due mortali malattie che si alimentano a vicenda, in un pauroso circolo vizioso: l'ideologia politicamente corretta e la paura non controllata dalla ragione.

sabato 13 dicembre 2014

ADOLF HITLER E GLI ANTISIONISTI DI OGGI






L'ebreo nel corso dei secoli non ha mutato la sua essenza, si caratterizza per la mancanza di archè, non ha originalità né creatività, né genialità. Non sa fondare nulla, sa solo distruggere (…) a ben guardare l'ebreo non ha nulla di proprio, ma quello che possiede è solo preso a prestito. In tal senso è deserto di vera cultura
Queste considerazioni compaiono nel "Mein kampf" di Adolf Hitler e sono riportate, direttamente o riassunte, da Donatella Di Cesare in “Heiddeger e gli ebrei”. Qui come più avanti i brani in grassetto sono citazioni dirette di Hitler.
Heiddeger e gli ebrei” è un bel libro che contribuisce a dissipare le illusioni di chi considera l'adesione di Martin Heiddeger al partito nazionalsocialista una sorta di innocuo errore, al massimo un peccato veniale di opportunismo, privo di contenuto filosofico. Non è di questo tuttavia che intendo ora parlare. Mi interessa invece sottolineare la incredibile somiglianza fra le tesi di Hitler e quelle di coloro che si definiscono oggi “antisionisti ma non antisemiti”.

L'ebreo è una sorta di parassita che si nutre dell'altrui lavoro e delle altrui idee. “Al contrario di quel che in genere si crede gli ebrei, afferma Hitler, non sono neppure nomadi, perché il nomade possiede un territorio, sia pure indeterminato, sulla cui base ha potuto creare una cultura. L'ebreo invece, privo di terra e di ogni proprietà, trascina un'esistenza parassitaria a danno degli altri popoli” (Ibidem).
Cosa dicono oggi gli “antisionisti ma non antisemiti”? Gli israeliani vivono su una terra non loro e fondano il proprio benessere sullo sfruttamento parassitario dei palestinesi. Hitler parla di ebreo senza terra, gli israeliani una terra la hanno, ma solo perché la occupano abusivamente. Per gli “antisionisti non antisemiti” gli israeliani, cioè gli ebrei di oggi, sono parassiti, esattamente come lo erano per Hitler.

In cosa consiste l'essenza dell'ebraismo? “L'ebreo è un gran maestro di menzogne. Anzi, la menzogna segna la sua stessa esistenza. L'ebreo finge di essere quel che non è. Dissimula inganna” (ibidem).
Lo stato di Israele inganna il mondo, compie un genocidio mascherato, cerca di far credere di essere bombardato da Hammas che lancia invece sugli israeliani parassiti solo innocue armi giocattolo.

Neppure il Talmud è un libro che prepari all'al di la ma soltanto ad una pratica e redditizia vita quaggiù. Hitler lancia così un'accusa che risale almeno a Kant: l'ebraismo non è una religione, nulla avrebbe quindi in comune con lo spirito del cristianesimo” (ibidem).
E' quanto affermano oggi gli islamisti secondo cui Cristo è stato solo un profeta minore, temporalmente precedente a Maometto, del tutto privo di legami con l'ebraismo. Gesù non era ebreo. Gli “antisionisti non antisemiti” non hanno, ovviamente,  nulla da dire su simili imbarazzanti questioni teologiche, alcuni di loro si sono specializzati nel raccontare la palla di un Gesù "palestinese".

Per Hitler gli ebrei cercano di distruggere gli altri popoli , e oggi, guarda un po', gli israeliani vengono accusati di praticare il genocidio a Gaza. “L'elezione vantata dal popolo ebraico non sarebbe che una strategia perseguita mantenendo all'interno la propria omogeneità e minando dall'esterno l'identità degli altri popoli” (ibidem).

Il sionismo è un potente strumento di conquista e di oppressione che gli ebrei si sono dati. Gli ebrei “con il sionismo danno ad intendere che l'autodeterminazione del popolo ebraico sarebbe appagata con la creazione di uno stato; ma così ingannano un'altra volta gli stupidi perché non pensano di edificare uno stato ebraico in Palestina per abitarci. Non possono infatti mantenere uno stato spazialmente determinato per via del loro andamento anarchico e tribale. Ciò che vogliono è solo una centrale organizzata della loro truffa mondiale che abbia i diritti di sovranità per sottrarsi all'attacco di altri stati. Quel luogo di rifugio, usurpato, dato che non c'è posto nel mondo per l'ebreo, che ovunque può essere accusato di occupare illegittimamente la terra altrui sarebbe uno spazio, per definizione, sconfinato che renderebbe precario l'equilibrio del mondo, preluderebbe al dominio planetario” (ibidem).
Alcuni “antisionisti non antisemiti” hanno affermato che Hitler sarebbe stato sionista, solo perché prese in esame, come soluzione provvisoria della “questione ebraica”, non certo la fondazione di uno stato ebraico, ma il trasferimento coatto degli ebrei in Palestina. Poi, per non rovinare le buone relazioni col gran Muflì di Gerusalemme, Hitler optò per il Madagascar. Qui hanno la risposta, che combacia con molte delle loro tesi.
Hitler parla non di stato ma di territorio ebraico, tutti i leader islamisti, pienamente appoggiati dagli antisionisti occidentali, parlano non di "stato di israele" ma di "entità sionista".
Non c'è spazio al mondo per uno stato ebraico dice Hitler. E' esattamente ciò che teorizzano gli “antisionisti non antisemiti”. Tutti i popoli del mondo hanno un loro stato, Israele, lo stato degli ebrei, è l'unico la cui esistenza è costantemente messa in discussione. 
Gli ebrei occupano “illegittimamente” la Palestina, e sarebbe lo stesso per ogni altro territorio che occupassero dice Hitler. Sembra di sentir parlare un leader di Hammas, o un suo amico occidentale.
Per Hitler uno stato ebraico sarebbe uno strumento di conquista ed aggressione, per gli odierni nemici di Israele, ma, dicono,”amici”degli ebrei, Israele, uno stato delle dimensioni della Lombardia, costituirebbe il maggior pericolo per la pace mondiale.
Per Hitler il sionismo era uno strumento di inganno ed aggressione, per gli antisionsti di oggi una nuova forma di razzismo.
Hitler vedeva ovunque complotti ebraici, gli antisionisti di oggi sono fra i più paranoici propagandisti della teoria del complotto. Dietro a tutti gli episodi rilevanti del mondo di oggi ci sarebbero diaboliche cospirazioni, e chi sono i più diabolici di tutti i cospiratori? Lo stato di Israele, il Mossad, e, ovviamente, la finanza ebraica.

Ce n'è abbastanza, direi. L'antisionismo è la forma specifica che assumono oggi l'antisemitismo e l'antigiudaismo. Tutti i contorcimenti sofistici del mondo non potranno dissimulare questa verità.

domenica 7 dicembre 2014

IDENTITA'

L'identità è l'insieme coordinato delle caratteristiche di un ente, tutto quello che fa di un ente ciò che  questo realmente è. Ogni essere umano ha la sua identità. Ha un nome, un aspetto fisico, una vita interiore. Ha un certo modo di pensare, una storia privata e pubblica, un insieme di ricordi. Ha una cultura, sentimenti, simpatie ed antipatie, amori, a volte anche odi. Ha un suo modo di vedere il mondo e di rapportarsi agli altri. Soprattutto, ha la capacità di tenere unito tutto questo. Io coordino in ogni istante della mia vita stati mentali e fisici, il muoversi del mio corpo ed il fluire dei miei pensieri e delle mie sensazioni. Collego nel tempo i ricordi del passato alle aspettative per il futuro, unificandole in quell'attimo sempre fuggente che è il presente. Ed è questo “tenere unito” che fa si che io possa considerare mie le esperienze che vivo e possa dire che quella che sto vivendo è la mia vita.
La perdita della identità coincide con lo sfaldarsi di questo “tener unito”. Quando l'attività unificante inizia a perdere colpi l'io va incontro ad un irreversibile processo di decomposizione. Non connette, non unifica, la sua vita diventa un fluire indistinto in cui va persa ogni organizzazione, ogni distinzione ed ogni gerarchia di eventi . E' un processo che termina con la morte, ma anche prima del grande salto un io sgretolato, non unificato, non più centro della sua esperienza, cessa, a rigore di essere un io. E' un io privo di identità.

Anche le società e le civiltà hanno una loro identità. Certo, una società, e, a maggior ragione, una civiltà non sono degli individui. Non esiste una “signora società” con un suo sentire, pensare, agire distinto da quello degli individui che la compongono. Le società e le civiltà sono composte da individui, non sono super individui. Ma gli individui formano una società solo se sono uniti da qualcosa: un insieme di interessi, idee, valori, sentimenti comuni. Un comune senso di appartenenza, il legame con un linguaggio, un territorio, una tradizione. Questo insieme di interessi, idee, valori, costituisce il centro di gravità di civiltà e società. Se questo scompare la convivenza diventa ogni giorno più difficile, la cooperazione cessa, la società si spezzetta in una miriade di gruppi ed individui che si combattono o si ignorano a vicenda. Società e civiltà perdono allora la propria identità, si trasformano prima in contenitori vuoti, insiemi di persone non unite da nulla. Poi inevitabilmente decadono e muoiono.
Qualcuno potrebbe obbiettare che società libere, pluraliste e democratiche, non hanno, né possono avere un centro unificante. Libertà e pluralismo sono policentrici, pretendere che società fondate sul rispetto per la libertà individuale abbiano un centro unificante equivarrebbe a distruggere la libertà, dicono alcuni. Le cose sono però un tantino più complesse. Le società libere hanno più delle altre bisogno di un centro unificante, di pochi ma fondamentali valori largamente condivisi. Una economia di mercato non può funzionare se la gran maggioranza degli operatori non rispetta le regole della corretta concorrenza e, più in generale, se non esiste fra loro almeno un buon livello di reciproca fiducia. Una democrazia vive solo se il principio di maggioranza, e le sue limitazioni, sono largamente rispettati e condivisi. La libertà individuale degenera e muore se la stragrande maggioranza degli esseri umani non considera un valore fondamentale, stavo per scrivere “sacro”, la libertà della persona. In società prive di un centro di aggregazione gli individui si trasformano in monadi incomunicanti, capaci non di competere ma di combattersi, di ignorarsi ma non di ascoltarsi e rispettarsi reciprocamente.

I politicamente corretti odiano l'identità, meglio, la nostra identità. Parlano di "presunta identità”, storcono la bocca se qualcuno accenna ad una identità occidentale e subito appiccicano al malcapitato l'etichetta di “identitario”. Chi rivendica la nostra identità sarebbe un un pericoloso “reazionario” desideroso di “innalzare muri invece che costruire ponti”. Un intollerante sciovinista xenofobo, e chi più ne ha più ne metta. Invece di perdere tempo con le “identità” dovremmo “aprirci all'altro”, confrontare le idee, discutere, dialogare.
Si tratta però di sciocchezze. In realtà può aprirsi all'altro chi intanto è qualcuno o qualcosa, ha una sua identità. Posso scambiare idee se ho delle mie idee, posso prendere in considerazione valori in cui altri si riconoscono se ho dei miei valori, posso cercare di tener conto degli altrui interessi e cercare di armonizzarli con i miei se, appunto, ho dei miei interessi. E posso fare tutte queste belle cose se l'altro a cui desidero aprirmi è disposto ad aprirsi a sua volta con me, mi riconosce come interlocutore, senza considerarmi nemico.
Un individuo, un popolo o una civiltà privi di identità non possono discutere, confrontarsi, aprirsi con nessuno. Non si relazionano all'altro, possono al massimo cercare di contenerlo.
Contenere, questa è la parola chiave. Tutte le pretenziose sciocchezze che i seguaci del politicamente corretto spargono senza tregua dai media si basano in fondo su un fraintendimento, probabilmente voluto. Si scambia il confrontarsi con il contenere. Confrontarsi è impossibile se non si ha una identità propria.  Contenere vuol dire semplicemente accogliere in casa propria coloro che hanno una identità diversa. Accoglierli senza confrontarsi con loro, senza chieder loro nulla, un po' come il proprietario di un albergo non chiede nulla, né si confronta con i suoi clienti. Con una sostanziale differenza però: i clienti dell'albergo pagano.
Altro che apertura, confronto! I politicamente corretti vogliono solo accogliere. “Venite da noi”, dicono, “e noi non faremo nulla che possa urtare la vostra suscettibilità. Se i nostri discorsi vi infastidiscono noi parleremo a voce bassa, o smetteremo di parlare, ed anche di scrivere. Se le nostre feste sono per voi offensive noi le cambieremo: trasformeremo il Natale in festa dell'inverno e la Pasqua in festa della primavera, e se anche questo non basterà rinunceremo a Pasqua e Natale. Se i nostri costumi vi sembrano peccaminosi cercheremo di cambiarli, se le merci che si vendono nei nostri supermercati sono per voi intoccabili simboli di corruzione noi non obbligheremo quelli che di voi nei supermercati ci lavorano a toccarle, quelle orribili merci; col tempo vedremo di cessare di produrle e venderle. Costruiremo piscine separate per maschi e femmine, modificheremo le regole delle competizioni sportive, rimuoveremo simboli civili e religiosi che voi potreste considerare offensivi. E cambieremo i programmi scolastici, i nostri figli dovranno studiare la vostra storia e la geografia dei vostri paesi. Cercheremo, col tempo di imparare la vostra lingua. E se, malgrado tutto, voi continuerete a mettere bombe nelle nostre stazioni e dei nostri aerei noi, pur condannando certi atti estremi, cercheremo di capire le ragioni del vostro odio, e di meritarci il vostro amore”.
Nessun confronto, nessuna apertura quindi: solo la riduzione della nostra civiltà a contenitore. Un contenitore vuoto, asettico, una scatola in cui possano trovarsi bene coloro che hanno una identità diversa dalla nostra. Perché loro possono averla, una identità. Per loro essere “identitari” non è un crimine, loro non sono sciovinisti e xenofobi se rivendicano storia, tradizioni, simboli della loro civiltà.
La civiltà di Platone ed Aristotele, Kant e Newton, Dante e Shakespeare, Michelangelo e Beethoven ridotta a scatola vuota, e forse neppure a scatola, perché, in fondo, una scatola ha la sua identità: ha una forma, una dimensione, un colore. Sarebbe meglio dire ridotta ad un nulla culturale, mera virtualità, potenzialità ad accogliere, a contenere. Tutti, sempre, senza alcun confronto, scambio di idee, dibattito. Senza vero dialogo. Questa è la sostanza del politicamente corretto imperante nell'occidente decadente di oggi. Una sostanza celata, nascosta da fumosi discorsi, mascherata da bontà, solidarietà, volontà di dialogo e confronto. Ma che, al di là di tutte le maschere, si palesa tragicamente per quella che è: la proposta di una eutanasia dell'occidente.

venerdì 5 dicembre 2014

QUEI VENTI ANNI

La sinistra italica lo ha detto, ripetuto, strillato per oltre venti anni: “i mali del paese hanno una sola causa e quella causa ha un nome ed un cognome: Silvio Berlusconi”.
Per venti anni l'obiettivo della sinistra ideologica (e purtroppo la gran maggioranza della sinistra italiana E' ideologica) è stato uno solo: far fuori il cavaliere. Farlo fuori non politicamente, sconfiggendolo alle elezioni, farlo fuori nel senso di cacciarlo dalla politica, possibilmente richiuderlo in una cella, qualcuno pensava addirittura ad altro...
La magistratura ha aperto sul cavaliere centinaia di inchieste, in venti anni l'uomo di Arcore ha subito oltre 34 (TRENTAQUATTRO) processi, un record che neppure Al Capone, Luky Luciano, Totò Riina e Vito Genovese messi insieme possono avvicinare. E contro l'uomo di Arcore sono scesi in campo, a frotte, comici e cabarettisti, giornalisti e scrittori, intellettuali, filosofi, sacerdoti. Con i libri di alcuni di loro, tesi e "dimostrare” i crimini del cavaliere si potrebbero riempire gli scaffali di intere biblioteche. Da Santoro a Benigni, da Fazio alla Litizzetto, da Travaglio a Flores D'Arcais l'obiettivo è stato, per VENTI ANNI, sempre lo stesso. I sindacati dal canto loro hanno accolto ogni provvedimento economico del cavaliere con “combattivi” scioperi generali, mentre la commissione europea non perdeva occasione per esternare la sua antipatia nei confronti di questo “parvenu” che guidava la politica italiana.
Alla fine, in qualche modo, ci sono riusciti. La tanto sospirata ed attesa condanna del cavaliere è arrivata, al termine di una vicenda giudiziaria che definire “poco chiara” è eufemistico. Una piccola condanna, autentico topolino partorito da una imponente montagna di inchieste e processi, ma comunque una condanna. Poi, si è applicata retroattivamente al cavaliere una legge forcaiola ed il grande obiettivo è stato centrato: Silvio Berlusconi fuori dal parlamento! EVVIVA!
L'espulsione dal parlamento del resto è stato solo l'atto finale di un processo di emarginazione di Berlusconi iniziato con la caduta del suo governo e la nascita del governo Monti. Altra vicenda poco chiara (per usare un altro eufemismo).

Comunque, dal 2011 Berlusconi è, se non fuori, ai margini della politica italiana. Il mostro è stato sconfitto, la democrazia è salva, l'onestà può finalmente trionfare. Il grande inquinatore, il corruttore massimo è finalmente messo nella impossibilità di nuocere. Il paese si appresta a rinascere.
Ma, stanno davvero così le cose? Non mi interessa qui esprimere giudizi sulla persona, sulla politica o sulle vicende giudiziarie dell'uomo di Arcore, mi pongo solo una domanda: da quando lui non c'è le cose sono migliorate? Silvio Berlusconi era la causa di tutti o quasi i nostri mali, ebbene, ora che Berlusconi non ci governa più da oltre tre anni le cose vanno meglio? La crisi si sta risolvendo? L'occupazione aumenta? La povertà diminuisce? E la famosa “Europa”, quella che la sinistra italica applaudiva freneticamente quando rimproverava il cavaliere, ci è forse diventata amica ora che il nemico pubblico numero uno è emarginato? Strano, ora che il berlusca non c'è più sono in molti ad accorgersi che i famosi “vincoli europei” ben lungi dallo stimolare lo sviluppo, lo stanno strozzando.
E, scomparso il grande corruttore, sono migliorate le cose almeno nel settore della corruzione? Non sembra. Anzi, ora che il cavaliere non è più al centro della scena, molti magistrati hanno iniziato ad indagare su altre cosette, ed è venuto fuori che uomini e forze politiche che per anni si sono sciacquati la bocca con parole come “onestà”, “legalità”, “solidarietà”, proprio integerrimi non sembrano essere. Di fronte a quanto sta venendo fuori nell'inchiesta di Roma certi “crimini” che si attribuivano al cavaliere appaiono autentiche bazzeccole.
Lo ripeto, non mi interessa qui valutare la persona e la politica di Silvio Berlusconi. Sono però convinto che quando tutta la sua vicenda potrà essere valutata col necessario distacco l'antiberlusconismo fazioso e fanatico che ha caratterizzato per venti anni l'Italia sarà bollato come uno dei fenomeni più deleteri della nostra storia recente.

domenica 30 novembre 2014

COMUNISMO ERMENEUTICO



Ero in una libreria ieri pomeriggio, sul tardi.
Guardo i libri esposti in scaffale e ad un tratto l'occhio mi cade su un titolo: “Comunismo ermeneutico”. Gli autori? Un tal Santiago Zabala (mai sentito nominare) e Gianni Vattimo (lo conosco di fama, un gigante della filosofia).
Per un attimo sono combattuto fra una sorta di nausea intellettuale e la curiosità. Poi la curiosità ha la meglio. Prendo il libro, lo sfoglio, leggo la presentazione sul retro della copertina. Il comunismo ermeneutico “rielabora” Marx alla luce del pensiero di Heidegger, ed ha un suo preciso modello politico: il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales. Da Marx a Chavez passando per Heidegger! Fantastico itinerario! Il nemico, ovviamente, è il “pensiero unico neoliberista”, origine di tutti i mali del mondo. Come tutti sanno è stato infatti il “neoliberismo” a lasciare in eredità al genere umano svariate decine di milioni di cadaveri. I paesi “neoliberisti” sono afflitti, è notorio, da degradante miseria, ed i loro cittadini sono oppressi da sanguinarie dittature. Chi bestemmia è crocifisso o decapitato, e le donne adultere vengono lapidate nei paesi “neoliberisti”, ed ovunque, in qui paesi, esistono campi di lavoro forzato. O forse no, forse sto facendo un po' di confusione, invecchio...

Ma “Comunismo ermeneutico” non è solo un libro di politica, è un libro di FILOSOFIA poffarbacco! E se in politica il nemico è il “neoliberismo” in filosofia lo è il realismo. Il realismo ci vuole tutti schiavi, asserviti ai fatti. Chi è rivoluzionario non può che avversare il realismo, opporsi al concetto stesso di realtà. La realtà ci schiaccia con la sua presunta oggettività, dobbiamo ribellarci alla sua “dittatura”. Dobbiamo sostituire i fatti con le interpretazioni. Lo diceva anche il vecchio Nietzsche del resto che non esistono fatti, ma solo interpretazioni...
E si. A distruggere la nostra libertà non sono i tipini come Mao Tze Tung che a suo tempo stabilì che centinaia di milioni di cinesi potevano leggere solo i suoi scritti, solo quelli, in tutti i campi dello scibile umano. E la libertà non è distrutta da chi condanna a morte gli apostati o impicca gli omosessuali, o da chi, come ha fatto Hugo Chavez, chiude i giornali che osano criticarlo. No, la libertà è distrutta dal mondo che esiste, ed ha la pessima abitudine di non essere come noi vorremmo che fosse. Niente fatti, solo interpretazioni! I fatti dicono che i fondamentalisti islamici hanno fatto crollare le torri gemelle, causando quasi tremila morti? E noi ci ribelliamo alla loro dittatura e diciamo che i responsabili di quei morti sono la CIA ed il Mossad. I fatti ci dicono che gli angioletti di Hammas bombardano ogni giorni Israele coi loro razzi? E noi diciamo che i razzi di Hammas sono armi giocattolo. I fatti ci dicono che il comunismo, ermeneutico o meno che sia, è crollato? E noi diciamo che a crollare è stato un “falso” comunismo, o che a farlo crollare sono state le oscure manovre della finanza internazionale, probabilmente “sionista”. Il mondo smentisce i parti delle nostre menti? E noi lo “reinterpretiamo”, il mondo. Le vie dell'ermeneutica sono infinite.
Però, un dubbio mi coglie. Le interpretazioni, le semplici opinioni addirittura, non sono, a loro volta, dei fatti? E' o non è un fatto che il professor Gianni Vattimo abbia affermato che quelle di Hammas sono “armi giocattolo”? L'interpretazione che Lenin dà del pensiero di Marx è assai diversa da quella che ne danno Kautsky o Turati, questo è o non è un fatto? E se io nego che i fatti esistano la mia negazione non è, essa stessa, un fatto? Chi sostiene la non esistenza dei fatti si trova nella stessa scomoda situazione logica di chi nega l'esistenza della verità, e pretende che questa sua negazione sia vera. Si eliminino i fatti e lo stesso termine “interpretazione” perde ogni senso.

Ho commesso un peccato mortale, me ne rendo conto. Ho parlato di logica. Ma, lo sanno tutti, la logica nega, coarta, sopprime la nostra libertà, esattamente come la realtà, e come i fatti. I veri rivoluzionari della logica se ne fregano. Identità, non contraddizione, terzo escluso... ceppi, catene che impediscono al nostro spirito di librarsi alto, etereo nell'aria pura del comunismo ermeneutico.
La non contraddizione è il principio della vuota, immobile identità. Il principio della vita e del movimento è la contraddizione. Viva la contraddizione quindi, e, al diavolo la vecchia logica fondata sul principio di non contraddizione!
In effetti i grandi rivoluzionari non temono le contraddizioni. Parlano di dispotismo della libertà e di dittatura democratica, proibiscono lo sciopero in nome del potere dei lavoratori, invocano la pace nel momento stesso in cui, armati sino ai denti, invadono stati sovrani. Il professor Vattimo non è da meno. Difende i diritti delle donne e degli omosessuali e, nel contempo, chi le donne le frusta e le lapida, e gli omosessuali li impicca. Vuole la laicità ma ama chi teorizza il califfato. Ammira Karl Marx e Martin Heidegger che non pare fossero molto credenti, ma difende chi condanna a morte apostati e bestemmiatori.
Nella “Metafisica” Aristotele afferma che “se è corretto affermare che l’uomo è non uomo sarà corretto affermare che egli è trireme e che non è trireme”. Se “uomo” e “non uomo” sono lo stesso allora l'uomo è una trireme, visto che di certo “trireme” non è “uomo” e, nel contempo, egli non è una trireme, visto che, sempre di certo, “uomo” non è “trireme”. Si elimini il principio di non contraddizione e non sarà più possibile attribuire un significato determinato alle parole. Dire “uomo” equivarrà a dire “trireme” o “fiume”, o, perché no, “comunismo ermeneutico”. Per questo lo stagirita afferma che il principio di non contraddizione è il presupposto di ogni dimostrazione, di ogni affermazione e di ogni negazione, insomma, di ogni discorso sensato. Però, mi rendo conto di continuare a sbagliare, e a peccare. Si, perché, cosa può contare un Aristotele, figura secondaria nella storia della filosofia, di fronte ad un gigante del pensiero universale come il professor Gianni Vattimo? Probabilmente anche il signor Santiago Zabala, che, per mia gravissima colpa, fino a ieri non conoscevo neppure di nome, ha una profondità di pensiero enormemente superiore a quella del filosofo di Stagira.

Pensavo rapidamente a queste cose ieri, mentre in una grande ed abbastanza affollata libreria, sfogliavo con sommo rispetto il libro “Comunismo ermeneutico”, e ne leggevo rapidamente alcuni brani. Lo confesso. Per un attimo sono stato come travolto da un insano istinto masochista. Ho pensato di comprarlo, quel capolavoro, in maniera da poterlo leggere tutto, e con la dovuta attenzione. Stavo per avviarmi alla cassa per pagarlo quando è tornato, prepotente, quel senso di nausea intellettuale cui ho già accennato, quasi una leggera voglia di, mi si scusi il termine, vomitare. Ho anche pensato: “se lo compro, questo libro, una parte di ciò che pago finisce nelle tasche del professor Vattimo”. Il solo pensiero di contribuire a migliorare le finanze di un simile personaggio ha avuto l'effetto di uno schiaffone in pieno volto, e ha sconfitto il mio insano masochismo. Ho represso la voglia di stracciare il capolavoro che tenevo in mano, lo ho rispettosamente riposto nello scaffale e mi sono allontanato.
Di certo mi sono perso la lettura di un testo che diverrà un classico. Pazienza!

venerdì 28 novembre 2014

NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO




NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO
.
Lo ripetono in molti, lo afferma spesso e volentieri papa Francesco e lo dicevano i pontefici che lo hanno preceduto. E molti vedono in questa affermazione una implicita condanna del fondamentalismo islamista.
Però, a ben vedere le cose, che status logico ha l'enunciato “NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO”? Non è molto chiaro.

Si tratta di un enunciato descrittivo? In questo caso sarebbe palesemente falso. In realtà SI UCCIDE IN NOME DIO DIO, si uccide oggi in nome di Dio ed in nome di Dio si uccideva ieri, spesso in maniera spietata, crudele.

L'enunciato
NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO potrebbe essere non descrittivo ma normativo. Non dice come è la realtà, ma come questa dovrebbe essere. In questo senso è sensato ed ampiamente condivisibile.
Però, ha senso un enunciato normativo che resta sempre nel generico? Che senso ha ripetere all'infinito che “
non si uccide in nome di Dio”, senza mai dire chi, in nome di Dio, oggi uccide? Ripetere genericamente che non bisogna uccidere in nome di Dio senza mai nominare il fondamentalismo islamista ricorda chi, nel corso dell'ultimo conflitto mondiale, condannava i massacri di intere popolazioni senza nominare ebrei e nazisti. 

Il continuo ripetere che in nome di Dio non si uccide rischia così di diventare u a sorta di
auto assoluzione della religione. NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO, si continua a ripetere, quindi la responsabile di tutto è, ma guarda un po', l'economia. Chi sgozza, impicca, brucia viva la gente in nome di Dio lo fa, sotto sotto, con altre motivazioni, ben diverse dalla fede. I veri obbiettivi sarebbe il petrolio, il denaro, i profitti. Però, è molto strana la cosa. Ovunque nel mondo c'è gente che ha bisogno di petrolio, e ci sono aziende che cercano di realizzare profitti, e persone che amano il denaro. Però, solo in certi paesi si sgozzano si crocifiggono, si fanno arrostire numerosissimi esseri umani. E, combinazione, gli aguzzini sono persone che professano un certo credo, e le vittime, altra combinazione, persone di fede diversa, o accusate di favorire diverse fedi. Ed ancora, una persona sana di mente può davvero pensare che chi lapida le adultere, obbliga le donne ad indossare il velo, uccide apostati e bestemmiatori mira al profitto? Forse che non si possono far profitti vendendo minigonne? O si pensa ai profitti dei “mercanti di armi”? Sono davvero persone esecrabili i mercanti di armi, ma, dire che si fanno le guerre perché ci sono i mercanti di armi è un po' come dire che gli uomini hanno bisogno di mangiare perché ci sono i fornai...
La tesi secondo cui il vero obiettivo di chi ammazza in nome di Dio non è la fede ma altro è inoltre perfettamente reversibile. Se due paesi si fanno guerra per controllare un pozzo di petrolio un petroliere potrebbe sempre dire che “il vero obiettivo” della guerra non è il petrolio ma la supremazia religiosa e culturale. Chi cerca di spiegare la realtà visibile, controllabile, con il rimando ad un livello di realtà sotterraneo ed in linea di principio non controllabile, dimentica che con un simile metodo si può sostenere tutto ed il contrario di tutto.

In nome di Dio si è ucciso ed ancora si uccide, questa è la triste realtà, nasconderla con chiacchiere sul petrolio, i mercanti di armi o le multinazionali vuol dire solo cercare di cancellare dal mondo il fenomeno enorme del fanatismo religioso ed ideologico.
Occorre
condannare chi uccide in nome di Dio, dire chiaramente che in nome di Dio NON SI DEVE uccidere. Ma per farlo in maniera efficace, occorre uscire dal generico e dalle ambiguità. Occorre chiamare le cose col loro nome, dire chiaramente che oggi sono i fondamentalisti islamici ad uccidere in nome di Dio, condannare le loro azioni, combatterli, a tutti i livelli, compresi quello culturale e teologico.
Se no la litania sul “
non uccidere in nome di Dio” è destinata a restare una insopportabile forma di ipocrisia.

mercoledì 26 novembre 2014

L'INGIUSTO AGGRESSORE

Lo ha detto papa Francesco: “Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto”. Si può fermare un aggressore solo col consenso della “comunità internazionale”. Inoltre, ha sottolineato il  pontefice, fermare un aggressore non significa fargli la guerra: “Sottolineo il verbo ‘fermare’, ha detto Sua santità, “non dico bombardare o fare la guerra. Ma fermarlo”.
Evito, per non apparire irrispettoso, ogni commento sul fatto che si dovrebbero fermare i tagliagola dell'Isis senza usare nei loro confronti la minima violenza (forse qualcuno pensa ad un intervento miracoloso della divina provvidenza) e mi limito ad una modestissima domanda.
PERCHE'? Perché mai una singola nazione non può fermare un aggressore ingiusto? Perché occorre il consenso della “comunità internazionale”? E cosa è questa comunità? La totalità degli stati del mondo? O la sua maggioranza? Quando la Germania nazista ha invaso la Polonia, seguita a ruota dalla URSS di Stalin, la Polonia aveva o no il diritto di difendersi o doveva aspettare che la maggioranza degli stati d'Europa, o del mondo, le desse il beneplacito? Se tre stati invadono un paese che chiede solo di vivere in pace, e se la comunità internazionale assiste in silenzio, lo stato aggredito ha o non ha il diritto alla difesa? E se un alleato dell'aggredito decide di intervenire può farlo o deve prima aspettare che chi assiste in silenzio si svegli?
Più in generale, una aggressione cessa di essere aggressione se una maggioranza di stati non la definisce tale? E se la maggioranza dei paesi che risiedono all'ONU decidesse che è giusto distruggere Israele e far fuori i suoi miserabili cinque, sei milioni di abitanti, una simile azione diverrebbe moralmente lecita solo perché una maggioranza di paesi la ha approvata?
Ancora più in generale, un atto immorale diventa morale se la maggioranza lo approva? La lapidazione della adultere è entusiasticamente approvata, in molti paesi, dalla grande maggioranza della popolazione. Ciò la rende eticamente accettabile? Se vedo un bruto che violenta, nella generale indifferenza, una bambina innocente ho o non ho il diritto, anzi, il DOVERE di intervenire in sua difesa fregandomene, anzi, condannando, l'indifferenza della maggioranza?
Sua santità è un gesuita, è lecito ritenere che abbia letto le opere di Sant'Agostino, eppure sembra condividere la tesi, di derivazione utilitaristica, secondo cui è bene ciò che la maggioranza decide sia tale.

Qualcuno potrebbe obbiettare che decidere a maggioranza è l'essenza della democrazia, quindi che è giusto che la maggioranza stabilisca se è o non è lecito resistere ad una ingiusta aggressione. Però, a parte ogni altra considerazione, una cosa dovrebbe essere chiara: in democrazia la maggioranza non può decidere tutto. In una democrazia autentica, cioè liberale, la maggioranza non può sopprimere i diritti delle minoranze o degli individui. Nessuna maggioranza, anche schiacciante, può decidere, ad esempio, lo sterminio di una certa categoria di cittadini, o negare loro i diritti fondamentali, o impedir loro di difendersi da chi questi diritti vuole invece distruggere.
L'assemblea generale dell'ONU non assomiglia in nulla, neppure alla lontana, ad un parlamento democraticamente eletto, basti pensare che in quella assemblea siedono i rappresentanti di oscene dittature. Ma, anche a prescindere da questo, anche se questa assemblea fosse seriamente paragonabile ad un parlamento mondiale, non avrebbe comunque il diritto di negare ad uno stato il diritto all'autodifesa, né ai suoi alleati il diritto-dovere di aiutarlo in caso di bisogno.

Ma il Santo padre non si è limitato ad affidare, in maniera esclusiva, ad una evanescente “comunità internazionale” il compito di difendere gli aggrediti, senza ovviamente, sparare un colpo agli aggressori. Ha infatti aggiunto: “dobbiamo avere memoria, quante volte sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto la vera guerra di conquista”.
A quali guerre si riferiva, se è lecito chiederlo? Quali potenze hanno trasformato in guerra di conquista la guerra ad un aggressore ingiusto? Si riferiva forse all'URSS che dopo la sconfitta della Germania nazista si è praticamente annessa l'Europa orientale? O aveva in mente Israele che ha in effetti un po' ampliato i suoi confini per meglio difendere le sue città da indiscriminati attacchi terroristici?
Fare una affermazione come quella che si è riportata senza specificare a chi ci si riferisca significa, concretamente, rifiutare qualsiasi intervento militare contro un “aggressore ingiusto”. Stiamo attenti”, questo è il messaggio sottinteso, “quelli che dicono di combattere contro un aggressore ingiusto in realtà vogliono una guerra di conquista”, quindi, per evitare una presunta, ipotetica, guerra di conquista, si eviti di muovere un dito contro l'ingiusto aggressore. Meglio ancora, si cerchi il “dialogo” con questo ingiusto aggressore: forse poi tanto ingiusto e tanto aggressore non è. Non a caso Sua Santità ripropone in ogni occasione il dialogo con tutti, ma proprio con tutti, anche con chi di dialogare non ha nessuna intenzione, preferisce uccidere, uccidere fra gli altri, moltissimi cristiani.
Dietro la continua esaltazione del dialogo, della comprensione, della bontà si favoriscono le aggressioni, si da forza alla prepotenza, si favorisce lo scoppio di nuovi, sanguinosi conflitti.
Certo, tutto questo a partire da nobili, lodevoli intenzioni. Ma, come si dice, di buone intenzioni è lastricata la strada che porta all'inferno.

venerdì 21 novembre 2014

UNA VALUTA PALESTINESE?

palestina-israele


In Europa sembra si stia diffondendo una autentica smania di riconoscere la “Palestina”. Eppure questo stato, che tutti hanno voglia di riconoscere, è alquanto strano. Si tratta di uno stato dai confini imprecisati e di cui non si conosce la capitale; uno stato che non si sa da chi sia governato, privo di esercito regolare, di una magistratura e di una polizia dotate di vera giurisdizione ed autentici poteri di controllo sulla popolazione. Uno stato privo di una propria valuta e di una propria banca centrale. Su quest'ultimo punto vorrei spendere due parole.

A Gaza ed in Cisgiordania circola il NIS, (new Israeli shekel, la moneta israeliana) e gli accordi di di Oslo prevedevano esplicitamente che nei territori amministrati dalla autorità nazionale palestinese (ANP) circolasse la valuta israeliana. Questo è oggi oggetto di forti critiche da parte dei nemici di Israele. La “Palestina” non ha una propria valuta, dicono costoro, il che deprime la sua economia. Però le resistenze israeliane ad una valuta autonoma palestinese sono piuttosto comprensibili. Gaza dipende da Israele per le forniture di gas e acqua, i malati palestinesi vengono curati negli ospedali israeliani, la maggioranza degli abitanti di Gaza lavora in Israele. Non si vede perché gli israeliani dovrebbero accettare di vedersi pagare i loro servizi (quando sono pagati) e le loro merci in una moneta ultra svalutata. Un paese non può volere l'autonomia valutaria ed essere, insieme, la provincia assistita di un altro paese. Gaza vuole una sua valuta? Allora dovrebbe cercare di renderla minimamente competitiva e dovrebbe, soprattutto, rendersi davvero economicamente autonoma. Perché mai un commerciante israeliano dovrebbe accettare in pagamento una valuta con la quale non potrebbe comprare praticamente nulla? Chi teorizza una valuta autonoma per la Palestina dovrebbe accettare che gli operatori israeliani fossero liberi di rifiutare i pagamenti in tale valuta, ma una cosa simile sarebbe subito tacciata di “razzismo”.
Si possono fare considerazioni simili riguardo al fatto che la gran maggioranza dei palestinesi lavora alle dipendenze di ditte israeliane. Questo sarebbe la prova, per alcuni, del “colonialismo” di Israele. In realtà essere pagati con valuta israeliana conviene ai palestinesi, visto che a Gaza i prezzi sono più bassi e si può comprare con un NIS più merce di quanta se ne possa comprare in Israele. In ogni caso il fatto che i palestinesi lavorino in Israele dimostra solo che a Gaza non c'è sviluppo economico ed in Israele si, il che non ha nulla a che vedere col “colonialismo”.

Un paese vero, che aspiri al riconoscimento internazionale e ad instaurare relazioni commerciali con altri paesi deve avere una valuta in grado di interessare i possibili partner. Allo stesso modo, un paese che aspiri al riconoscimento internazionale non può dipendere in toto dalla economia di un altro paese. Se l'ottanta per cento della manodopera italiana lavorasse in Francia l'Italia sarebbe un paese vero? E avrebbe senso per un simile paese la richiesta di una autonomia valutaria?
Il problema autentico allora non è quello del presunto “colonialismo” israeliano o della mancanza a Gaza ed in Cisgiordania di una valuta palestinese. Il problema vero è riassumibile in una domanda: I governanti del presunto stato palestinese mirano allo sviluppo economico? Vogliono che si sviluppi una industria palestinese? Che si producano beni e servizi palestinesi minimamente competitivi? Vogliono che a Gaza ed in Cisgiordania sorgano scuole ed università qualificate? Che si diffondano un commercio ed un credito efficienti? Basta fare la domanda giusta per avere la risposta. E la risposta è NO.
I miliardi di aiuti internazionali che la “Palestina” ha ricevuto non sono stati spesi in fabbriche, scuole ed ospedali, ma in armi (o sono finiti nelle tasche di qualche leader carismatico). A Gaza è fiorente l'industria dei tunnel e i caporioni da Hammas, con il beneplacito di quelli della ANP, preferiscono che i giovani si allenino al martirio piuttosto che frequentare buone scuole ed università.
Il problema di Gaza e della “Palestina” è quindi politico, non economico. I leader palestinesi non sono minimamente interessati allo sviluppo perché la lotta contro Israele monopolizza tutte le loro attenzioni, anche se questa lotta ha evidenti effetti negativi per la loro economia. Molti denunciano le conseguenze economiche negative del muro israeliano, ma se i palestinesi rinunciassero sul serio al terrorismo quel muro potrebbe cadere. Denunciano altresì la mancanza di un aeroporto internazionale a Gaza. Ma, a cosa servirebbe questo aeroporto? Agli spostamenti di merci e passeggeri o alla guerra infinita contro Israele?
Cercare di eliminare dal mondo l'”entità sionista” ha conseguenze economiche disastrose per tutti, ma soprattutto per i palestinesi; questo però sembra interessarli poco. Salvo poi lamentarsi del fatto che in Israele tutti i fondamentali indicatori economici siano enormemente migliori che non a Gaza o in Cisgiordania. Per i fanatici e gli ipocriti i successi economici sono la prova del carattere malvagio di un popolo e di uno stato. Lavorare e produrre sono una colpa, qualcosa di intrinsecamente “colonialista”! La cosa triste è che c'è un buon numero di persone che a queste idiozie ci crede.

mercoledì 19 novembre 2014

ANCORA SU ISRAELE.





Le reazioni alla mattanza


Lo dico senza giri di parole. Molte dichiarazioni riguardo alla strage alla sinagoga di Gerusalemme grondano ipocrisia. La signora Mogherini, ad esempio, ha fatto seguire alla formale condanna per la mattanza la constatazione secondo cui simili episodi sono destinati a moltiplicarsi se non va avanti il “processo di pace”. Altri hanno parlato di “spirale dell'odio” o di “rabbia che cresce in Israele". E chi è responsabile se il “processo di pace” è bloccato? Chi della “rabbia” e della “spirale di odio”? Ma, è evidente: Israele! Insomma, gli israeliani se la sono cercata. Certo, fanno male i palestinesi a cedere alla “rabbia”, ma, bisogna capirli, poverini! Sarebbero pronti alla pace ed i malvagi israeliani gliela negano, volete che a qualcuno di loro non saltino i nervi?
Non mi interessa qui ripetere per l'ennesima volta che in realtà il vero responsabile del blocco del processo di pace è Hammas. E' Hammas che NON vuole riconoscere il diritto di Israele ad esistere e che parla di riconquista di tutte le terre che sono state islamiche. Se chi giustifica Hammas si prendesse la briga di leggere il suo programma avrebbe di che meditare. Ma, tralasciamo. Ammettiamo, per pura comodità di ragionamento, che gli Israeliani siano dei malvagi oppressori, questo spiega (non dico giustifica, spiega) atti come la mattanza alla sinagoga?
Gli ebrei hanno dovuto subire nel corso di due millenni innumerevoli persecuzioni, culminate in quella immensa tragedia che è stata l'olocausto. Si sono visti forse, dopo il 1945, ebrei farsi esplodere a Berlino? O ammazzare a casaccio, a colpi di mannaia, innocenti civili tedeschi?
Gli Istriani hanno dovuto subire il dramma delle Foibe, qualcuno di loro ha mai sparato alla cieca contro dei civili iugoslavi?
Il comunismo ha causato, ovunque nel mondo, milioni di vittime. Qualche sopravvissuto ai gulag è mai entrato nella sede di qualche partito comunista uccidendo chiunque incontrasse?
Sarà un caso ma solo il fondamentalismo islamico ha adottato ed applicato su larghissima scala la tecnica del massacro indiscriminato, dell'uccidere a casaccio il primo che passa. Ed è una tecnica che i nostri fratelli mettono in atto
non solo in Israele ma in tutto il mondo. Altro che “spirale dell'odio”, e “rabbia” causate dagli israeliani! La rabbia e l'odio sono il pane ed il companatico del fondamentalismo islamista, la base della sua cultura, i valori, no, i disvalori, che guidano le azioni dei suoi militanti. In Israele, ma anche in Europa, ed in America, ed in medio ed estremo oriente, ovunque. 

Un grosso equivoco

Molti occidentali che pure non amano il fondamentalismo islamico provano una certa simpatia per i palestinesi ed una simmetrica antipatia per gli israeliani. Una cosa sono l'Isis ed Al Qaeda, altra Hammas, sostengono. Per queste persone (mi riferisco a quelle in buona fede e pensanti, non agli imbecilli ed ai faziosi), per queste persone, ripeto, lo scontro fra israeliani e palestinesi sarebbe un normale conflitto nazionalistico. I palestinesi sarebbero stati privati dagli israeliani della loro patria, da qui il lunghissimo conflitto che oppone gli uni agli altri.
Non è il caso di ricordare ancora una volta i numerosi fatti storici che smentiscono l'affermazione secondo cui i palestinesi sarebbero stati privati dagli israeliani della loro “patria”: non è mai esistito uno stato palestinese,  gli insediamenti ebraici sono avvenuti nella forma di acquisto e non di rapina di terre, la risoluzione dell'ONU che sanciva la nascita di Israele sanciva anche la nascita di uno stato palestinese e così via. Mi permetto invece di proporre un piccolo esperimento mentale a chi, in buona fede, considera quello fra israeliani e palestinesi un normale conflitto nazionalistico.
Poniamo che Israele non sia mai nato, che non ci sia stata l'immigrazione ebraica in “Palestina”. Immaginiamo che le terre su cui attualmente sorge lo stato di Israele facciano parte della Siria o della Giordania. Non si tratta di una ipotesi campata in aria. Molti a suo tempo sostennero che quella che oggi molti chiamano “Palestina” dovesse diventare una regione della Siria. Ebbene, gli amici dei palestinesi pensano che in questo caso esisterebbe comunque un movimento palestinese di indipendenza nazionale? Che ci sarebbero richieste di separazione della Palestina dalla Siria o dalla Giordania? Mi permetto di dubitarne.
Si potrebbe obiettare che la mia è una ipotesi controfattuale, impossibile da dimostrarsi. Mi permetto allora di fare una piccola domanda: le terre su cui oggi sorge lo stato di Israele sono state per moltissimo tempo parte dell'impero ottomano. E' mai sorto un movimento nazionale palestinese che reclamasse la indipendenza della “Palestina” dall'impero ottomano? La risposta, stavolta niente affatto ipotetica, è
NO. Non solo, un movimento nazionale palestinese non è sorto neppure dopo la formazione dello stato di Israele. Lo stato di Israele nasce nel 1948, l'organizzazione per la liberazione della Palestina nel 1964, sedici anni dopo. Per moltissimo tempo lo scontro è stato non fra israeliani e palestinesi, ma fra Israele e stati arabi, cosa assai diversa.
Con questo non voglio dire che, se
oggi i palestinesi si sentono una nazione, non abbiano diritto ad un loro stato, ma deve essere uno stato che viva pacificamente al fianco e non al posto di Israele. Ma, proprio qui sta la difficoltà, praticamente insolubile. Da dove sorge questa difficoltà?  

Nazionalismo o fondamentalismo?

Non raccontiamoci palle. Israele è uno stato che ha le dimensioni più o meno della Lombardia, con circa sei milioni di abitanti. Sorge su un pezzo di terra desertica, priva di petrolio e ricchezze naturali. E' circondato da stati enormi e popolosi. Pensare che l'esistenza di un simile stato costituisca in quanto tale un problema che in 66 (
sessantasei) anni non è stato possibile risolvere è del tutto fuorviante. Se una cosa non manca in medio oriente questa è la terra; se davvero il conflitto che oppone israeliani e palestinesi fosse un normale conflitto nazionalistico lo si potrebbe risolvere, con un minimo di ragionevolezza e buona volontà. Lo spazio per dare una patria ai palestinesi lo si potrebbe trovare, se davvero questo fosse il problema. Ma non è questo il problema, quanto meno non è questo il problema fondamentale.
In realtà lo scontro fra israeliani e palestinesi è oggi soprattutto, se non esclusivamente, scontro fra occidente e fondamentalismo islamico. E' uno scontro religioso e, prima ancora, culturale. Per questo, non per il mancato riconoscimento del presunto stato palestinese, appare ad oggi insolubile. Hammas non vuole una patria per i palestinesi, meno ancora vuole uno stato palestinese che conviva con Israele, meno che mai vuole uno stato palestinese democratico, tollerante, che garantisca a tutte le fedi pari riconoscimento e pari libertà di culto. Hammas mira a sostituire Israele con un califfato islamico, uno stato in cui i non mussulmani sarebbero, nella migliore delle ipotesi, cittadini di serie B, o C. Se non si capisce questo non si capisce nulla, ma proprio nulla della crisi in medio oriente.  

La testardaggine degli israeliani.

Molti occidentali lo pensano, probabilmente, ma non lo dicono. Perché continuano a resistere questi israeliani? In fondo che vita è la loro? Sempre con l'incubo di razzi ed attentati. Accettino la vittoria dei loro nemici, sarà sempre meglio che questa guerra infinita.
Chi pensa queste cose dovrebbe immaginarsi cittadino di uno stato in cui le adultere vengono lapidate, le donne infibulate, apostati e bestemmiatori condannati a morte e tante altre belle cose. Ma, anche prescindendo da questi “dettagli” chi in occidente teorizza, senza parlarne troppo, la resa di Israele al fondamentalismo dimentica un paio di cosette, essenziali.
In primo luogo, gli israeliani hanno offeso, per il solo fatto di esistere, l'orgoglio dei fondamentalisti islamici. Israele è uno stato ebraico che sorge in una terra che i mussulmani avevano conquistato all'Islam, e questa è già per loro una provocazione enorme. Inoltre Israele ha sconfitto ripetutamente chi voleva cancellarlo dalla faccia della terra e questo è assolutamente intollerabile per i fondamentalisti di tutte le salse. Se Israele dovesse essere sconfitto l'odio dei suoi nemici diventerebbe, con tutta probabilità, irrefrenabile. Gli ingenui, in buona o cattiva fede, possono pensare che una volta riconosciuto lo stato palestinese ebrei e mussulmani potrebbero convivere pacificamente, volendosi tanti bene, anche se con gli ebrei ridotti a cittadini di serie B. Questa è solo una delle tante illusioni dei finti “buoni”. La sconfitta di Israele non creerebbe alcun tipo di “civile convivenza fra diversi”, come cianciano i “politicamente corretti”, ma darebbe il via ad un massacro, questo si, genocida. Gli israeliani queste cose le sanno benissimo, per questo combattono con una tenacia che a noi appare incredibile. A molti occidentali sembrano davvero esagerati, questi israeliani, ma loro hanno il pessimo difetto di preferire le condanne ipocrite dei finti pacifisti alle loro ipocrite condoglianze. E fanno bene.
Inoltre, chi pensa ad una resa di Israele non capisce che una simile resa avrebbe conseguenze mortali per l'occidente tutto. Se uno stato piccolo, ma forte e determinato come Israele fosse sconfitto vorrebbe dire che qualsiasi altro stato può essere sconfitto. Con le armi, o con la pressione demografica, o con l'immigrazione priva di limiti e controlli, o col ricatto di un terrorismo che renda impossibile a tutti qualsiasi forma di quieto vivere.
Resistendo al fondamentalismo Israele difende anche noi, che forse non ce lo meritiamo troppo, di essere difesi.


sabato 15 novembre 2014

TORSAPIENZA



Non occorrevano particolari doti divinatorie per prevedere episodi come quello di Torsapienza. E non ne occorrono per prevederne altri, magari brutti, inquinati sul serio da rigurgiti razzisti.
Cosa si aspettavano le anime belle di casa nostra? Speravano davvero che l'ingresso di decine, forse centinaia, di migliaia di clandestini in un paese già prostrato dalla crisi economica portasse un “pacifico ed arricchente dialogo fra diversi”? Una persona sana di mente poteva davvero pensare che la presenza nelle periferie delle grandi città di migliaia di persone prive di lavoro non si sarebbe trasformata in degrado, illegalità, violenza?

Eppure sembra che sia QUESTO il pensiero delle anime belle. Il sindaco diRoma Marino ha affermato, con faccia contrita, che “una cosa è l'accoglienza, altra cosa la violenza”. Poverino, neppure è sfiorato dal dubbio che fra “accoglienza” di un numero spropositato di clandestini e violenza ci possa essere un qualche nesso causale.
I commentatori televisivi dal canto loro cinguettano che il vero problema non sono i “migranti” ma “il degrado delle periferie”, come se l'ingresso massiccio di “migranti” nelle periferie non contribuisse al degrado. Certo, se ogni migrante fosse ospitato in un villino ed avesse garantito un reddito, diciamo, fra i 2.000 ed i 3.000 euro mensili il degrado sarebbe minore. Peccato che la ricchezza abbia il pessimo difetto di NON esistere in natura. Qualcuno la deve produrre...
Altri ancora, dopo avere, all'inizio, bollato gli abitanti di Torsapienza con l'epiteto di “razzisti”, hanno cambiato registro. “Gli abitanti di Torsapienza”, dicono, “vogliono che lo stato li protegga da tutti, italiani o stranieri, neri o bianchi che siano”. Il discorso non fa una piega, in astratto: chi delinque deve essere perseguito, indipendentemente dalla nazionalità o dal colore della pelle. Peccato che l'immigrazione incontrollata abbia trasformato certi quartieri in “terre di nessuno” in cui a delinquere sono, in maggioranza, i non italiani. E, cosa si dovrebbe fare, di grazia, per proteggere i cittadini? Piazzare un poliziotto in assetto di guerra ogni cento metri? L'azione delle forze dell'ordine è destinata a restare tragicamente insufficiente in situazioni di totale degrado, a meno che non si vogliano militarizzare intere aree urbane. Qualcosa non solo di estremamente costoso, ma di pericoloso per la democrazia e le libertà di tutti. Il punto è sempre lo stesso: occorre evitare il degrado, quanto meno ridurlo, invece nulla favorisce il degrado, l'illegalità e la violenza più della politica delle porte aperte.

Ci sono poi gli intellettuali “profondi” che dispensano dai media le loro lezioni di filosofia morale. Uno scrittore di cui non ricordo il nome, non credo però che sia un novello Dostoevskij, ha pontificato l'altra sera in un TG.
“A Torsapienza”, ha detto, “è in corso una guerra fra poveri, e le guerre fra poveri sono una cosa bruttissima. Non occorre guerra ma dialogo, comprensione l'uno delle ragioni dell'altro”.
Molto, molto commovente. Però, è proprio sicuro questo insigne scrittore che a Torsapienza siano tutti poveri? O che lo siano come i “migranti”? Si dice “guerra fra poveri” e subito si pensa a due disoccupati in lotta fra loro per accaparrarsi l'unico posto di lavoro disponibile, ma stanno così le cose nelle periferie degradate?
 

Ho vissuto in gioventù, quindi alcuni secoli fa, in un quartiere del centro storico di Genova, molto bello, ma “degradato”, anche se di un degrado assai diverso da quello che caratterizza oggi certe terre di nessuno urbane. Non ero ricco ma, tutto sommato, forse neppure particolarmente povero. Io lavoravo in banca, mia moglie in una grande azienda, avevamo due bambini piccoli. Ciò che ci rendeva la vita impossibile non era la lotta con altri poveri per il lavoro o qualche sovvenzione statale. Erano branchi di ragazzotti che giravano fino a notte tarda sotto le finestre di casa nostra con rumorosissime moto da cross, bar da cui salivano in continuazione urla e musica a tutto volume, il non poter parcheggiare, la sera, l'auto vicino a casa per il timore di trovartela sfasciata la mattina dopo, o non trovartela affatto, il clima di violenza diffusa che respiravi ovunque.
Una volta ho affrontato un gruppo di ragazzotti che facevano casino sotto casa nostra più o meno all'una di notte. “Se non ve ne andate”, ho detto loro, “vi caccio io a calci”. “E io conosco uno che domani ti pianta un coltello nella pancia” ha risposto uno dei teppistelli. Lo confesso, non mi aspettavo una simile reazione e non ho saputo come reagire. Ancora qualche reciproca minaccia, poi li ho mandati a fan... e son tornato a casa. I teppistelli dopo un po' hanno tolto il disturbo. Non troppo tempo dopo abbiamo abbandonato quel quartiere, e la città. Amavamo Genova, ad anche il bel quartiere in cui avevamo vissuto, ma abbiamo preferito acquistare una casa fuori città. Tutto questo con la “guerra fra poveri” non c'entra nulla, assolutamente nulla.
La triste realtà è che certi quartieri erano, fino a un po' di tempo fa, più o meno vivibili. Dopo che sono diventati zone di insediamento per “migranti” sono diventati invivibili. Questo le anime belle non lo capiscono, o non lo vogliono capire. Anche perché vivono,
LORO, in quartieri ben diversi, lontani da ogni degrado.

domenica 9 novembre 2014

IL CROLLO DEL MURO




Venticinque anni fa crollava il muro di Berlino. E con quel muro crollava il comunismo. Il comunismo. Doveva segnare, per dirla con Marx, il salto dal regno della necessità a quello della libertà, la conciliazione dell'uomo con se stesso e con la natura non umana. Una comunità armonica, priva di contrasti, doveva subentrare all'egoismo atomistico della società borghese; l'economia razionalmente pianificata doveva prendere il posto della anarchica economia di mercato, e la vecchia, formalistica, democrazia borghese sarebbe stata soppiantata da nuove forme di partecipazione democratica “dal basso”. Utopie. Ma non utopie ingenuamente buone, utopie assassine. Si, assassine, perché quelle utopie, per realizzarsi, richiedevano una trasformazione radicale della natura umana, una trasfigurazione violenta dell'uomo e della società che dovevano adattarsi al modello ideale sognato dai dogmatici.
Così le nuove forme di democrazia si sono identificate col potere assoluto del partito prima e di un singolo tiranno poi. L'economia pianificata si è dimostrata del tutto inefficiente ed improduttiva. Il “potere dei lavoratori” si è realizzato nella forma del loro totale asservimento allo stato onnipotente.
Il comunismo è potuto sopravvivere solo sottoponendo la società tutta ad una dittatura totalitaria quasi senza precedenti nella storia. Ed è bastato che in quel sistema si insinuasse un minimo di libertà per farlo implodere miseramente. Il muro di Berlino è crollato quando le autorità della Germania est hanno concesso una limitatissima possibilità di movimento verso Berlino ovest. Folle enormi si sono allora riversate verso l'inferno capitalista, dominato dal “Dio denaro”. E della “società perfetta” non sono rimaste che macerie.

Però, per molti, specie da noi in Italia, il crollo del muro di Berlino non ha coinciso con il crollo del comunismo. No, col crollo del muro di Berlino il comunismo è stato “dimenticato”, addirittura cancellato dalla storia. Prima il comunismo era il futuro, il paradiso prossimo venturo che avrebbe sostituito l'anarchica economia di mercato. Dopo il suo crollo il comunismo è stato cancellato dal passato. Il comunismo non è mai esistito. Col crollo del muro di Berlino gli ex ed i post comunisti, ed i loro amici, hanno cercato di imporre a tutti un assordante, orwelliano, silenzio su quella che è stata una delle esperienze più traumatiche della storia.
Oggi, se qualcuno parla di comunismo subito i suoi interlocutori accennano ad irridenti sorrisini. “Parli di comunismo?” cinguettano, “ma, guarda che il muro di Berlino non esiste più...”. Gli stessi che per decenni lo hanno difeso ed esaltato, quel muro, non ne vogliono più sentir parlare, sono diventati “allergici al comunismo”.
Ma non sono diventati allergici al comunismo perché hanno gettato quella ideologia e quella esperienza nella “pattumiera della storia”. No, purtroppo. Continuano considerare l'economia di mercato una sorta di inferno ed il profitto una specie di furto, e guardano ancora con occhi commossi il ritratto di Che Guevara. Il crollo del comunismo toglie ai suoi attuali nostalgici la fastidiosa incombenza di fare i conti con l'esperienza. Non esiste un comunismo “reale” con cui fare i conti, una società concreta da paragonare a quella borghese occidentale oggetto di tante critiche e condanne. Tanto meglio!
Veramente qualche stato comunista ancora esiste, ma, si tratta di esperienze “anomale”. Della Corea del nord si sa tanto poco (come mai?). La Cina? Criticabile, ma è... “capitalista”. E Cuba? Si, non se la passa bene, ma la colpa è tutta del “blocco americano”. Chi cancella oltre settanta anni di storia può benissimo prescindere da qualche pezzo di carta geografica.

Il comunismo è oggetto di una colossale rimozione freudiana. Ed anche il linguaggio usato dai media avalla questa rimozione. Per gli annunciatori televisivi il crollo del muro di Berlino non segna la fine del comunismo, ma quella della guerra fredda. Col crollo del muro finisce la divisione del mondo in blocchi contrapposti, ci dicono. Prima eravamo tutti cattivi, litigavamo. Poi è crollato il muro di Berlino e questo brutto litigio è finito. E ora, tutti insieme, possiamo guardare avanti.
No, le cose non stanno così. E' vero, col crollo del muro finisce la guerra fredda, ma finisce perché uno degli antagonisti esce di scena. Con la battaglia di Berlino (ancora Berlino!) nel 1945 termina la guerra in Europa, ma la fine della guerra è, insieme, il crollo del nazismo. Con il crollo del muro di Berlino nel 1989 termina la guerra fredda, ma la fine della guerra fredda è, insieme, il crollo del comunismo. Piaccia o non piaccia la cosa, nel 1989 l'occidente vince la guerra fredda.
Dire simili cose è “brutto”, sa tanto di “arroganza”. Chi le dice rischia di apparire un “guerrafondaio”. Gli occidentali politicamente corretti non amano parlare di guerre, neppure fredde, e meno ancora di vincitori e di sconfitti. Meno che mai amano parlarne in un momento come questo, in cui un nuovo conflitto si profila, anche se nessuno vuole prenderne atto: quello fra occidente e fondamentalismo islamista.
E così anche la commemorazione del crollo del muro di Berlino rischia di diventare una occasione, una delle tante, per l'ennesima retorica buonista e pacifista. E per l'ennesima mistificazione della storia.
Per fortuna nelle menti e nei cuori delle popolazione dell'Europa dell'est è ben vivo il ricordo del “comunismo realizzato”. Ed un forte sentimento di avversione per il totalitarismo comunista è ben presente anche in gran parte dei popoli dell'Europa occidentale. Un ottimo presidio contro tutti i tentativi di rimozione e di mistificazione.


venerdì 24 ottobre 2014

LA GUERRA ALLE "BRUTTE" PAROLE

famigliacr_43772237.jpg

I politicamente corretti di casa nostra hanno dichiarato guerra alle parole. Il periodico cattocomunista “famiglia cristiana”, l'”Avvenire” e l'immancabile presidente della camera, signora Laura Boldrini, vogliono ripulire il linguaggio. Una parola uccide quanto un proiettile, affermano, e vogliono che nessuno dia del “terrorista” ad un mussulmano o della “ladra” ad una rom. Ovviamente nei confronti di altre parole gli angioletti del politicamente corretto non sono altrettanto severi. Le parole da vietare sono quelle che possono offendere i nostri fratelli mussulmani, o i “migranti” o i rom. Dire “terrorista” ad un mussulmano è come sparargli, ma dirlo ad un giovanotto che milita in un gruppo di estrema destra no. E dare della “ladra” ad una giovane rom è intollerabile, ma non lo è definire “amico dei mafiosi” un tale che ha votato Forza Italia. “Negro” è una parola che ha l'effetto di un proiettile mentre “razzista” ha l'effetto di una affettuosa carezza. Come tutte le guerre anche quella contro le parole distingue fra amici e nemici.

Molto spesso chi afferma che parole e proiettili sono più o meno la stessa cosa usa poi i proiettili contro le parole, e spedisce chi ha la sventura di usare qualche parola proibita in comodi lagher, ma, non formalizziamoci. In Italia, come in tutti i paesi civili, non si può insultare nessuno. Se io do del “terrorista” ad un mussulmano lo insulto, quindi, già ora, senza bisogno di censure, non posso farlo. Se la guerra contro le parole politicamente scorrette si riducesse a questo sarebbe innocua ma anche di desolante banalità.
Ed infatti non si riduce a questo. Io non posso dare del “terrorista” ad un mussulmano che passa per strada: può benissimo darsi che quel mussulmano non solo non sia terrorista ma neppure condivida quello che i terroristi islamici fanno in giro per il mondo. Però posso benissimo dire che la religione islamica, per i valori che propugna, incoraggia, giustifica e favorisce il terrorismo. In questo caso io non lancio una accusa verso una singola persona, che, in quanto tale, va motivata e provata in maniera rigorosa, esprimo un giudizio politico su un movimento politico e religioso e questo è mio diritto poterlo fare. Se dire che l'integralismo islamico è terrorista costituisce un insulto, allora lo è anche dire che il nazismo è una ideologia razzista o che il comunismo predica la presa violenta del potere da parte del partito della classe operaia. Per le anime belle politicamente corrette non si può dire che l'Islam alimenta il terrorismo, ma solo che Alì, Hassam e Mohamed sono terroristi e sono, per puro caso, anche islamici. Ma, se le cose stanno così, non si può neppure dire che il nazismo era anti semita, ma solo che Franz, Adolf e Strauss erano antisemiti e, per puro caso, militavano nel partito nazionalsocialista. Quello che i cattocomunisti e le anime belle politicamente corrette propongono è, puramente e semplicemente, la fine di ogni discorso che abbia una valenza ed una portata generale, la sua riduzione ad una serie di giudizi strettamente individuali.
E barano, naturalmente. Si, barano perché quelli che vogliono proibire sono i discorsi degli altri. Coloro che protestano contro le “brutte” parole sono a volte gli stessi che strillano contro l'imperialismo americano o che definiscono “nazisti” gli israeliani; alcuni di loro sono amici di chi bruciando in pubblici cortei bandiere americane o israeliane offende interi popoli. Loro, i “buoni” politicamente corretti, fanno, eccome, i loro bravi, anzi, cattivi, discorsi di carattere generale; loro possono fare generalizzazioni, non intendono ridursi nell'ambito angusto di una serie di giudizi su singoli eventi scollegati da ogni considerazione sulla cultura, la società, la civiltà in cui tali eventi si manifestano.

Per il pensiero liberale al centro di tutto sta il singolo. Ogni singolo essere umano ha, in quanto tale, la sua dignità, il suo valore, alcuni inalienabili diritti. Far parte del genere umano è più importante che far parte di una certa razza, o classe, o sesso, o civiltà.
I marxisti a suo tempo rifiutavano questa impostazione. Non conta l'uomo, meno che mai l'individuo, si tratta di astrazioni. Non esistono individui ma borghesi, proletari, signori feudali, contadini. L'uomo veniva risolto integralmente nel gruppo sociale.
E, dall'estrema destra, alcuni rispondevano: “no, non nel gruppo sociale ma in quello etnico, nazionale, razziale”... L'uomo è, di nuovo, una astrazione, esistono i bianchi e i neri, gli italiani ed i francesi, gli occidentali e gli orientali. Ad essere decisivo era di nuovo il gruppo, il collettivo.
Oggi pare che i dinosauri della destra ideologica si siano quasi del tutto estinti, e quelli della sinistra ideologica si siano invece ravveduti. Oggi vogliono sentire solo discorsi strettamente riferiti agli individui. Niente generalizzazioni esclamano, solo fatti, fatti singolari, delimitati, privi di sfondo. Sono disonesti, lo abbiamo visto, in questa loro pretesa: solo alcuni devono essere obbligati a stare ai fatti e basta. Però, cosa pretendiamo? E' comunque un bene che, dopo decenni di collettivismo becero, questi angioletti abbiano scoperto il valore della individualità. No, non è un bene. Non lo è non solo perché la loro scoperta è inficiata da disonestà intellettuale, ma perché il loro novello individualismo è becero almeno quanto lo era il loro passato collettivismo.

Lo capirebbe un bambino. Ad essere centrale è l'uomo, il singolo essere umano, ma da questo non segue che il far parte di certi gruppi sia qualcosa di irrilevante. Essere “uomo” è più importante che essere “occidentale”, ma questo non vuol dire che le idee, i valori, gli stili di vita degli uomini occidentali siano gli stessi di quelli di altri esseri umani che vivono in altre civiltà. E' vero, sgozzare un innocente è qualcosa che offende tutti gli esseri umani, mussulmani, buddisti o cristiani che siano, esattamente come garantire a chiunque un processo equo migliora le relazioni umane sotto tutte le latitudini. Ma, appunto, si sgozzano gli innocenti in certi contesti culturali e si garantiscono processi equi in altri. I valori, gli usi e costumi, gli stili di vita in auge in una certa civiltà, la nostra, hanno la capacità di rispondere ad esigenze universali degli esseri umani; altri valori, usi e costumi, stili di vita, che pure esistono in certe altre civiltà, invece riescono solo a peggiorarli, gli esseri umani. Essere universalisti non vuol dire teorizzare che le differenze fra le civiltà siano irrilevanti, meno che mai vuol dire teorizzare che si debba parlare solo di eventi singoli, privi di sfondo culturale. Vuol dire, al contrario, capire alcuni valori, sorti per una serie di circostanze storiche in una certa civiltà, sono potenzialmente liberatori per tutti.
I politicamente corretti che hanno dichiarato guerra a certe parole accettano questa impostazione?
Assolutamente no. Per loro parlare di universalità di certi valori è una forma intollerabile di imperialismo culturale. Nessuna cultura è, in nulla superiore alle altre. Processi equi e linciaggi, divorzio e lapidazione delle adultere, libertà di pensiero e pena di morte per gli apostati, tutto è sullo stesso piano, guai a stabilire delle gerarchie normative. Gli angioletti del politicamente corretto sguazzano nel relativismo culturale, “rispettano” le altrui culture, anche quando queste comprendono fustigazioni, poligamia ed infibulazioni.
Questo atteggiamento però ha un grosso limite: non può essere sostenuto quando gli esponenti della “altre culture” rivolgono contro di noi le loro angeliche attenzioni. Se un nostro fratello mussulmano si facesse esplodere in una pizzeria a Milano non si potrebbe dire “beh... è la sua cultura...”. Non lo si potrebbe fare perché qualcuno potrebbe rispondere: “dichiarare guerra al suo paese è la
nostra cultura...”. Il giustificazionismo diventa insostenibile se siamo noi ad essere messi in mezzo. Si tratta di una posizione ipocrita e venata, in fondo, di razzismo? Si, certamente, ma non è ipocrita e razzista sostenere, ad esempio, che la lapidazione delle adultere può essere accettata se riguarda le donne iraniane mentre il divorzio va benissimo per quelle italiane o francesi? Accettare gli orrori solo perché riguardano gli altri è una spregevole forma di razzismo, ma gli angioletti questo non lo sanno.
Comunque, le anime belle non possono limitarsi a farfugliare qualcosa sulle “culture” quando ci siamo di mezzo
noi. Ed eccoli allora abbandonare il loro collettivismo culturale infarcito di relativismo per abbracciare il più spinto individualismo giuridico. Un mussulmano si è fatto esplodere in una pizzeria? No, non un mussulmano, ma il signor Ali, che è casualmente mussulmano. Prima le culture giustificavano tutto, ora, letteralmente, scompaiono. Restano gli individui, nudi, svuotati di ogni caratteristica culturale, isolati da ogni contesto. Individui, questi si, del tutto astratti, irreali, ridotti a meri fantasmi. Non generalizziamo strillano le anime belle. Il loro “individualismo” non è altro se non il tentativo di difendere i soggetti collettivi che loro amano visceralmente. L'invito a “non generalizzare”, la riduzione di tutto al “singolo”, servono solo a salvare dalla riprovazione delle persone di buon senso quelle culture che scaldano i loro cuoricini generosi.

Non generalizziamo
. E' sensato un invito simile? NO, assolutamente.
Domani sorgerà il sole. Il tumore allo stomaco è una malattia mortale. Gli antichi greci erano un popolo molto intelligente. I leoni sono carnivori. Tutte queste affermazioni sono delle, o si basano su, generalizzazioni. Ogni nostro discorso e, prima ancora, ogni nostro atto sono infarciti di generalizzazioni. “Prendi l'ombrello se esci, il cielo è pieno di nuvole, potrebbe piovere”. Chi non ha mai fatto o non si è sentito fare una simile raccomandazione? Beh... si tratta di una generalizzazione. Senza la generalizzazione e la sua sorella: l'inferenza induttiva, la nostra esperienza si ridurrebbe ad una serie scollegata di attimi, un caos di eventi scollegati fra loro, puramente inintelleggibile. Lo aveva ben capito il vecchio Hume, che, nel momento stesso in cui negava fondamento logico alla induzione, le conferiva un enorme valore pratico, e lo aveva capito altrettanto bene Kant, che cercò a sua volta di conferire ad induzione e generalizzazione la loro base logico razionale, non interessa qui indagare con quanto successo.
Certo, esistono le cattive generalizzazioni. Le generalizzazioni affrettate, imprecise, non sufficientemente corroborate dall'osservazione. Ed esistono le generalizzazioni dogmatiche, quelle di chi ritiene che la generalizzazione porti a risultati definitivi, privi di eccezioni. In realtà la generalizzazione non porta
mai a risultati assolutamente certi. L'eccezione è sempre possibile. Fra gli antichi greci ci sono certamente stati degli imbecilli, ed è possibile che esistano forme non mortali di tumore allo stomaco. Logicamente è anche possibile che domani il sole non sorga o che esista un leone non carnivoro, se e quando se ne scoprirà uno lo si dovrà osservare e studiare, non certo negarne l'esistenza.
Ma il fatto che la generalizzazione non porti a risultati certi, non sia paragonabile alla logica o alla matematica, non ne sminuisce affatto l'importanza. Non la sminuisce soprattutto nel campo che qui ci interessa, quello politico-sociale e culturale. Di certo nella Germania nazista vivevano molti tedeschi non antisemiti, ma, aveva o non aveva un ebreo ottimi motivi per non sentirsi sicuro in quel paese? In un quartiere malfamato vivono certamente molte persone per bene, ma ha o non ha ragione una ragazzina ad essere timorosa se deve attraversare quel quartiere da sola, in piena notte? Non tutti i mussulmani sono terroristi, è vero, anzi, in gran maggioranza non lo sono; ma è del tutto immotivato il sospetto che fra di loro ci sono molti terroristi, molti, moltissimi di più di quanti ce ne possono essere fra i cattolici o fra i buddisti? Proviamo a non generalizzare e la Germania hitleriana cessa di essere malata di antisemitismo, scompaiono i quartieri pericolosi e l'integralismo islamico diventa una invenzione di Oriana Fallaci. Peccato però che i fatti abbiano la testa dura.

La guerra che le anime belle hanno dichiarato a certe parole si basa sul nulla. E' solo l'ennesimo, tentativo di tappare la bocca a chi non accetta la dittatura buonista, il pensiero unico politicamente corretto. Tentativo che cerca ipocritamente di far leva sui buoni sentimenti, di travestirsi da individualismo tollerante, umanitarismo, simpatia per chi è diverso da noi. Ma nulla è meno buono che cercare di giustificare l'esaltazione della morte presente in certe culture, nulla è meno tollerante che tollerare gli intolleranti, nulla è meno rispettoso del diverso che non ritenerlo degno di quei diritti che per noi sono cosa normale.
Non bisogna farsi ingannare: i peggiori cattivi sono oggi coloro che a tutte le ore, in tutte le occasioni, con tutti i pretesti cercano di apparire “buoni”.