lunedì 25 dicembre 2023

FRA FILOSOFIA E POLITICA

 Fra Filosofia e Politica: In difesa del finito

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"Fra filosofia e politici”  -   In difesa del finito

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Il sottotitolo del libro è “in difesa del finito” perché il filo rosso che lega in qualche modo gli scritti su argomenti diversi è la polemica, a volte sotterranea, altre volte esplicita contro le filosofie totalizzanti, quelle che pretendono di depurare il mondo da quanto vi è in questo di dato, arazionale. e che non a caso degenerano spesso in forme pericolose di nichilismo.

Gli scritti del libro possono idealmente dividersi in tre parti.

Nella prima si esaminano la filosofia politica con particolare riferimento ad alcuni grandi pensatori: Kant, Hegel, Marx. Si critica la tendenza all’assoluto, limitata e solo solo latente in Kant, esplicita in Hegel e Marx.
Nei vari scritti si esamina il concetto di alienazione e se ne sottolinea la potenziale pericolosità. Si tratta del materialismo storico e della presunta assoluta centralità dell’economia, si sottopongono a breve esame i legami teorici fra Rousseau e Lenin e si getta uno sguardo sui drammi storici legati alle dottrine di questi uomini.

Nella seconda si esaminano le pericolose derive nichiliste che hanno seguito il sostanziale fallimento delle filosofie della totalità. Si sottolinea in particolare che ogni riduzione del mondo ad insieme di rappresentazioni conduce o si avvicina a quello che in uno scritto chiamo “l’ospite indesiderato”: il solipsismo.
Si prendono in esame alcune possibili alternative alle derive nichiliste di parte della filosofia contemporanea: la critica di Wittgenstein al linguaggio privato, il falsificazionismo popperiano, di cui si critica tuttavia il radicale rifiuto dell’induzione, un fenomenismo che non neghi o riduca al soggetto il mondo reale.

La terza parte comprende alcuni scritti più “leggeri” su argomenti di maggiore attualità. L’Ucraina, Israele ed il suo diritto di esistere, il politicamente corretto ed il linguaggio ad esso collegato, la diffusione del pensiero di Malthus in ambienti apparentemente lontanissimi dall’economista inglese.


lunedì 18 dicembre 2023

NEGRI, CACCIARI E COLLETTI

Leggo che Massimo Cacciari ha speso parole di ammirazione culturale e politica nei confronti di Toni Negri.
Evito le facili polemiche e le frasi ad effetto, evito anche di affrontare un discorso, impossibile in questa sede, sulla filosofia di Negri ed i suoi esiti nefasti.
Mi limito a pormi una domanda: come è possibile che uomini collocati nell’area della sinistra democratica, persone che accettano la democrazia parlamentare, l’economia di mercato, la divisione dei poteri, il pluralismo economico, politico e sociale, in definitiva, i cardini del pensiero liberale, possano poi valutare positivamente il pensiero di chi si è da sempre dichiarato nemico implacabile di ogni forma di liberalismo?
Negri non è stato solo un comunista, è stato un comunista politicamente schierato nell’area dell’estrema sinistra. Lontano anni luce dal liberalismo era quasi altrettanto ostile ad ogni forma di riformismo. Vicino all’ideologia delle brigate rosse si distinse da queste solo perché giudicava non abbastanza “di massa” la loro violenza. Nessuno forse fu più detestato da lui e dai giovani di “autonomia operaia” di Luciano Lama.
E allora, come la mettiamo? Perché valutare positivamente il suo insegnamento? Qualcuno può anche ritenere che Toni Negri sia stato un “grande”, ma, se si dichiara democratico, dovrebbe sentirsi obbligato a far seguire al suo apprezzamento culturale una critica politica rigorosa delle idee di questo presunto “grande”. Invece NO. Si esalta la “grandezza” di Negri senza spendere una sola parola critica su questa presunta “grandezza”, come mai?
La risposta è semplice. Cacciari, e con lui tanti altri, sono stati per anni vicini alle posizioni di Negri, comunque critici implacabili del “capitalismo” e più in generale della filosofia liberale.
Hanno superato gli errori del passato e si atteggiano oggi a pacifici riformisti, ma non hanno mai sottoposto le loro vecchie concezioni ad un esame critico, severo e privo di reticenze. Il percorso politico di un Cacciari è in questo senso radicalmente diverso da quello di un Lucio Colletti.
Colletti è stato un marxista collocato nell’area dell’estrema sinistra. Di fronte all’estremismo nichilista largamente presente nel movimento del 68 ed ai suoi esiti terroristi Colletti, dando prova di una onestà intellettuale non comune, ha sottoposto a critica severa le sue concezioni e, al termine di un faticoso processo intellettuale, ha abbandonato il marxismo. Lo ha fatto senza reticenze: ha detto e scritto chiaramente di averlo abbandonato, soprattutto ha spiegato, di nuovo dando prova di non comune profondità di pensiero, le motivazioni teoriche e filosofiche del suo abbandono; per fare solo un esempio insuperata resta a mio modesto parere la sua critica del materialismo dialettico.
Nulla di tutto questo hanno fatto persone come Cacciari e, insieme a lui, tanti altri.
Ieri erano comunisti rivoluzionari, oggi sono riformisti democratici, quasi liberali. E si offendono se qualcuno ricorda oggi ciò che erano ieri, le filosofia si possono cambiare come la camicia. Erano nel giusto ieri, quando strizzavano l’occhio alla violenza definita "di massa", lo sono oggi, quando chiacchierano di riforme.
Per questo possono parlare con simpatia e condivisione di filosofie che ogni democratico liberale non può che sottoporre a critica severissima, se vuole essere preso sul serio.
Per loro si può essere democratici, addirittura liberali, continuando, almeno a livello teorico, ad essere un po’ leninisti, si possono apprezzare gli USA continuando a provare un pizzico di simpatia per la vecchia URSS, ed ammirando un ex alto funzionario del KGB, si può essere laici e nel contempo “comprensivi” nei confronti di Hamas.
E’ un atteggiamento che non riguarda solo Cacciari. Riguarda la parte maggioritaria della sinistra italica, purtroppo.


 

sabato 11 novembre 2023

LAVORO, TERRE, ISRAELE

 

Più ci penso più mi convinco che sarebbe un gran bene se i leaders della sinistra italiana conoscessero il pensiero di Karl Marx.
Sono convinto che il marxismo contenga profondi, radicali errori da cui sono nate immani tragedie, ma si tratta comunque di una filosofia importante, da cui non è possibile prescindere. La cosa incredibile è che oggi i leaders della sinistra italica sembrano ignorare completamente alcune categorie centrali del pensiero marxiano, prima fra tutte quella di lavoro.
Il concetto di lavoro è centrale in Marx. La teoria marxiana del valore afferma che le merci sono “gelatina di lavoro umano”. Il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro socialmente necessario contenuta in essa. Si tratta di una teoria centrale del marxismo, collegata alle teorie della alienazione e dello sfruttamento, qualcosa di cui non ci si può facilmente liberare come fosse una inutile appendice.
La teoria marxiana del valore è oggi quasi unanimemente rifiutata, ma da questo non deriva alcuna sottovalutazione dell’importanza del lavoro nel processo di produzione della ricchezza sociale. Del resto un filosofo liberale come John Locke aveva, ben prima di Marx, sottolineato l’importanza del lavoro. Per Locke il lavoro è alla base del diritto di proprietà. Posso definire “mia” la tal cosa solo se col mio lavoro la ho modificata rendendola capace di soddisfare bisogni umani. Quella certa terra è “mia” se lavorandola la trasformo in terreno fertile. Ovviamente la posizione di Locke non risolve tutti i problemi, ha dato vita a numerosi dibattiti e contestazioni, ma non è questo ora il punto. La cosa che mi preme sottolineare è la centralità della categoria del lavoro nella valutazione di determinati fenomeni storici, economici, politici e sociali. Ora, è proprio questa categoria, il lavoro, ad essere incredibilmente assente quando si discute, per stare all’attualità, della questione arabo israeliana.
Molti accusano gli ebrei di avere “rubato la terra ai palestinesi”. Israele non avrebbe diritto di esistere perché nato da un colossale furto di terre. Tralasciamo ogni considerazione sul fatto che , partendo da simili premesse, praticamente tutti gli stati del mondo non avrebbero diritto di esistere, tralasciamo anche il fatto che giuridicamente l’accusa mossa agli ebrei è del tutto infondata: gli ebrei comprarono a caro prezzo le terre su cui si insediarono. Tuttavia, per pura comodità di ragionamento, prendiamo pure per buona la PALLA secondo cui i coloni ebrei rubarono le terre ai palestinesi o comunque si installarono illegalmente sulle stesse. La domanda da porsi è la seguente: anche ammettendo tutto questo è lecito dedurne che Israele non ha oggi diritto di esistere? La risposta ad una tale domanda non può essere che un NO grande come il monte Everest.
Chi, sulla base di un (inesistente) furto originario nega oggi ad Israele il diritto di esistere dimentica completamente l’importanza della categoria LAVORO. Anche ammettendo che i primi ebrei approdati in Palestina si siano impossessati illegalmente di vaste terre, resta certo che quelle terre oggi sono completamente diverse da come erano 100 o più anni fa. Le ha trasformate il lavoro degli ebrei. Erano terre desertiche o paludose, sono diventate fertilissime. Su una terra un tempo desertica sorge oggi uno stato culturalmente, economicamente e tecnologicamente avanzatissimo. Dove c'erano solo sterpaglie oggi sporgono città, centrali elettriche, strade, linee ferroviarie. Qualcuno può davvero pensare che tutto questo sia senza importanza o di importanza secondaria?
E’ quasi surreale il dibattito sul diritto all’esistenza di Israele che prescinde totalmente dal fatto di quanto il lavoro degli immigrati ebrei abbia trasformato una landa quasi totalmente inospitale. Che forze di destra violentemente contrarie ad Israele dimentichino questo fatto è in fondo comprensibile. Storicamente la destra razzista ed antisemita ha posto alla base di tutto il sangue e la terra. Sangue e terra formano le nazioni e i nuovi venuti sono intrusi che possono solo essere cacciati. In questa visione il lavoro ha importanza secondaria. Ma che la sinistra dimentichi del tutto l’importanza della categoria “lavoro” è semplicemente incredibile. Tra l’altro la sinistra, compresa quella anticomunista, la sinistra democratica, fece a suo tempo della lotta al latifondo improduttivo una sua bandiera. Ora tutto questo è dimenticato.
Lo ripeto: se vari leaders della sinistra italica conoscessero Marx sarebbe meglio. Ovviamente non pretendo che personaggi come Fratojanni o Bonelli, Conte o la Schlein conoscano approfonditamente il materialismo storco, sarebbe una esagerazione. Ma... è troppo pretendere che siano in grado di maneggiare in maniera elementare alcune categoria marxiane basilari? Forse si. Forse anche questa è una esagerazione.


lunedì 6 novembre 2023

BATTAGLIE

Si calcola che durante la battaglia di Berlino morirono circa 100.000 civili tedeschi. La cifra è ovviamente molto approssimativa anche per la difficoltà di distinguere nella battaglia di Berlino i tedeschi civili dai combattenti. Di certo comunque le perdite civili furono altissime. Non ci furono in quella battaglia “corridoi umanitari”. Le truppe sovietiche non avvisarono i civili che le loro case stavano per essere bombardate. Nessun convoglio umanitario di aiuti entrò nella città assediata, non ci furono evacuazioni, solo combattimenti durissimi, spietati.
A ciò si aggiunga che la battaglia fu combattuta da ambo le parti in maniera barbara. I sovietici massacrarono spesso e volentieri inermi civili tedeschi, ci furono moltissimi stupri, tristissimo fenomeno che accompagnò un po’ tutta l’avanzata finale dell’armata rossa verso Berlino. Hitler dal canto suo non mostrò alcuna pietà nei confronti del suo stesso popolo. Gettò nella mischia bambini di meno di 10 anni, vecchi, donne del tutto incapaci di combattere.
Un massacro quindi che coinvolse in pieno i civili tedeschi. Tuttavia nessuno ha mai parlato, a proposito del crollo del terzo Reich, di “genocidio” perpetrato a danno dei tedeschi. I civili tedeschi furono coinvolti in una furiosa ed inutile battaglia, morirono in moltissimi ma non furono oggetto di genocidio. Terminata la battaglia i civili dovettero subire molte orribili violenze ma non furono sistematicamente massacrati. Non è possibile confrontare i civili morti durante la battaglia di Berlino con quelli massacrati dai tedeschi. I tedeschi massacrarono un numero enorme di civili nel corso di molte battaglie, ma in questo non furono troppo differenti da sovietici ed alleati. Quello che rende mostruosamente diversi i loro massacri fu il fatto che riguardarono abitanti di zone già conquistate, non ebbero relazione alcuna con gli scontri militari. I criminali delle SS andarono a scovare gli ebrei, e non solo loro, casa per casa, li misero in treni blindati e li mandarono ai forni. In Ucraina, a Kiev, ne fucilarono oltre 30.000 dopo aver promesso loro che sarebbero stati deportati in Germania. Nessuna battaglia era in corso: Kiev era saldamente in mano ai nazisti.
Solo degli imbecilli possono confondere le innocenti vittime civili di furiosi combattimenti col massacro deliberato di civili estraneo ad ogni operazione militare.
Eppure è proprio questo che fa oggi una propaganda martellante a proposito di Gaza.
I criminali di Hamas sono penetrati in villaggi israeliani e hanno volutamente massacrato moltissimi civili inermi. Non era in corso alcuna operazione militare, nessuna battaglia. La colpa dei massacrati era una sola: essere ebrei.
Gli israeliani stanno distruggendo l’apparato militare di Hamas, unico modo per evitare il ripetersi della tragedia del 7 ottobre. Per distruggerlo devono combattere. Cercano di prendere tutte le precauzioni possibili per limitare al massimo le perdite civili ma non sempre riescono nel loro intento anche perché Hamas si fa scudo dei civili, vuole il sangue del suo stesso popolo per usarlo a fini di propaganda criminale.
Mettere sullo stesso piano le purtroppo inevitabili vittime civili a Gaza con i massacri del 7 ottobre è quindi una assoluta mistificazione.
Che può ingannare solo persone molto “diversamente intelligenti” o accecate dal furore ideologico.


 

giovedì 2 novembre 2023

LA GUERRA E' UNA OPERAZIONE DI POLIZIA?

 

Settembre 1939. La Germania invade la Polonia. Il governo britannico si riunisce con la massima urgenza. Occorre decidere se dichiarare o meno guerra alla Germania.
Tutti i ministri sono per la dichiarazione di guerra, tranne il signor Pacifico, un nuovo ministro noto per la sua angelica, infinita bontà.
Con dolce voce Pacifico spiega agli altri ministri perché è contrario all’entrata in guerra.
“Io condanno fermamente l’invasione nazista della Polonia”, afferma, “sono il primo a condannare il nazismo ed i suoi crimini, ma sono anche contrario ad ogni vendetta nei confronti della Germania. Non tutti i tedeschi sono nazisti, non lo sono tutti i militari, né, tento meno, tutti i civili. Una guerra però porta inevitabilmente all’uccisione di tanti militari e purtroppo, anche di tanti civili. Pensare che oggi si possa condurre una guerra che, malgrado tutti i nostri sforzi, non colpisca in alcun modo la popolazione civile è solo una illusione.
Dichiarando guerra alla Germania noi di certo uccideremo molti innocenti tedeschi, persone che non hanno commesso crimine alcuno e che neppure sono naziste. Uccideremo degli innocenti fra i militari ed anche, cosa ancora più grave, fra i civili. Uccidere innocenti non è giusto onorevoli colleghi! Non si può difendere la libertà commettendo atti ingiusti, quindi NON dobbiamo dichiarare guerra alla Germania. Dobbiamo invece perseguire i nazisti colpevoli di atti di violenza. Propongo quindi che si apra una inchiesta internazionale a Carico di Hitler, Goring, Goebbels e di tutti i gerarchi nazisti. Si mandi loro un avviso di garanzia e li si convochi di fronte ad un costituendo tribunale internazionale affinché rispondano dei loro crimini. Il glorioso popolo britannico sosterrà l’azione della magistratura con cortei pacifici, veglie di preghiera, minuti di silenzio e lancio di palloncini colorati”.
Se qualcuno in Gran Bretagna avesse fatto nel settembre del 1939 simili discorsi sarebbe stato preso immediatamente a sonori calci nel deretano.
Però in questi giorni si leggono in rete idiozie di questo genere.
Sono caratteristiche di chi dice di condannare Hamas, però…
I civili di Gaza non sono mica tutti membri di Hamas, sostengono, quindi non si può attaccare Gaza, in nessun modo, neppure cercando, come Israele fa, di contenere al massimo il numero delle vittime civili.
Quelli che sostengono cose simili, se in buona fede (e credo che siano pochissimi ad essere in buona fede) confondono la guerra con una operazione di polizia.
Ma una guerra è qualcosa di totalmente diverso da una operazione di polizia. Si fa una guerra per sconfiggere il nemico, o comunque impedirgli di realizzare i suoi obiettivi , non per assicurare alla giustizia dei colpevoli, questa semmai può essere, a volte, una delle conseguenze della guerra, e di certo non la più importante.
Il giudizio su una guerra dipende in primo luogo dal giudizio sugli obiettivi dei combattenti. Era giusto nel 1939 cercare di impedire alla Germania di conquistarsi il presunto “spazio vitale” trasformando tutta l’est Europa in sua colonia agricola?
E’ giusto oggi distruggere l’apparato militare di Hamas, smilitarizzare Gaza e, su questa base, discutere dei “due popoli due stati”?
Personalmente penso che basta porsi simili domande per avere la giusta risposta.
E tanto basta ed avanza.


giovedì 26 ottobre 2023

LA GUERRA NON RISOLVE MAI ALCUN PROBLEMA?

 

Lo si sente dire abbastanza spesso: “la guerra non risolve mai alcun problema”. Bella frase, molto ad effetto, ma… sarà vero che la guerra non risolve mai alcun problema? Vediamo.
Se dire che la guerra non risolve alcun problema significa che è enormemente meglio cercare di risolvere i problemi non con la forza ma col negoziato, la trattativa e il compromesso non si può che concordare. Le moderne democrazie occidentali in fondo sono proprio questo: ingegnosi sistemi istituzionali volti a far si che gli inevitabili contrasti di idee, valori, interessi siano risolti pacificamente. In democrazia sono i voti a stabilire chi ha diritto di governare, chi governa deve rispettare le minoranze ed i fondamentali diritti di tutti i cittadini, privilegia certe idee, valori ed interessi senza tuttavia annichilire gli altri. In questo senso la trattativa ed il compromesso sono fondamentali in democrazia ed è esclusa dalla democrazia l’idea stessa della violenza.
Ma da questo NON deriva che sia SEMPRE possibile risolvere TUTTI i contrasti col metodo della trattativa e del compromesso. Trattativa e compromesso sono caratteristiche della democrazia, meglio, della democrazia liberale, ma sono purtroppo molti a non accettare la democrazia liberale e, di conseguenza, a rifiutare il metodo della trattativa e del compromesso.
Il metodo della trattativa può non funzionare per due fondamentali motivi.
In primo luogo c’è chi non accetta tale metodo e pretende di imporre le proprie idee, valori, interessi con la violenza, spesso addirittura col terrore. E chiaro che NON si può negoziare con chi si comporta in questo modo. Si può contrapporre solo la forza a chi fa della violenza la sua unica arma.
In secondo luogo ci cono cose su cui il compromesso e la stessa trattativa sono politicamente impossibili e, prima ancora, moralmente ripugnanti.
Hitler voleva trasformare tutta l’Europa orientale in una enorme colonia agricola destinata a rifornire di alimenti la grande Germania ariana. Era possibile trattare su una simile richiesta? Era politicamente e moralmente accettabile proporre al dittatore nazista un “compromesso” che gli consentisse di colonizzare non tutta ma solo la metà dell’Europa orientale?
Ed ancora, sempre lui, Adolf Hitler, voleva sterminare tutti gli ebrei d’Europa. Era possibile discutere una simile pretesa? Magari proporre al tiranno di non massacrare milioni ma solo centinaia di migliaia di ebrei?
Mi sembra simili domande abbiano una chiara, implicita risposta.
Parlando di problemi di oggi. Hamas NON vuole uno stato palestinese che viva pacificamente accanto ad Israele. Per inciso, questo stato ci sarebbe dal 1948 se gli arabi avessero accettato la delibera ONU sulla divisione della Palestina. Sulle dimensioni di uno stato palestinese che conviva pacificamente con Israele e sulle garanzie che questo dovrebbe dare allo stato ebraico si può discutere, ma non è QUESTO l’obiettivo di Hamas. L’obiettivo di Hamas è la distruzione di Israele e la sua sostituzione con una teocrazia islamica. Per essere più precisi: Hamas vuole non uno stato palestinese ma un grande califfato; in prospettiva pretende che tutte le terre che in passato sono state islamiche tornino ad esserlo. I fondamentalisti fanatici di Hamas guardano al sud Europa oltre che ad Israele. Chi ha dubbi in proposito cerchi in rete il programma di Hamas e se lo legga.
Val la pena di aggiungere che i terroristi di Hamas mirano a riconquistare all’Islam i “miscredenti” non cercando di convincere gli esseri umani della superiorità della loro fede, rispettando chi da questa non è affascinato. No, cercano di imporre il loro fanatismo col terrore e la morte. Pensare che si possa trattare con simili interlocutori è ridicolo.
In definitiva: non è vero che la guerra non risolva mai alcun problema. A volte qualche grosso problema lo risolve. La seconda guerra mondiale ha risolto il problema del nazismo, con costi mostruosi, è vero, costi che però sarebbero stati infinitamente inferiori e se le democrazie occidentali avessero fatto prima la guerra ad Hitler.
Oggi la distruzione militare di Hamas qualche problema lo risolverebbe. Se l’occidente si mostrerà fermo e farà capire ai teocrati iraniani ed ai loro amici che non è il caso di scherzare con la sua enorme forza militare avremo tutti qualche problemino in meno.
E non sarebbe cosa da poco.


martedì 24 ottobre 2023

CAPACITA' DI PENSARE ADDIO

 


E’ possibile paragonare l’uccisione di molti civili tedeschi durante la battaglia di Berlino con i morti ammazzati di Marzabotto, o, peggio ancora, con gli ebrei sterminati nelle camere a gas?
Nessuno penso che abbia mai fatto simili paragoni. Il motivo è molto semplice: i civili berlinesi sono stati coinvolti nell’ultima, furiosa battaglia della seconda guerra mondiale ed in moltissimi hanno trovato morte. I morti di Marzabotto sono stati vittima di uno sterminio che con le operazioni belliche aveva poco o nulla a che fare. Gli ebrei massacrati nelle camera a gas non sono stati vittime degli effetti collaterali che ogni guerra purtroppo genera ma di una deliberata politica di genocidio che nulla aveva a che vedere con le operazioni belliche, anzi, dal punto di vista militare era addirittura controproducente per i tedeschi.
E’ semplicemente assurdo paragonare il tragico coinvolgimento di civili in operazioni militari con il deliberato massacro di civili del tutto scisso da qualsiasi azione militare.
I tagliagole di Hamas sono penetrati in indifesi villaggi israeliani, hanno deliberatamente massacrato civili di ogni sesso ed età, vecchi e neonati compresi, hanno sgozzato, stuprato, preso civili in ostaggio.
In risposta a questa azione degna dei nazisti Israele mira a distruggere militarmente Hamas, a demilitarizzare Gaza. Per far questo si impegna in azioni molto dure contro i suoi nemici mortali e questo, purtroppo, coinvolge o può coinvolgere anche civili.
Non solo, Israele cerca di minimizzare le perdite di civili palestinesi: avvisa in anticipo la popolazione civile di Gaza degli attacchi aerei, blocca l’offensiva per permettere l’evacuazione dei civili, che proprio Hamas cerca di impedire.
Mettere sullo stesso piano i modi di agire di Israele ed Hamas è semplicemente osceno. Chi fa una simile equiparazione pretende, molto semplicemente, che Israele non si difenda, lasci le cose come stanno in attesa del prossimo massacro. Di fatto, al di là delle flebili condanne, è dalla parte di Hamas.
Altrettanto osceno è parlare, come molti fanno, di “vendetta israeliana”. NO, disarmare Hamas, demilitarizzare Gaza NON è una vendetta, è una azione militare volta a tagliare gli artigli ad un nemico mortale dello stato ebraico.
La presa di Berlino non è stata una vendetta, non è stato una vendetta lo sbarco di Normandia, quando nel gennaio del 1945 gli alleati hanno superato il Reno non hanno messo in atto nessuna vendetta, hanno inferto un colpo durissimo alla morente bestia nazista.
Si tratta di concetti tanto semplici, che è imbarazzante esporli.
Ma molti, troppi occidentali sembra abbiano perso qualsiasi capacità di pensare.

mercoledì 18 ottobre 2023

OFFESA E DIFESA

 

Lo sanno tutti: Israele avvisa la popolazione civile di Gaza prima di sferrare un attacco o di effettuare un bombardamento, invita i civili ad evacuare. In questo modo offre un notevole vantaggio anche ai terroristi di Hamas: chi deve subire un attacco è infatti avvantaggiato dal fatto di sapere in anticipo dove l’attacco avrà luogo. Qualcuno può citare in tutta la storia un altro stato che si comporti o si sia comportato in questo modo? Quando hanno cinto d’assedio Leningrado le armate naziste hanno forse permesso l’evacuazione della popolazione civile? E quando i russi sono giunti alle porte di Berlino l’armata rossa ha forse frenato la sua avanzata per consentire l’evacuazione dei civili berlinesi? Si comportano forse in questo modo i russi in Ucraina? Eppure è così che si comporta lo stato ebraico. Possibile che a tanti sfugga la enorme differenza etica fra questo modo di comportarsi e quello dei terroristi di Hamas che fanno deliberatamente strage di civili?
Ma a tanti questo non basta. Gli attacchi a Gaza, sostengono, arrecano comunque inevitabili lutti e gravissime sofferenze alla popolazione civile, quindi sono attacchi criminali.
Il problema a questo punto riguarda non le sofferenze dei civili, purtroppo inevitabili in ogni guerra, comunque questa sia condotta, ma il diritto stesso di Israele a difendersi.
E’ vero, difendendosi Israele è inevitabilmente destinato ad arrecare sofferenze alla popolazione di Gaza, ma Israele ha o non ha il diritto di difendersi? E come va inteso tale diritto? Questo è il punto da chiarire.

Per qualcuno Israele NON ha il diritto di difendersi. Non ha questo diritto perché NON ha diritto di esistere. La stessa esistenza di Israele è un crimine, una sorta di peccato originale che si estende a tutti i suoi abitanti, neonati compresi. Israele non deve esistere, quindi non ha diritto a difendere la sua esistenza. I civili israeliani sono non dovrebbero essere, condividono il peccato originale del loro stato, quindi non hanno diritto di difendersi da chi li vuole massacrare. Si tratta di una tesi aberrante, addirittura oscena che non mi interessa neppure confutare, ma ha almeno il pregio della coerenza.
Altri fanno un discorso diverso. Israele, dicono, ha il diritto di difendersi ma tale diritto si ferma alle porte di Gaza. Se i terroristi di Hamas attaccano un villaggio is
raeliano con l’intento di massacrarne la popolazione civile gli israeliani hanno diritto di difendersi, ma non di inseguire fin dentro Gaza gli assalitori eventualmente messi in fuga. Gli israeliani hanno il diritto di intercettare un missile palestinese, ma non di attaccare le basi da cui questo missile parte. Gaza è una sorta di santuario che non si può toccare anche se da quel santuario partono ed in quello si rifugiano i terroristi che fanno stragi in Israele. Per fare un paragone storico: l’aviazione britannica avrebbe avuto il diritto di abbattere gli aerei tedeschi diretti a Londra, ma non di bombardare gli aeroporti di partenza. Il diritto dei popoli aggrediti dal mostro nazista avrebbe dovuto fermarsi ai confini e sui cieli della Germania. Pochi, mi pare, hanno sostenuto concezioni tanto bizzarre.

Concezioni tuttavia che sono state e sono sostenute, mutatis mutandis, anche in occasione della guerra in Ucraina, nell’incredibile, surreale dibattito sulla differenza fra armi offensive ed armi difensive.
L’Ucraina ha diritto di difendersi, hanno sostenuto molti, ma deve avere solo armi difensive. Ha diritto di difendere le sue città ma non di contrattaccare per liberare quelle conquistate dai russi. Se usa armi “offensive” o contrattacca la sua cessa di essere una guerra difensiva.
La lancia è il prototipo delle armi offensive, lo scudo di quelle difensive. Se Tizio viene attaccato da Caio armato di lancia e scudo lo si può aiutare fornendogli lo scudo
ma non la lancia, altrimenti la sua non sarebbe più una azione difensiva. Sembra incredibile ma c’è gente che ragiona in questo modo. Non a caso chi ha sostenuto simili barzellette ha in seguito mutato posizione: non bisogna dare nessuna arma, sia offensiva che difensiva, agli ucraini, punto e basta. Guarda caso il campione di questi giri di valzer è stato ed è il signor Giuseppe Conte.
Povero occidente!


lunedì 16 ottobre 2023

LA MONTAGNA INCANTATA

 Ho letto “La montagna incantata” una prima volta circa 17 anni fa. Attraversavo un momento di difficili condizioni di salute e non ho affrontato romanzo di Thomas Mann con la dovuta, necessaria concentrazione; pur riconoscendo l’importanza e la grandezza del romanzo lo ho giudicato “troppo intellettualistico”.
Ho riletto in questo periodo il capolavoro di Mann e sono costretto a mutare parere. “La montagna incantata” è un romanzo semplicemente stupendo. Si tratta certamente un libro “difficile”, ma la sua è la tipica difficoltà del capolavoro.
La trama è abbastanza nota. Il giovane Hans Castorp si reca al sanatorio del Berghof, sulle Alpi svizzere, per visitare il cugino Joachin Ziemssen, da tempo ricoverato perché affetto da tubercolosi. Inizialmente pensa di doversi trattenere per tre settimane, poi scoprirà di essere a sua volta malato ed il suo soggiorno in montagna si protrarrà per ben sette anni. Il romanzo ci fa vivere le vicende umane ed intellettuali del giovane Castorp, i suoi incontri, le sue esperienze, il suo graduale distacco dal modo di vivere della “pianura” e la sua graduale assimilazione al mondo del sanatorio. Quel mondo che diventa nel romanzo di Mann il punto di incontro di tutte le principali correnti del pensiero europeo nel periodo che precede la grande tragedia del primo conflitto mondiale: la scienza, lo scientismo, con incursioni nel mondo della psicanalisi e addirittura, con chiari significati simbolici, del paranormale, il progressismo democratico, il razionalismo ingenuo, la rivolta contro la ragione con i suoi inevitabili risvolti autoritari e nichilisti. In questa griglia intellettuale si svolgono le vicende umane del giovane protagonista, le sue relazioni con gli ospiti del sanatorio, il rafforzamento dell’amicizia nei confronti del cugino, ansioso di tornare “a valle” per intraprendere la carriera militare. In quell’atmosfera rarefatta il giovane Castorp si innamora perdutamente di madame Chauchat, giovane, affascinante donna che passa la vita da un sanatorio all’altro, facendo letteralmente perdere la testa a più di un uomo. Il suo è un amore fatto di sguardi, intese silenziose, parole non dette. Un amore platonico al cui fondo sta tuttavia una fortissima carica erotica. Solo dopo molto tempo, in una memorabile notte di carnevale, Castorp troverà il coraggio di rivelare i suoi sentimenti a madame Chauchat, che però proprio l’indomani deve partire. Tornerà, molto tempo dopo, accompagnata da un amante: l’incredibile, ricchissimo signor Peeperkorn, incarnazione della sensualità della vita in tutti i suoi aspetti, una sorta di Dionisio nietzchiano, di scarsa levatura intellettuale ma dotato di una enorme, invadente personalità che conquista il giovane Castorp, spegnendo in lui la ogni traccia di gelosia.

I veri protagonisti intellettuali del romanzo sono tuttavia Lodovico Settembrini e Leo Naphta.
Il massone Settembrini è un umanista pervaso di razionalismo, fede nel progresso, amore per la libertà e la democrazia. Il suo ottimismo idealistico è però tanto ingenuo da apparire a volte quasi comico. Settembrini crede in una ragione quasi onnipotente, capace di cancellare dal mondo ogni dolore e con questo tutto ciò che nel mondo esiste di oscuro, arazionale, non spiegato e non spiegabile. Vuole un mondo unificato dai valori della libertà, e pare davvero convinto che l’umanità si avvii versa una sorta di ininterrotta felicità; non a caso Castorp lo definisce fra se e se “suonatore di organetto”.
Naphta, ebreo convertito al cristianesimo, gesuita cui la malattia (e forse anche i superiori, preoccupati dai risvolti nichilisti del suo pensiero) ha interrotto la carriera, è l’antagonista di Settembrini. Naphta rappresenta la rivolta contro la ragione, detesta l’idea di progresso, è per il dogma contro il libero pensiero, l’autorità contro la democrazia. Per lui le idee di Settembrini altro non sono che ipocrisie borghesi, esaltazione dell’individuo egoistico staccato e contrapposto al collettivo di cui è parte. E’ tale l’avversione di Naphta contro qualsiasi razionalismo che nel corso delle sue discussioni con Settembrini non esista ad esaltare quanto di oscuro, corruttibile, miserabile esiste nell’uomo. Una sorta di miscuglio fra Dio e Satana, gli rimprovera Settembrini, ma la mistura non spaventa Naphta: meglio questa che l’ipocrisia borghese con la miserabile adorazione del Dio denaro ad essa collegata. In questo modo Naphta giunge ad accostarsi al comunismo e profetizza, facendo inorridire Settembrini, l’avvento di una rivoluzione comunista che spazzerà via l’insopportabile alienazione borghese e mercantile. Non c’è che dire: un gran salto profetico, di interesse anche attuale, dai tribunali della sacra inquisizione alla dittatura proletaria...
I due antagonisti vorrebbero conquistare alle loro idee il giovane Castorp che però non segue né l’uno né l’altro. Il giovane prova sentimenti di umana simpatia per Settembrini, ma comprende bene l’ingenuità di molti aspetti del suo pensiero. E’ affascinato dalla ferrea, sottile logica di Naphta, che spesso ha la meglio negli scontri dialettici col rivale, ma non lo segue nell’abisso del nichilismo, ed arriva a definirlo “terrorista”. Castorp raggiunge faticosamente un suo equilibrio intellettuale: riconosce l’importanza del male e della morte ma non ne sposa l’oscurità, piuttosto li vede come una dura via da seguire per raggiungere un autentico rinnovamento spirituale.

Sarebbe però erroneo considerare “la montagna incantata” come una sorta di panoramica del pensiero europeo nel periodo precedente la grande guerra, una sorta di grande saggio storico filosofico. No, “la montagna incantata” è innanzitutto un romanzo, una grande opera di narrativa. Un romanzo ricco di considerazioni filosofiche, carico di simbolismi, la cui grande forza sta però nella potenza narrativa, nella capacità di coinvolgere il lettore nella vita nel sanatorio, nei suoi tempi, cerimonie, frivolezze. Un grande romanzo in cui la narrazione raggiunge a volte le vette di un realismo addirittura spietato, capace di comunicare al lettore sentimenti di autentica angoscia nelle pagine dedicate alla descrizione del dolore e della morte.
la montagna incantata” può infatti essere considerato un romanzo sul tempo e sulla morte.
Sul tempo non tanto per le considerazioni profonde che su questo mistero fanno Naphta e Settembrini e, soprattutto, il giovane Castorp, che si rivela rapidamente assi diverso dal bonaccione borghese che all’inizio poteva apparire. Romanzo sul tempo, sul tempo soggettivo, non quello di Newton od Einstein, quello della quotidiana esperienza in cui ognuno di noi collega nell’istante ricordi ed aspettative. Romanzo sul tempo, dicevo, perché immerge il lettore nel tempo del sanatorio, del tutto diverso da quello della “pianura”. Il sanatorio è caratterizzato dalla lentezza del tempo. Come accadrebbe ad un viaggiatore spaziale che si muovesse a velocità vicine a quella della luce il tempo del sanatorio si dilata. Sua unità di misura sono i mesi e gli anni, non i giorni o le settimane. Ed anche quel tempo “lento” si modifica a seconda delle situazioni. Bellissima a questo proposito la narrazione di una importante esperienza del protagonista. Accortosi di non stare bene il giovane Castorp, sollecitato da una arcigna infermiera, acquista un termometro e si misura la temperatura corporea. Deve tenere il termometro sotto la lingua per sette minuti. Sette minuti, non un tempo breve, una eternità! Ed il lettore è coinvolto in questa eternità, segue il corso dei pensieri, delle sensazioni del giovane, si trova quasi magicamente immerso nel “suo” tempo.
E ancora, romanzo sulla morte; di nuovo non per le dotte considerazioni che Settembrini e Naphta fanno sull’argomento ma perché tutta la narrazione è letteralmente impastata di morte.
Bellissime a questo proposito le parti iniziali del romanzo. Raggiunto il sanatorio questo sembra a prima vista al giovane Castorp assai simile ad un albergo di lusso. Begli arredi, anche se un po kitsch, camerieri gentili, pasti pantagruelici con piatti raffinatissimi. E l’atmosfera sembra, di nuovo, quella di una località di vacanza: chiacchiere frivole, baldi giovanotti, sani all’apparenza, che corteggiano leggiadre fanciulle, belle passeggiate nello splendore delle Alpi svizzere. Ma in questo idillio si sente da subito il puzzo della morte. Mentre sta per raggiungere il sanatorio Castorp vede una slitta. “con quella portano a valle i cadaveri” lo informa il cugino. E quando per la prima volta si avvia verso la grande sala da pranzo sente un rumore, un rumore orribile, mai sentito prima. “E’ una giovane che tossisce”, lo informa di nuovo il cugino... “ne ha per poco…”. Tosse, un colpo dio tosse, ma una tosse mostruosa, un rumore quasi osceno che rivela di colpo la vera natura del posto. I ricoverati rimuovono il pensiero della morte, non parlano delle persone che non entrano più nella elegante sala da pranzo, discutono di sciocchezze, si offendono se qualcuno accenna al… brutto. Ma la morte è li, onnipresente, il suo puzzo si sente.. e lo sente anche il lettore.

La permanenza di Castorp in sanatorio durerà, lo si è detto, ben sette anni durante i quali il ggiovane perde di fatto ogni contatto col mondo “della pianura”. A riportarlo in “pianura” sarà il dramma della grande guerra. Castorp parte per andare a servire il suo paese, abbandona il tempo lento del sanatorio per immergersi nel turbinio bellico che lo travolge. Il romanzo non dice se il giovane sopravvive o meno al grande conflitto, questo tuttavia pone fine ad un’epoca, ed un’altra ne apre. Una epoca nuova e sanguinosa, che si concluderà con una nuova ed ancora più colossale mattanza, e che sembra confermare le previsioni più fosche di Leo Naphta. Un’epoca che siamo riusciti a superare, ma che, vista la situazione attuale del mondo, potrebbe ripresentarsi. Perché sempre e da sempre la civiltà è minacciata dal riemergere della barbarie.

La montagna incantata è in definitiva un grande romanzo, un autentico, assoluto capolavoro. Un libro difficile, di certo non è possibile leggerlo a letto o in treno, ma proprio per questo regala al lettore momenti di profondo piacere intellettuale. La sua difficoltà è quella dei sentieri di montagna: sono faticosi ma quante soddisfazioni regalano a chi li affronta!
Ovviamente apprezzare la grandezza di un romanzo, specie di un romanzo filosofico come “la montagna incantata”, non vuol dire condividere tutte le tesi politiche e filosofiche che in esso sembrano esporre il pensiero dell’autore. Nelle “considerazioni di un impolitico” Mann espresse a suo tempo tesi che difficilmente possono essere condivise da chi ama la democrazia occidentale. In seguito sottopose a critica le idee esposte nel saggio, difese la repubblica di Weimar contro gli attacchi del nazismo e nel 1933 abbandonò la Germania. Non rinnegò però mai del tutto le tesi esposte nelle “considerazioni” e di queste ci sono tracce nella “montagna incantata”.
Ma apprezzare un capolavoro non vuol dire, val la pena di ripeterlo, essere d’accordo con tutta la filosofia di cui è impregnato. Personalmente non concordo affatto, per fare solo un esempio, con l’antioccidentalismo di un Dostoevskij, questo non mi ha spinge a cercare di negare o sminuire il valore di un capolavoro come “i fratelli karamazov”.
Una cosa è certa: “la montagna incantata” è un libro da leggere e meditare. In un momento in cui sugli scaffali delle librerie è esposta molta spazzatura ed in cui nanerottoli letterari vengono presentati come giganti la lettura di un grande capolavoro non solo eleva lo spirito, ma costituisce un ottimo antidoto contro la superficiale volgarità che ci opprime. Non è poco, direi.


mercoledì 11 ottobre 2023

DIRITTI

 

C’è da scommetterci: ora che è in corso l’offensiva israeliana le urla dei “pacifisti” arriveranno al cielo. Da subito del resto hanno detto, più o meno, che “Israele se l’era cercata”. Di fronte ad una azione che richiama alla mente le peggiori brutalità dei nazisti hanno parlato di “terre rubate” ai palestinesi e di Gaza come grande Lager in cui questi sono costretti a vivere.
Chi conosce minimamente la storia sa benissimo che gli israeliani non hanno rubato la terra di nessuno: a suo tempo i coloni ebrei hanno comprato a caro prezzo le terre su cui si sono installati e che hanno reso fertili col loro lavoro. Quanto ai palestinesi costretti a vivere in un lager… beh… gli arabi israeliani godono di tutti i diritti civili, compreso il fondamentale diritto di culto. In Israele esiste addirittura un partito filo palestinese rappresentato in parlamento: esistono forse sinagoghe a Gaza? O un partito filo sionista è presente nel parlamento iraniano? Qualcuno finge di non saperlo, ma quando Gaza è stata consegnata ai palestinesi gli ebrei che ci vivevano sono stati costretti ad abbandonare le loro case, le sinagoghe sono state smantellate, i cadaveri portati via dai cimiteri. La presenza anche solo di un ebreo morto era insopportabile per i fondamentalisti di Hammas ed i loro sostenitori. Poi, liberatisi della diabolica presenza degli ebrei, cosa hanno fatto i fondamentalisti di Hammas ed i loro seguaci? Si sono dedicati a normali, pacifiche attività economiche? NO, hanno trasformato quel territorio in base di partenza per continui attentati terroristici contro Israele, sino all’orrore di questi ultimi giorni. Però per i “pacifisti” Israele non deve reagire, deve “rispettare” Gaza, attendere pazientemente il prossimo massacro.
Va detto una volta per tutte. Israele ha diritto di esistere, difendersi e contrattaccare.
I bambini israeliani hanno diritto di andare a scuola senza esser costretti ad interrompere le lezioni per correre in qualche rifugio.
Le donne e gli uomini israeliani hanno diritto di svolgere tranquillamente le loro attività, senza l’assillo di vedersi piombare sulla testa qualche missile.
Gli israeliani tutti hanno ha diritto ad una vita normale, come quella che vivono, più o meno, italiani, francesi, giapponesi, brasiliani...
Chi nega loro questo diritto va combattuto, senza se e senza ma.
E tanto basta.

lunedì 25 settembre 2023

CONTE ED I CONTI PUBBLICI

Giuseppe Conte continua imperterrito a sostenere che grazie al superbonus lo stato avrebbe guadagnato un sacco di soldi e, di conseguenza, sarebbe migliorata la situazione dei conti pubblici.
Insomma, per il signor Conte se io regalo soldi al primo che passa accresco il saldo del mio conto corrente. Sarebbe davvero bello se una cosa simile potesse accadere: tutti diventeremmo ricchi in men che non si dica.
Facili ironie a parte, e tralasciando ogni considerazione sulle cifre, facciamo uno sforzo e vediamo di prendere sul serio le sciocchezze che il signor Giuseppe Conte non si stanca di ripetere. Su cosa si basa, a livello di teoria economica, il suo, si fa per dire, “ragionamento”? Più o meno su questo. Il superbonus, ha rilanciato l’edilizia, sostenuto l’occupazione quindi fatto aumentare il totale delle tasse pagate dai cittadini. Questi maggiori introiti avrebbero superato le perdite derivanti dai regali che lo stato ha graziosamente concesso a chi volesse ristrutturare la propria abitazione, quindi migliorato la situazione dei conti pubblici.
Questa tesi è valida a livello teorico ed è supportata da dati empirici seri? La risposta non può essere che un rotondo NO. Poniamo che lo stato regali 100 ai proprietari di immobili che intendono fare lavori di ristrutturazione. Questi pagano 100 alle ditte che compiono i lavori, le ditte pagano tasse per 20. Bastano questi conti da quattro soldi per vedere che il giro si conclude per lo stato con una perdita di 80. Perché l’operazione si concluda con un guadagno per lo stato occorrerebbe che le tasse sui lavori superassero il 100%, cosa impossibile, almeno per ora.
Tutti sanno che grazie al superbonus sono lievitati in maniera enorme i costi dei prodotti per l’edilizia. Se il “ragionamento” di Conte fosse corretto anche questo avrebbe migliorato i conti pubblici perché avrebbe fatto salire gli introiti da imposte indirette. Insomma: lo stato mi regala 10 per comprare cemento… il prezzo del cemento sale a 20., lo stato mi regala altri 10, compro il cemento, spendo 20 e pago 5 di IVA… Per Conte tutto questo giro non si conclude per lo stato con una perdita di 15 ma con un guadagno. Ridicolo.
Ma c’è dell’altro da aggiungere, e si tratta della cosa più importante di tutte. Se si regalano soldi a chi vuole ristrutturare casa aumentano di certo i lavori nel settore edile, quindi i salari e la domanda globale. Ma esiste un incremento di produzione totale a fronte di questo aumento della domanda? Cosa hanno prodotto le ditte edili? Forse beni destinati ad essere acquistati sul mercato? No, hanno prodotto tanti bei cappotti termici che faranno felici i proprietari delle abitazioni ma che nessun muratore, nessun lavoratore potrà mai acquistare sul mercato. A fronte di un aumento della domanda non c’è un corrispondente aumento dei beni disponibili per l’acquisto e questo provoca non aumento di ricchezza ma inflazione. Un keynesiano potrebbe rispondere che l’aumento della ricchezza è garantito dal famoso “moltiplicatore degli investimenti”, ma i rivali di Keynes hanno più volte messo in rilievo che il moltiplicatore molto spesso non è in grado di garantire un aumento della produzione proporzionale alla crescita della domanda e lo stesso Keynes ricorda che tale moltiplicatore si esaurisce e che occorrono nuove iniezioni di liquidità per impedire tale esaurimento. Cosa ha in mente il signor Conte? Nuovi superbonus si auto, elettrodomestici e vacanze al mare?
Questo a livello teorico. A livello empirico le affermazioni di Conte hanno forse dei riscontri positivi? Di nuovo la risposta è NO. Conte, con un gioco delle tre carte degno degli illusionisti da strapazzo, attribuisce al superbonus l’incremento del PIL verificatosi nel 2021 rispetto al 2020. Dimentica di ricordare che il 2020 è stato l’anno del covid, con le chiusure generalizzate moltissime attività produttive. E’ chiaro che se riaprono fabbriche ed uffici chiusi o a che per molti mesi hanno lavorato a ritmo ridotto il PIL schizza verso l’alto. Per Conte questo sarebbe un risultato positivo del superbonus. Da nobel per l’economia!
Inutile procedere...

 

venerdì 15 settembre 2023

CRISI MIGRATORIA, GOVERNO ED OPPOSIZIONI

Bisogna dire le cose come stanno: la situazione degli sbarchi rischia di finire fuori controllo. Molti che hanno votato centro destra sono decisamente arrabbiati con la Meloni che una volta diventata capo dell’esecutivo si sarebbe scordata degli impegni presi col corpo elettorale.
Sinceramente queste critiche mi sembrano ingenerose. La Meloni ha finora cercato di gestire la crisi puntando sulla diplomazia. Da un lato ha spinto perché l’Europa si facesse carico della difesa dei propri confini esterni (cosa radicalmente diversa dalla tanto declamata “redistribuzione” dei migranti), dall’altro ha cercato accordi con gli stati del nord Africa perché collaborassero coi paesi europei per bloccare le partenze. Era questa la sostanza del famoso blocco navale di cui molti lamentano la mancata applicazione. Non si trattava di un blocco unilaterale ma di una azione di contrasto alle partenze attuata collaborando con gli stati del nord Africa.
Bisogna però dire che questa azione sta dando scarsi o nulli risultati. L’Europa ha preso impegni a parole ma, come al solito, ,le parole non si sono trasformate in fatti. La UE è bravissima quando si tratta di imporre auto elettriche o cappotti termici, del tutto inerte quando si tratta di gestire le crisi migratorie.
In ogni caso, il governo deve reagire. Se l’Europa non fa nulla l’Italia agisca da sola, o con la collaborazione dei paesi mediterranei: Spagna e Grecia. Se gli stati del nord Africa non sono in grado di bloccare le partenze si dia loro una mano, motovedette e guardia costiera ci sono anche per questo. Così NON si può andare avanti: nessun paese può reggere l’impatto di una immigrazione clandestina fuori controllo. Ogni paese ha il diritto ed il dovere di difendere i propri confini, se non lo fa cessa di essere un paese, diventa una terra di nessuno. Se in Italia possono entrare tutti, senza limiti, vincoli e controlli l’Italia cessa di esistere.
Ciò detto sul governo val la pena di aggiungere una breve considerazione sull’atteggiamento delle opposizioni.
Per anni hanno detto che i migranti erano preziose risorse, hanno ripetuto fino alla noia che i nuovi arrivati ci avrebbero pagato le pensioni. Hanno aggiunto che eravamo moralmente obbligati ad accogliere TUTTI. Sulla base di questi assunti hanno letteralmente spalancato le porte del paese alla immigrazione clandestina,
e ora cosa fanno? Strillano che la situazione migratoria è fuori controllo, si lamentano dei troppi sbarchi e puntano l’indice accusatore contro il governo.
Il più solerte è, ancora una volta, il signor Giuseppe Conte.
A suo tempo questo signore fu decisivo per mandare a processo Salvini, all’epoca dei fatti suo ministro dell’interno, “reo” di aver ritardato di qualche giorno lo sbarco di un centinaio, circa di migranti.
Oggi quello stesso Giuseppe Conte è l’uomo che più di tutti abbaia per denunciare il numero eccessivo di sbarchi a Lampedusa. Siamo fuori da ogni decenza.
Il fatto che in momenti gravi come quello che stiamo vivendo le persone per bene debbano essere infastidite dai latrati di personaggi come Conte è indice di quanto grave sia la decadenza politica della nostra povera Italia.

domenica 27 agosto 2023

I "GENI INVISIBILI" E LE MIGRAZIONI

Il sociologo Guglielmo Ferrero li chiama “i geni invisibili della città”. Di cosa si tratta? Si tratta di un insieme di idee, valori, modi di vedere i rapporti fra gli esseri umani, legami con una tradizione, condivisi dalla stragrande maggioranza dei membri di una determinata società. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di una condivisione su tutto, al contrario. Tutte le società sono caratterizzate dalla presenza di interessi, idee, valori non concordanti e spesso in contrasto fra loro. Nelle società libere e pluraliste questa differenza da vita ad una costante competizione che trova, o può trovare, il suo punto di equilibrio nella mediazione politica e nella ricerca di compromessi accettabili. Questo equilibrio tuttavia può essere di volta in volta raggiunto, e la competizione non portare la società a sfaldarsi, solo se alla base di tutto esiste quell’insieme di valori, idee, comportamenti che Ferrero chiama “i geni invisibili della città”.
Se questi “geni” esistono, e se i governi, tutti i governi, li rispettano, le società non si disgregano. Avviene il contrario quando questo rispetto viene a mancare. Se i governi non rispettano nella loro azione i “geni invisibili” gran parte dei cittadini considera illegittimo il loro potere e si creano le condizioni per l’emergere di spinte eversive. Se larghe fette della popolazione non si riconoscono in questi geni la società si sfalda e, nei casi estremi, può precipitare nel baratro della guerra civile.

Quando si parla di migrazioni molti mettono in evidenza le loro conseguenze economiche e sociali ed il loro impatto sulla sicurezza. Difficile dar loro torto. Fare entrare decine, centinaia di migliaia di migranti senza che l’economia possa assorbirli vuol dire creare una massa enorme di spostati che, nella migliore delle ipotesi, va ad alimentare il lavoro nero e sottopagato, o l’accattonaggio, nella peggiore, le fila della malavita più o meno orgasnizzata.
Tutto vero, ma sarebbe, ed è, un errore gravissimo, sottovalutare le conseguenze culturali negative della immigrazione clandestina di massa.
Inutile far finta di non vederlo: moltissimi di coloro che entrano diciamo così, “irregolarmente” vengono da culture lontanissime dalla nostra. Hanno visioni del mondo e dei rapporti fra gli esseri umani radicalmente diverse dalle nostre; per usare la categoria di Guglielmo Ferrero, si richiamano a “geni invisibili” che con i nostri hanno poco, spesso molto poco, in comune.
I “geni invisibili” di un giapponese buddista o quelli di un uicraino greco ortodosso sono diversi, ma non incompatibili coi nostri, del tutto incompatibili invece sono quelli di un musulmano che consideri l’adulterio e l’apostasia crimini da punire con il carcere o addirittura con la morte.
Indipendentemente dalle sue conseguenze economiche e sociali l’immigrazione clandestina di massa ha o può avere conseguenze culturali devastanti: distrugge i “geni invisibili” che sono alla base della nostra convivenza. Certo, si possono mettere in atto misure di integrazione, ma queste possono, con difficoltà, avere successo di fronte ad una immigrazione legale e controllata, non hanno successo alcuno a fronte di una immigrazione illegale fuori controllo.

Non si tratta di mera speculazione. Abbiamo di fronte agli occhi la situazione di paesi che hanno accettato per lungo tempo flussi migratori incontrollati ed in più hanno alle spalle un passato coloniale, la Francia ad esempio. Difficile non vedere che questi paesi, di nuovo, la Francia è l’esempio più eclatante, stanno perdendo le loro caratteristiche unitarie. Basta un nulla perché paesi simili si trasformino in autentiche polveriere e il normale scontro politico e sociale diventi l’anticamera della guerra civile. Se la polizia uccide in uno scontro a fuoco un giovane milanese si hanno al massimo interrogazioni parlamentari, raccolte di firme, qualche fiaccolata o corteo di protesta. Se in uno scontro a fuoco la polizia francese uccide un giovane di origini marocchine intere città vengono messe a ferro e a fuoco. La tipica situazione che viene a crearsi quando le società mancano dei loro “geni invisibili”. E si trasformano in quanto di meno sociale, meno integratorio possa immaginarsi: un aggregato di tribù etniche. Il trionfo del separatismo razzista.
Tutte le prediche, tutta l’esibizione ipocrita di buoni sentimenti non possono modificare questa situazione. Farà bene il governo italiano, chiamato a gestire una crisi migratoria senza precedenti, a non scordarlo. Pena la sua credibilità.

 

"PUREZZA" ED IMMIGRAZIONE

Mentre l’Italia è meta di un numero mai visto di sbarchi il capo dello stato non ha trovato niente di meglio che affermare, al meeting di “Comunione e liberazione” (per inciso: non si capisce perché mai tutti i politici diano tanta importanza a questo meeting) che noi tutti siamo figli di numerose etnie.
Se il capo dello stato ha voluto dire che etnie e nazioni cambiano nel tempo composizione e caratteristiche, la sua affermazione è sicuramente vera, ma anche del tutto ovvia, al limite della banalità.
Etnie e nazioni si formano in lunghi e complicati processi storici caratterizzati da disaggregazioni ed aggregazioni etniche e nazionali. Quello della purezza etnica è un oscuro mito nazista che ogni democratico, ogni liberale non può che respingere con la massima determinazione.
Tutto questo però non c’entra assolutamente NULLA con l’attuale dibattito sui processi migratori.
E’ vero, etnie e nazioni cambiano nel tempo, ma COME cambiano? In che modo noi dovremmo indirizzare il cambiamento? Questa è la domanda seria da porsi.
Etnie e nazioni possono cambiare in conseguenza degli scambi commerciali e culturali, dei processi LEGALI di immigrazione ed emigrazione, dei viaggi e del turismo, dei matrimoni misti, tutte cose che nessuna persona seria osa, credo, mettere in discussione. Ma anche altre possono essere le cause del cambiamento: guerre di conquista, spostamenti forzosi di intere popolazioni, processi fuori controllo di immigrazione clandestina.
Quello a cui stiamo assistendo è forse un processo, potenzialmente positivo, di immigrazione ed emigrazione controllato e legale? Basta fare la domanda per avere la risposta. Quello a cui stiamo assistendo non ha nulla di controllato e legale: si tratta di un autentico trasferimento clandestino di popolazioni dall’Africa all’Europa, in larga misura gestito dalla malavita. Un governo, qualsiasi governo ha o non ha il diritto di opporsi, con tutte le forze, ad un simile processo? Di nuovo, basta fare la domanda per avere al risposta. Chi si oppone ad un simile processo è forse un teorico della “purezza etnica”? Per la terza volta basta fare la domanda per avere la risposta. Se opporsi alla immigrazione clandestina di massa vuol dire sostenere l’orribile idea nazista della “purezza etnica” tutti i governi del mondo sarebbero “nazisti”.
Ogni stato ha diritto di difendere i propri confini, di regolare i flussi migratori, di stabilire quante persone può accogliere. Nulla in tutto questo contrasta con i valori democratici e liberali cui tanti teorici “no border” fingono di credere. Appunto...FINGONO...


 

domenica 18 giugno 2023

SILVIO BERLUSCONI. GRANDEZZA E LIMIITI

Berlusconi ai servizi sociali - ilGiornale.it

Che Berlusconi sia stato un grande imprenditore è impossibile negarlo. Qualcuno può obbiettare che ha goduto di appoggi politici, ma, di grazia, è possibile svolgere attività imprenditoriale senza appoggi politici in un paese ammalato di statalismo come l’Italia? Lasciamo perdere. A distanza di qualche giorno dai suoi imponenti funerali vorrei scrivere solo sul Berlusconi politico, quello che in fondo più interessa alla gran maggioranza dei suoi amici come dei suoi rivali.
Un discorso pacato sul Berlusconi politico non può che partire dal ricordo di un anno memorabile: il 1989.
Nel 1989 il comunismo crollava, per lo meno in Europa e nel nel paese in cui era nato. Crollava quello che per decenni era stata definito come la meta finale della storia, anzi, come diceva Marx, la fine della preistoria del genere umano, il “passaggio dal regno della necessità a quello della libertà”. E questo luminoso “regno della libertà” non era nelle teorizzazioni dei comunisti un mero ideale, una sorta di idea platonica, no, era qualcosa che si incarnava in un una concretissima esperienza storica, in un paese, in un gruppo di paesi: l’URSS di Stalin prima, poi i paesi “liberati” nel 1945 dall’armata rossa, poi la Cina di Mao, la Cuba di Castro, la Cambogia di Pol Pot, il grande “campo socialista”, contrapposto all’imperialismo capitalista a guida americana.
Nel 1989 il comunismo crollava, per lo meno in Europa e nella sua prima roccaforte. Crollava lasciandosi alle spalle decine di milioni di cadaveri, economie distrutte, classi dirigenti, culture e tradizioni nazionali fatte a pezzi, un enorme, pauroso deserto. Il “regno della libertà” si era rivelato per quello che era e non poteva non essere: una delle più spaventose tirannidi totalitarie di ogni tempo.
L’esperienza del comunismo ha avuto conseguenze negative anche nei paesi che non la hanno vissuta direttamente. L’Italia è stato il paese occidentale in cui la presenza ed il peso politico dei comunisti, pure minoritari, è stata più forte. Questo ha fatto si che il nostro paese diventasse una democrazia bloccata. In Italia per molti decenni non è esistito alcun tipo di alternanza: un partito, la DC, aveva il monopolio del governo ed un altro, il PCI, quello della opposizione. Questo doveva indurre nella politica italiana fortissimi elementi di degenerazione e corruzione, amplificati dalla egemonia culturale che lo statalismo ha sempre avuto nella storia dell’Italia repubblicana.
Il crollo del comunismo scompaginava il quadro. Crollato lo stato guida, dissoltosi il “campo socialista” al vecchio PCI non restavano che due alternative: accettare un minoritarismo strategico, diventare il partito dei profughi del comunismo staliniano, o castrista, o maoista, poco importa, oppure accettare senza riserve la democrazia parlamentare fino a ieri definita “borghese”. Accettarla, qui è il vero punto di svolta, non come opzione tattica o strategica ma come valore. Sin dal secondo dopoguerra il vecchio PCI aveva messo la difesa della democrazia al centro dei suoi programmi, ma sempre, fino al 1989, aveva anteposto alla democrazia “borghese” il sistema socialista, la pseudo democrazia “sovietica”. Anche il PCI di Berlinguer, il più revisionista dei comunisti italiani, aveva messo la “fuoriuscita dal capitalismo” come suo obiettivo di fondo; da qui la persistente doppiezza del comunismo italiano: legalitario e democratico in Italia ma legato all’esperienza mostruosa del comunismo sovietico. Tutti i distinguo, le prese di distanza del PCI berlingueriano non avevano rotto il legame fra questo partito ed uno dei totalitarismi più sanguinari della storia.
Il crollo del comunismo obbligava i comunisti italiani ad una scelta netta: non si trattava di elaborare vie “nazionali” al socialismo, si trattava di superare l’idea stessa della “fuoriuscita dal capitalismo”, quindi dalla stessa democrazia “borghese”. Sappiamo quale fu la scelta dei più intelligenti fra i dirigenti del vecchio PCI. Rifiutarono di diventare il mini partito dei puri e duri, accettarono le istituzioni democratico borghesi e la stessa economia di mercato. Lo fecero però in maniera parziale, reticente, contraddittoria. Conservarono la venerazione nei confronti di uomini politici lontani anni luce dal liberalismo e dalla democrazia parlamentare, due nomi per tutti: Palmiro Toglietti ed Antonio Gramsci che solo a prezzo di mistificazioni enormi possono esser spacciati per sostenitori della democrazia liberale. Soprattutto il vecchio PCI, trasformandosi prima in PDS, poi in DS, poi in PD aveva conservato, per lo meno in larga parte del suo gruppo dirigente e della sua base una pericolosa forma mentis ideologica. Abbandonata la vecchia, compatta e profonda filosofia marxista l’ex PCI restava aperto all’influsso di una enorme quantità di ideologie leggere: il mondialismo immigrazionista, il misticismo ecologico, il femminismo radicale. Il comunismo non diventava liberale ma liberal.

Eppure nel 1989 proprio questo partito giunse ad un passo  dal diventare il maggior beneficiario del crollo del comunismo. Il comunismo crollava, l’Italia cessava di essere una democrazia bloccata ed i beneficiari di questo nuovo stato di cose rischiavano di essere proprio i maggiori responsabili del blocco pluridecennale della democrazia italiana. Mentre polacchi, ungheresi, rumeni, tedeschi dell’est non volevano più neppur sentir parlare di comunismo i post comunisti italiani erano sul punto di conquistare il governo del paese. Una situazione tanto paradossale non si spiega solo col legittimo desiderio di cambiare cresciuto nel paese in decenni di democrazia bloccata. A rendere possibile il paradosso dei post comunisti beneficiari del crollo del comunismo è stata, lo sappiamo bene tutti, l’azione della magistratura. Certo, questa azione era in parte giustificata dal crescere nel paese della corruzione, ma è impossibile negare il suo orientamento politico. Una parte almeno della magistratura mirava ad accrescere il suo potere, per farlo aveva bisogno di una sponda politica, inesistente nei decenni della democrazia bloccata. Ora questa sponda emergeva ed era costituita dai post comunisti. Questo spiega perché le inchieste, in larga misura centrate sul finanziamenti illecito della politica, abbiano solo sfiorato un partito che era stato per decenni finanziato da un paese in cui gli oppositori politici, veri o presunti, finivano, nel migliore dei casi, nei manicomi.
Il ciclone giudiziario di “mani pulite” distrusse praticamente tutta la classe politica che aveva governato l'Italia per quasi mezzo secolo. Solo un partito attraversò quasi illeso la bufera mediatico giudiziaria che aveva letteralmente distrutto partiti del calibro del PSI e della DC: l’ex partito comunista. Dire che “mani pulite” portò i post comunisti alle soglie del governo è molto riduttivo. Le inchieste giudiziarie non solo portarono i post comunisti alle soglie del governo, li lasciarono praticamente senza rivali. Se si esclude l’irrilevante MSI all’inizio degli anni 90 dello scorso secolo l’ex PCI era il solo partito ancora in piedi, sostanzialmente intatto. Il crollo del comunismo aveva creato il vuoto attorno ai post comunisti. Non credo si sia mai vista nella storia una situazione tanto paradossale.
E’ allora che “scende in campo” Silvio Berlusconi. E scompagina tutto. Crea in pochi mesi un partito del tutto nuovo intorno al quale coagula quella che in Italia è da sempre la maggioranza dell’elettorato. Ed impedisce una vittoria dei post comunisti che quasi tutti davano per certa. Quella di Berluscoini non è però una semplice vittoria elettorale: in fondo alle elezioni si vince e si perde e Berlusconi perderà più di una volta la sfida elettorale. La discesa in campo di Berlusconi è qualcosa di più di una abile e vincente mossa elettorale: quella discesa in campo restituisce ai moderati la loro casa politica che “mani pulite” aveva letteralmente fatto a pezzi. Senza la rapida ricostituzione di una casa politica per l’elettorato di centro destra i post comunisti non si sarebbero limitati a vincere: sarebbero stati praticamente privi di rivali capaci di contrastarli. Con la sua mossa Berlusconi crea le condizioni per una autentica democrazia della alternanza, impedisce che l’Italia, dopo i decenni della prima repubblica, cada in una nuova forma di democrazia bloccata, assai peggiore della prima: una democrazia bloccata per mancanza di partiti in grado di opporsi alla egemonia delle sinistre al governo. Berlusconi scompagina i piani dei post comunisti e di quella parte della magistratura che, vedendo in questi una possibile sponda politica, li aveva agevolati in maniera decisiva. Non gliela perdoneranno mai.

Ed in effetti si scatena contro Berlusconi, subito dopo il suo ingresso in politica, una campagna mediatico giudiziaria senza precedenti nella storia. Centinaia di inchieste, decine di processi, migliaia di ore di intercettazioni, perquisizioni a raffica nelle sedi Mediaset.
Berlusconi era sceso in campo promettendo una “rivoluzione liberale”, grazie a lui per la prima volta era nato in Italia un partito liberale di massa, basterebbe questo a renderlo grande. Però quella rivoluzione liberale è rimasta il larga misura solo una promessa. Questo gli è stato rimproverato più volte da persone certamente lontane da ogni forma di preconcetto “antibertlusconismo”. La critica è in larga misura giusta, ma non tiene conto della situazione folle in cui il cavaliere si è trovato sin dall’inizio ad operare. Dal giorno della sua “scesa in campo” a quello della sua morte il cavaliere è sempre stato sotto inchiesta, sempre imputato in qualche processo, o in più processi contemporaneamente. Non solo, sin dall’inizio si è scatenata contro di lui una campagna mediatica senza precedenti nella storia dei paesi occidentali. Il grande manipolatore, l’imperatore dei media è stato al centro di un attacco mediatico mai visto in precedenza, assediato da magistrati ed attori comici, filosofi e cantanti, ballerine e professori di università, tutti concordi nell’attribuirgli tutti o quasi i mali del mondo. Direi che ha qualche giustificazione se non è riuscito a realizzare le parti più importanti del suo programma.
Se una cosa stupisce nella vicenda politica di Berlusconi questa è proprio la sua incredibile capacità di resistenza. Berlusconi ha saputo resistere: dato più volte per finito è rimasto in piedi. Nessuno oggi ricorda personaggi come D’Alema o Fini, Casini o Bertinotti, Occhetto o Pecoraro Scanio. Tutti invece, penso, ricorderanno dove erano e cosa facevano nel momento in cui hanno appreso della scomparsa di Silvio Berlusconi. Piaccia o non piaccia la cosa anche questo ha un certo valore politico.

Non ho la minima intenzione di santificare Silvio Berluscini, né di negare quelli che a me paiono suoi gravi errori politici. Il fatto che sia stato costretto ad agire in circostanze eccezionali non annulla la gravità di quegli errori, ovviamente, anche perché alcuni di tali errori hanno reso ancora più gravi proprio quelle circostanze.
Berlusconi non è riuscito a fare la famosa rivoluzione liberale, e questo era in fondo prevedibile, addirittura in parte scusabile, ma non è riuscito neppure a ridurre la spesa pubblica, anzi, spesso ha usato la stessa per fini non troppo dissimili da quelli voluti a suo tempo dalla sinistra e dalla vecchia DC.
Non è riuscito a creare una nuova classe dirigente liberal democratica. Capo di un impero mediatico ed editoriale non ha contribuito, o ha contribuito molto poco, alla diffusione della filosofia liberale. E’ vero, il Berlusconi editore era e restava un imprenditore che deve guardare al profitto e non si fanno profitti sufficienti se si riduce il target di mercato ad una sola categoria, politicamente schierata, di possibili clienti. In tutto questo non c’è nulla di male, ovviamente, ma nulla impediva al cavaliere di dedicare una parte, anche piccola, delle sue attività editoriali alla difesa del liberalismo. Questo non è avvenuto: anche oggi è molto più facile trovare un libro di Popper o di Hayek in una libreria Feltrinelli che non in una Mondadori. Considerazioni simili si possono fare per le televisioni. Le TV di Berlusconi sono state soprattutto TV commerciali, niente da dire in proposito, ma quanto al resto nulla di serio le ha mai differenziate dai canali RAI, anzi, spesso proprio nelle TV del cavaliere si è assistito e si assiste alle più desolanti esibizioni del politicamente corretto. Tutto questo ha avuto pesanti ripercussioni a livello politico. Forza Italia è sempre stato il partito di Berlusconi, privo di una classe dirigente di ricambio. I dirigenti di Forza Italia venivano quasi tutti dai partiti della prima repubblica, personaggi spesso assai discutibili che in molti casi hanno abbandonato il cavaliere quando le cose si sono messe male. Silvio Berluscioni ha diretto il suo partito con uno spirito incredibilmente accentratore; probabilmente convinto di essere insostituibile non si è preoccupato di far maturare un erede, un delfino, col risultato che la sua scomparsa lascia la sua creatura politica in una preoccupante situazione di vuoto.
L’elenco degli errori di Berlusconi sarebbe lungo, così come quello degli “eccessi” della sua vita privata. Lungo e forse poco utile. Personalmente stento a perdonargli le recenti prese di posizione sull’Ucraina. Nessuno nega l’utilità della real politik, anche quando è rivolta ad interlocutori che tutto sono tranne che democratici, ma di fronte alla brutale aggressione di uno stato sovrano non sono possibili esitazioni. Rifiutarsi di condannare l’aggressione, strizzar l’occhio all’aggressore cessa in casi simili di essere semplice real politik, diventa scelta politicamente e moralmente inaccettabile oltre che priva di realismo autentico.
I nemici del cavaliere ritengono che la sua simpatia per Putin, anche per l’ultimo Putin, quello assolutamente indifendibile, dimostri che Berluscioni non è mai stato un vero democratico liberale. Credo che un simile giudizio sia ingeneroso e profondamente sbagliato. A mio parere Berlusconi, come tanti altri, non ha capito Putin, meglio, non ha capito la Russia. La Russia non è mai stata un paese davvero occidentale, non ha mai conosciuto un periodo di democrazia, la sua intellighenzia filo occidentale è sempre stata minoritaria, priva di radici profonde nel tessuto sociale e culturale del paese. In questo paese, sempre in equilibrio instabile fra occidente e dispotismo orientale gli effetti distruttivi della esperienza del comunismo staliniano sono stati più duraturi e molto più distruttivi che nei paesi dell’Europa orientale. In Russia inoltre, a differenza che negli altri paesi dell’est Europa, il comunismo è riuscito a stimolare sentimenti nazional sciovinisti latenti in larghe fasce di popolazione. Questo spiega perché, malgrado il terrore mostruoso dello stalinismo, molti in Russia guardino ancora con nostalgia al tiranno georgiano.
In un paese come la Russia il crollo del comunismo ha lasciato un vuoto più ampio che altrove, vuoto che è stato riempito dall’unica forza sociale in grado di riempirlo: la vecchia burocrazia di partito. Per farla breve: Berlusconi non ha capito che il 1989 non ha rappresentato in Russia quella cesura radicale col passato comunista che c’è stata invece in paesi come la Polonia, l’Ungheria o la Cecoslovacchia. Definendo Putin un sincero rivale del comunismo Berlusconi ha dimostrato di aver capito poco di Putin e ancor meno della Russia. Putin non è un comunista, ma uno sciovinista grande russo che guarda con nostalgia alla potenza imperiale della vecchia URSS. Non riuscendo a cogliere il senso di una simile, elementare, verità l’ultimo Berlusconi ha commesso quello che a mio modesto parere resta il più grave dei suoi errori politici, ma questo non fa di lui un liberale mancato, solo un uomo che come tutti può commettere brutti errori di valutazione.

Con tutti gli errori che può aver commesso Berlusconi, piaccia o non piaccia la cosa, è e resta un grande, uno degli ultimi, forse l’ultimo, grande della politica italiana.
Con la sua scesa in campo ha impedito la vittoria a mani basse di una sinistra ancora largamente ideologica, di più, ha creato contro questa sinistra una forza politica in grado di contrastarla, di impedirle, se e quando fosse stata vincente, di poter governare il paese senza trovare ostacoli di sorta. Mani pulite aveva tolto ad una metà abbondante del paese la propria rappresentanza politica, Berlusconi gliela ha ridata e ha costruito in questo modo le basi per una vera democrazia dell’alternanza. Non a caso Silvio Berlusconi è stato il protagonista assoluto di circa 30 anni di politica italiana. Amato ed odiato non è mai stato ignorato per il semplice motivo che ignorarlo era impossibile. Chi ha dubbi sulla sua grandezza provi a pensare a tanti pseudo protagonisti della politica italiana degli ultimi decenni. C’è chi davvero pensa a un D’Alema, ad un Fini, ad un Casini o ad una Rosy Bindi come figure politiche centrali degli ultimi 30 anni? O c’è chi pensa che soggetti come Giuseppe Conte o Elly Schlein siano anche lontanamente paragonabili a Silvio Berlusconi?
La morte di Silvio Berluscoini chiude un’era. Sono molto pochi i politici di cui si possa dire, nel bene e nel male, altrettanto. Penso che avremo molti motivi per rimpiangerlo.