lunedì 20 marzo 2023

IL SILENZIO DELLA RAGIONE ED IL FRASTUONO DELLA PROPAGANDA

Prendiamo due temi di discussione e dibattito politico: la guerra in Ucraina ed il riscaldamento globale. Come li affrontano i media?
Sulla guerra in Ucraina sui media c’è o quanto meno c'è stata, una autentica pluralità di voci. In innumerevoli talk show e dibattiti televisivi abbiamo assistito alle esibizioni di fior di filo putiniani. Ne conosciamo tutti gli argomenti ormai: la Nato che vuole “circondare” la Russia, il “genocidio” in Donbass, la “guerra per procura” ed altre simili facezie. Personaggi ridicoli come il professor Orsini sono ospiti fissi su Rai 3, e tanto basta direi.
Avviene lo stesso per il riscaldamento globale? Qualcuno ha mai potuto assister ad un dibattito televisivo in cui si confrontassero, pacatamente e con serietà, posizioni diverse sull’argomento, sostenute da persone davvero esperte in materia? La risposta è NO. Al massimo, in qualche rarissima occasione sono stati concessi a qualche critico del “gretismo” pochi minuti nei quali tra l’altro non gli è neppure stato permesso di esprimere la propria posizione perché subito interrotto da strilli e provvidenziali “spazi pubblicitari”. Personaggi del calibro del professor Zichichi, un tempo molto presente in trasmissioni di divulgazione scientifica, sono letteralmente scomparsi dai teleschermi, scienziati di fama mondiale come Rubbia o il professor Prodi non vi compaiono mai. In compenso dobbiamo succhiarci le idiozie di personaggi come Mario Capanna o Alfonso Pecoraro Scanio che ogni tanto riemergono dal nulla per ricordarci che “il capitalismo” prepara la “fine del mondo climatica”. Non parliamo poi di quella grandissima esponente del pensiero scientifico chiamata Greta Thunberg le cui farneticazioni sono continuamente riportate dai media.
Per farla breve, malgrado il clima di intolleranza che si sta diffondendo sempre più nel paese, in Italia si può ancora discutere di molte cose. Se ne discute male, spesso con faziosità, spesso chi dice cose sgradite viene continuamente interrotto, ma comunque può in qualche modo quanto meno far sapere al popolo bue che su un certo tema esistono posizioni diverse. Sul riscaldamento globale NO. Di questo proprio non si parla, non si discute, non ci si confronta. Che il mondo stia “bruciando” è una verità certificata che nessuno ha il diritto di mettere minimamente in discussione. Dire che forse la situazione non è così grave come la si presenta, che forse non è proprio certo che la causa di tutto siano le attività umane, che forse le soluzioni adottate non sono davvero efficaci, ecco, dire cose simili sui media è praticamente impossibile.
E mentre tace il dibattito razionale infuria la propaganda. La pubblicità ci parla suadente di prodotti “sostenibili”. Tutto deve essere “sostenibile”: dalle carote allo stoccafisso, dai libri alle abitazioni. E severi censori ci invitano a comportamenti “responsabili”: Non sprecate acqua ci dicono severi, non sciacquate i piatti prima di metterli nella lavastoviglie. Non mi stupirei se fra un po’ ci invitassero a non farci più la doccia o a non usare il bidet, ovviamente per “la salvezza del pianeta”.
Insomma, al silenzio della ragione si accompagna il frastuono della propaganda persuasiva. Che di solito genera mostri.


 

martedì 14 marzo 2023

UN RACCONTINO GREEN

Un certo stato, chiamiamolo X, è governato da un re megalomane, chiamiamolo Tizio.
Un bel giorno viene in mente a Tizio una grande idea. Sui tetti di tutte le case del suo regno dovranno essere costruite statue di Tizio, per immortalarne l’immagine nei secoli. Qualcuno ha delle perplessità: dove troveranno i proprietari delle case i soldi per simili, costosi lavori? Niente paura, dicono i regali economisti: lo stato finanzierà le opere tramite il sistema bancario, inoltre, aggiungono da solerti keynesiani, ci sarà un incremento di occupazione che stimolerà consumi ed investimenti.
I lavori iniziano. Le imprese edili lavorano al rafforzamento dei tetti, artisti ed artigiani costruiscono le statue, abili muratori le fissano su solide basi.
Ci sono più occupati, nel sistema circola più denaro che alimenta un certo flusso di investimenti aggiuntivi, anche se di dimensioni assai modeste.
Tutto bene allora? Non proprio. Si, perché muratori, artisti ed artigiani cosa hanno prodotto? Forse beni che interessano in qualche modo i consumatori? Merci che si possono trovare sui banchi dei mercati? NO. Non hanno prodotto generi alimentari, televisori, automobili, nuove abitazioni, solo statue di Tizio. La quantità di beni che la gente compra è rimasta invariata o è aumentata di poco. La maggiore liquidità immessa nel sistema, non trovando il corrispettivo di una maggior quantità di beni si traduce in incremento dell’inflazione.
Non solo: le banche che hanno finanziato i lavori hanno ora dei crediti nei confronti dello stato, ma questo crea una situazione molto difficile. Lo stato non ha i soldi per pagare i suoi debiti. Per farlo può solo aumentare il disavanzo pubblico o stampare moneta, cioè, in ogni caso, creare inflazione, oppure può NON pagare il suo debito nei confronti delle banche, ma questo può portarne molte al fallimento, con conseguenze disastrose per tutto il sistema economico.
Quella che sembrava, oltre che un doveroso omaggio al grande Tizio, una intelligente politica economica si rivela come un’avventura che può portare il paese X al disastro.
Ora, sostituiamo le statue di Tizio con l’efficientamento energetico delle abitazioni ed avremo chiaro ciò che significa la decisione presa dal parlamento europeo in tema di “case green”.
Una follia, economicamente devastante e con effetti irrisori, se non negativi, sull’ambiente.
Qualcosa di simile ai monumenti sui tetti delle abitazioni, solo che non si tratta di Tizio ma di Greta Thunberg.

domenica 12 marzo 2023

TANTE MIGRAZIONI...

Cuba, Vietnam, Cambogia, est Europa, Venezuela… da qui sono partiti nel corso di decenni ed ancora partono moltissimi profughi. E molti, moltissimi di loro sono morti durante il viaggio.
Quanto sono i cubani divorati dagli squali mentre cercavano di fuggire dall’isola del socialismo caraibico? Quanti berlinesi sono stati uccisi mentre cercavano di scavalcare il famoso muro? Nessuno lo sa, di certo moltissimi.
Eppure l’allora PCI non ha espresso solidarietà con questi migranti, al contrario li ha definiti “reazionari”, "biechi controrivoluzionari”, “amici degli sfruttatori” e così via.
Il discorso potrebbe allargarsi. Nell’epoca staliniana in URSS vigevano i passaporti interni. Fuggire dalla Cina di Mao (a suo tempo adorato dei raffinati intellettuali del “Manifesto”) era praticamente impossibile...
Solo ora le sinistre sono diventate favorevoli a tutte le migrazioni, teorizzano la fine dei confini, vagheggiano un mondo privo di frontiere, o, per essere più precisi, vagheggiano un OCCIDENTE, meglio ancora, una ITALIA priva di frontiere, di un suo territorio, mera terra di nessuno, zona di passaggio aperta a tutti.
Dalla esaltazione dei muri alla teorizzazione della fine di ogni muro, a condizione, ovviamente, che si tratti di un muro che delimiti i NOSTRI confini.
La cosa è tanto più grave in quanto i migranti che oggi arrivano sulle coste italiane si distinguono in un particolare fondamentale da quelli che, ad esempio, abbandonavano ed abbandonano Cuba.
I profughi cubani di certo non sono amici del castrismo. Chi arriva in Italia dal medio oriente è forse un oppositore di qualche immondo regime teocratico? Si tratta di omosessuali che temono l’impiccagione, adultere che rischiano la lapidazione o la fustigazione? Di liberi pensatori amici della cultura occidentale? Di cristiani perseguitati? In larga misura no. Di certo molti migranti fuggono da persecuzioni politiche e religiose, ma si tratta di minoranze. La gran maggioranza di coloro che arrivano sono migranti economici che spesso condividono valori in larga misura incompatibili con quelli che stanno a base della nostra convivenza civile.
Ne abbiamo avuto una prova in occasione della tragica vicenda di Asia Bibi. A suo tempo la comunità islamica britannica protestò contro l’asilo politico che il governo britannico voleva concedere alla sventurata donna pakistana sfuggita per un pelo alla impiccagione. Era una peccatrice nemica dell'Islam che non doveva essere accolta… molto significativo direi.
Per questo la politica delle porte spalancate alla immigrazione clandestina non solo è economicamente e socialmente insostenibile, ma mette a rischio i capisaldi della nostra democrazia liberale. Può sottovalutare un simile pericolo solo chi NON VUOLE vedere la realtà. Come non la vedeva ieri, quando i poveretti che fuggivano da Cuba erano etichettati “biechi reazionari”.

lunedì 6 marzo 2023

GLI ALTRI MIGRANTI

 

La sinistra no border, i teorici di un mondo privo di confini e polizie di frontiera hanno stranamente un atteggiamento negativo nei confronti di uno specifico caso di migrazione di massa. Quello che ha dato vita, nel 1948 allo stato di Israele.
Nella storia i fenomeni di migrazione di massa hanno avuto esiti diversi: catastrofici in alcuni casi, progressivi in altri, quasi sempre tuttavia i nuovi venuti hanno commesso atti di violenza e sopraffazione nei confronti delle popolazioni locali. Da questo punto di vista la migrazione degli ebrei in medio oriente presenta particolarità uniche, di cui stranamente i no border di oggi sembra non si vogliano proprio rendere conto.

Gli i migranti ebrei raggiungevano una terra che era stata loro ed in cui era da sempre presente una comunità ebraica, sia pure minoritaria.
Sbarcavano in un territorio in larga parte desertico, privo di ricchezze naturali, in cui non esisteva e per un paio di millenni non era mai esistito alcuno stato, meno che mai uno stato nazionale.
Non esisteva neppure un movimento nazionalista che reclamasse la costruzione su quella terra di uno stato palestinese. La organizzazione per la liberazione della Palestina nasce nel 1964, ben 16 ani dopo la fondazione dello stato di Israele. Quando iniziarono le migrazioni di ebrei nessuno pensava alla costruzione di uno stato palestinese.
I migranti ebrei non rubarono nulla a nessuno. Nessuno venne espropriato, nessuno cacciato a forza dalla sua terra, nessuno rinchiuso in “riserve”. I nuovi venuti ebrei COMPRARONO le terre in cui si insediarono.
Gli ebrei non cercarono di imporre ai locali la loro cultura. Chiesero ed offrirono collaborazione, si dissero disposti a mettere a disposizione dei locali le loro notevolissime conoscenze tecniche e scientifiche.
I migranti ebrei non cercarono di imporre a nessuno la loro fede, non chiesero abiure, non imposero conversioni forzate.
Diedero vita ad uno stato in cui tutte le fondamentali libertà sono riconosciute e tutelate. Gli arabi israeliani sono rappresentati in parlamento, votano loro partiti, nessuno attenta alla loro libertà religiosa. Israele non supera le dimensioni della Lombardia. Eppure ci sono in esso più di 200 moschee. Quante sinagoghe ci sono a Gaza? O in Iran? O in Siria?
Israele è l’unico stato nato in seguito alla decisione di un organismo che tutela, bene o male, spesso più male che bene, il diritto internazionale. Un caso unico nella storia.
Infine, cosa di enorme importanza, la creazione dello stato di Israele ha dato una patria ed offerto protezione al popolo più perseguitato della storia, reduce da un genocidio di proporzioni immani che è stato tuttavia solo l’ultimo di una serie di atti di feroce violenze perpetrati ai suoi danni.

I no border, quelli che detestano frontiere e confini, dovrebbero guardare con benevolenza al processo migratorio che ha dato vita allo stato di Israele, dovrebbero sottolineare le circostanze abbastanza eccezionali della sua nascita. Invece no. Israele è nato da una migrazione quindi (QUINDI!!!) non ha diritto di esistere. La sua sola esistenza costituisce una prevaricazione nei confronti dei palestinesi. In realtà nel 1948 nessuno parlava di palestinesi, lo scontro fu fra Israele e stati arabi. In realtà oggi un palestinese che abbia simpatie per la cultura occidentale, o che sia omosessuale, o una donna palestinese godono di molta più libertà in Israele che a Gaza, ma questi per gli attuali no border sono solo “dettagli”. Loro sono per i palestinesi, sempre e comunque, non perdonano ad Israele il delitto di essere nato.
Come mai una cosa tanto strana? Semplice. Israele è uno stato occidentale, i suoi nemici sono occidentali che odiano l’occidente. Collocati a sinistra come a destra sono dei malati di ideologia. Pronti a sostenere oggi qualsiasi flusso migratorio, incuranti delle conseguenze catastrofiche che questo può avere, non perdonano le migrazioni di 70, 80 o 100 anni fa, che videro spesso protagonisti gli scampati ai campi di sterminio nazisti.
L’ideologia è davvero una malattia, molto grave.

domenica 5 marzo 2023

MORTE DI UN TIRANNO

 Tutto su Iosif Stalin | Studenti.it
Settanta anni fa, il 5 marzo 1953 moriva Giuseppe Stalin.
Anche sulla sua morte, come su tanti episodi della sua vita ci sono ancora parecchie ombre.
Stalin va a dormire nella sua dacia la sera del 28 febbraio. La mattina non si alza. Poco male, dicono le sue guardie del corpo ed i burocrati che alloggiano nella sua amplissima e confortevole abitazione. Capita spesso che il dittatore si alzi decisamente tardi.
Passa il tempo, qualcuno si preoccupa, ma nessuno intende assumersi la responsabilità di svegliarlo. Con Stalin non si sa mai...
Passa altro tempo. Nessuno sa cosa fare. Il capo del servizio di sicurezza chiama alti dirigenti del partito. Non sanno cosa suggerire.
Infine si decidono. Alle 22,30 del primo marzo un coraggioso entra nella stanza in cui il padre dei popoli riposa. Lo trova disteso per terra, sta malissimo.
Scoppia il caos. Nella dacia arrivano tutti gli altissimi dirigenti del partito. Non sanno cosa fare. Ogni scelta potrebbe rivelarsi erronea e nella Russia di Stalin chi commette errori è subito qualificato “traditore antisovietico”, "spia" e, soprattutto “fascista”.
Si deve chiamare un medico? E se poi il medico sbaglia la cura? E… quale medico? I migliori medici di Mosca sono tutti internati in piacevoli gulag…
Infine, nel pomeriggio del 2 marzo i medici arrivano, ma possono fare molto poco ormai.
Stalin muore di una morte orribile, praticamente soffocato. Muore pieno di odio nei confronti dei suoi tirapiedi: sa bene che non aspettano altro che la sua morte per iniziare a contendersi il potere. Muore dopo una lenta agonia il 5 marzo. In tutto il mondo la stampa comunista esce listata a lutto e lo esalta come il più grande amico dei lavoratori e degli intellettuali.
Lo storico sovietico Roj Medved, lo si può definire un comunista riformatore, un “gorbacioviano”, non certo un anticomunista “viscerale” afferma ne ”lo stalinismo” che le vittime, dirette ed indirette, di Stalin e della sua tirannia, sono circa 22 MILIONI.
Per esemplificare telegraficamente la natura del regime staliniano mi permetto di riportare un brano di un mio precedente post, presente nel “blog di Giovanni”:
“Nel 1954 Kruscev volle che fosse fatto uno studio sugli “eccessi” dello stalinismo nel trentennio precedente. Da questo studio, assolutamente ufficiale, risulta che nei 30 anni oggetto di analisi sono state eseguite in URSS 642.980 sentenze di morte”.
Non si tratta ovviamente di tutte le vittime del comunismo staliniano. Non si parla dei morti, circa 5 milioni, forse 7, dell’holodomor ucraino, delle vittime della collettivizzaione in altri stati dell'URSS, delle vittime delle deportazioni di intere popolazioni o dei morti di fame, freddo e stenti nei gulag e nelle piacevoli località di confino. No, quelle 642.980 esecuzioni sono state precedute da “processi “ e da sentenze. Tutto “regolare” insomma: in media 21.432 persone all’anno, oltre 57 AL GIORNO, sempre in media. Le medie porò conoscono alti e bassi: sempre Roy Medved ricorda ne “lo stalinismo” che durante le grandi purghe venivano fucilate, nella sola Mosca, più di 1000 (MILLE) persone AL GIORNO!
Un’orgia di sangue per costruire un regime che alla fine è miseramente imploso su se stesso.
Il tragico è che la Russia post comunista continua ad essere governata da persone che si sono formate politicamente durante il comunismo ed hanno costruito una società ed una organizzazione politica che ne conserva alcune importanti caratteristiche.
In molti ripetono, rivolti all’attuale presidente del consiglio, che occorre fare i conti col passato. Però, forse i conti col passato devono cominciare a farli quelli che li chiedono ad altri e fanno finta che una delle più sanguinose tirannidi della storia non sia mai esistita, quando addirittura non la esaltano.

sabato 4 marzo 2023

SENTENZE DI MORTE

Sto terminando la lettura di “Gulag – storia dei campi di concentramento sovietici” di Anne Applebaum, storica polacca naturalizzata americana ed ottima conoscitrice della storia sovietica.
Non intendo qui commentare il suo libro, del resto non ancora terminato, solo spendere qualche parola su un dato a mio parere davvero impressionante.
Nel 1954 Kruscev volle che fosse fatto uno studio sugli “eccessi” dello stalinismo nel trentennio precedente. Da questo studio, assolutamente ufficiale, risulta che nei 30 anni oggetto di analisi sono state eseguite in URSS 642.980 sentenze di morte.
Attenzione, NON si tratta del totale delle vittime de comunismo staliniano. Quella cifra non comprende i milioni di morti (da 4 a 7) causati dall’holodomor in Ucraina, né le vittime della collettivizzazione forzata dell’agricoltura in Russia, Georgia e in tutti gli altri stati dell’URSS. Non comprende i morti per freddo, fame e malattia nei gulag, né le innumerevoli morti fra i condannati al confino in località situate oltre il circolo polare artico. Non comprende neppure i morti in carcere o sotto tortura, né coloro, moltissimi, che furono trucidati senza aver subito alcun processo. No, la cifra, certamente assai approssimata per difetto, di 642.980 riguarda morti “ufficiali”, persone condannate al termine di un “processo” e giustiziate come da sentenza.
In URSS si fucilavano (stando alle cifre UFFICIALI) 21.432 persone all’anno, oltre 57 AL GIORNO, e questo è durato la bellezza di 30 ANNI.
Nel decennio fra il 1931 ed il 1940 sono state pronunciate nell’Italia fascista 118 sentenze di morte, di cui 65 eseguite.
Secondo Amnesty international nel 2020 sono state eseguite nel mondo 483 sentenze di morte.
In 40 anni, dal 1973 al 2013, sono state eseguite negli USA 1359 sentenze di morte.
In tutta la storia di Israele, uno stato in guerra da sempre, è stata eseguita una sola sentenza di morte: quella contro il criminale nazista Adolf Heichmann.
Val la pena di aggiungere che la stragrande maggioranza di quei 642.980 morti ammazzati non era colpevole di NULLA, cosa che di certo non si può dire di Heichmann e della quasi totalità dei condannati statunitensi alla pena capitale.
Però mi capita de leggere in rete parole roventi contro i massacri messi in atto dal “nazi - liberalismo” e lunghe dissertazioni “filosofiche” (si fa per dire) sui suoi presunti crimini.
E a tutti noi capita di essistere a manifestazioni "antifasciste"  caratterizzate dallo svantolio di bandiewre rosse con tanto di falce e martello.
Qualcuno sembra dimenticare che se è vero che tutti i democratici sono antifascisti NON è vero il contrario: NON tutti gli antifascisti sono democratici, certe manifestazioni lo confermano ampiamente.
L’imbecillità sposata con l’ignoranza è davvero un’arma di distruzione di massa.


 

venerdì 3 marzo 2023

LA SCELTA

Vediamo un po’.
Nel naufragio di Lampedusa, nel 2013, perirono 368 migranti. Il presidente del consiglio nel 2013 era Enrico Letta. Ministro dell’interno Angelino Alfano.
Nel 1997 l’Italia cercò di bloccare il flusso di profughi proveniente dall’Albania con un blocco navale. Ci fu una collisione fra una imbarcazione albanese carica di migranti ed una nave militare italiana. Morirono 81 persone. Nel 1997 il presidente del consiglio era Romano Prodi, il ministro degli interni Giorgio Napolitano.
Non mi pare che in nessuno di questi due tragici episodi qualcuno abbia chiesto le dimissioni del ministro dell’interno o del capo del governo. Se non sbaglio non ci fu neppure alcun intervento della magistratura.
Tanto basta direi per chiarire fino a che punto sia ipocrita l’attuale tentativo delle opposizioni di sfruttare l’ultimo, tragico naufragio a fini politici.
Questi però sono, in fondo, semplici dettagli. Il punto fondamentale è un altro.
Fermo restando che se una imbarcazione è in difficoltà va soccorsa e che sulla adeguatezza dei soccorsi nell’ultimo tragico naufragio indagherà chi di dovere, fermo restando tutto questo occorre chiedersi: in che modo possono essere evitate o quanto meno fortemente ridotte le stragi del mare?
E’ inutile girarci attorno: non c’è politica dei soccorsi che tenga, se continua il flusso continuo di partenze i naufragi sono destinati a ripetersi. . Per evitare questi drammi ci sono solo due soluzioni.
La prima è: ridurre drasticamente le partenze. Bloccare nei porti di partenza i flussi di migranti e soccorrere le poche imbarcazioni che, malgrado tutto, riescono a prendere il mare.
Se non si accetta questa soluzione non resta che una strada: instaurare un autentico servizio di navi traghetto per migranti. Si prendono una o più navi, magari un paio di traghetti che normalmente collegano Genova alla Sardegna e le si manda nei porti nord africani o turchi o medio orientali. Caricano un buon numero di migranti e li portano in Italia, senza passaporti, senza documenti, senza visti, autorizzazioni, contratti di lavoro e quant’altro: la legalizzazione della immigrazione clandestina.
E’ fin troppo chiaro che questa seconda soluzione porterebbe in breve tempo il paese al collasso economico, sociale e politico, anzi, lo trasformerebbe da subito in un non-paese. Si, non-paese perché un paese esiste se ha dei confini e se il suo governo ha il diritto di stabilire chi può e chi non può, e con che modalità, attraversare i propri confini. Se uno stato non ha confini cessa di essere uno stato, diventa terra di nessuno. Se l’Italia è di chi ne calpesta il suolo l’Italia non esiste più. Se il governo italiano non ha il diritto di stabilire le sue politiche migratorie non esiste un governo italiano, quale che sia il suo colore politico.
Quindi, si decidano i teorici dell’immigrazionismo senza limiti e controlli. La smettano di barare sul “restiamo umani”. Certo, occorre restare umani, occorre soccorrere i disperati, ma, in che modo si resta umani? Diventando terra di nessuno o quanto meno riducendo flussi migratori incontrollati e chiaramente gestiti da organizzazioni criminali? Cooperando con i paesi di partenza per agevolarne lo sviluppo economico o diventando complici di chi li priva di forza lavoro potenzialmente indispensabile per tale sviluppo? Favorendo i flussi legali o quelli illegali di immigrazione?
Tutto qui. La scelta a chi di dovere.

 

lunedì 20 febbraio 2023

I DUE VLADIMIR

Mi capita di leggere in rete post in cui si sottolinea la profonda trasformazione che in questi ultimi tempi ha subito la sinistra italiana, e non solo. La sinistra comunista è passata da Vladimir Lenin a Vladimir Luxuria, da Mosca a Washington, affermano alcuni. Una torsione a 180 gradi della propria storia, il passaggio da una ideologia che nega sostanzialmente il concetto stesso di libertà individuale ad un’altra che teorizza una libertà individuale del tutto scissa dal riconoscimento di qualsiasi oggettività sociale, naturale o etico - valoriale. Dalla negazione dell’individuo ad un individualismo che degrada in mero soggettivismo, questo il percorso. Si tratta di una analisi che merita di essere approfondita (le due ideologie contrastano fra loro  meno di quanto possa a prima vista apparire) ma che di certo coglie alcuni aspetti del reale.
Il problema è che molti di coloro che sottolineano questa torsione politica, teorica e culturale della sinistra di fatto rimpiangono la sinistra VECCHIA. Per essere chiari, preferiscono Valdimir Lenin a Vladimir Luxuria, Mosca a Washington.
E qui casca l’asino.
Personalmente non ho simpatia alcuna per Luxuria e sono convinto che fra lui e Vladimir Lenin il confronto politico culturale sia improponibile. Il Vladimir russo era un politico di prim’ordine, un discreto teorico marxista ed aveva una forza intellettuale che il Vladimir italiano neppure si sogna di possedere. Però se fossi obbligato a scegliere fra i due, con la morte nel cuore sceglierei il Vladimir italiano.
Perché? La risposta è molto semplice.
Il Vladimir russo conquistò il potere con un colpo di mano impropriamente definito “rivoluzione”. Subito dopo sciolse l’assemblea costituente che il suo stesso partito aveva chiesto. Tappò la bocca alla stampa, mise fuori legge tutti i partiti non bolscevichi, poi vietò le correnti all’interno del suo stesso partito. Condusse la guerra civile con una ferocia non inferiore, probabilmente superiore, a quella dei suoi nemici “bianchi”, ordinò la costruzione dei primi campi di concentramento in cui imprigionare rivali politici ed elementi “antisociali”, il germe dei futuri gulag staliniani. Durante il cosiddetto “comunismo di guerra” mise in atto una politica di feroci requisizioni dei raccolti ai contadini, con conseguente carestia e moltissimi morti per fame, prima avvisaglia delle terrificanti carestie successive. Perseguitò con ferocia fanatica la chiesa ortodossa.
Per farla breve, dietro al Vladimir russo ci sono fucilazioni, morti, carceri, campi di concentramento, cose di cui di certo non è responsabile il Vladimir italiano. Per me questi sono fondamentali criteri di giudizio, per latri no. Altri non fanno distinzioni fra l’insostenibile leggerezza della vacua ideologia politicamente corretta e l’opprimente, mortifera pesantezza del totalitarismo. Anzi, le fanno le distinzioni e scelgono la seconda. A qualcuno sembra che le pagliacciate del festival di Sanremo siano tutto sommato meno gravi delle montagne di cadaveri del comunismo sovietico.
Ne abbiamo avuto la riprova con la guerra in Ucraina, quando molti critici dei mali dell’occidente hanno scambiato un autocrate con un possibile salvatore.
Considerazioni simili si possono fare riguardo all’Iran. Per certi occidentali la generosa rivolta di tante donne e di tanti uomini iraniani sarebbe una sorta aspirazione al “consumismo compulsivo”. Così non è, ma, lo dico fuori dai denti: e se anche così fosse? Forse che il velo obbligatorio, le fustigazioni o le lapidazioni delle adultere, la prigione, se non la forca, per gli omosessuali sono da preferire al cosiddetto, e mai definito con precisione, “consumismo compulsivo”?
Personalmente non ho dubbi. Considero l’occidente una civiltà in crisi e sono convinto che se non si pone rimedio a tale crisi la nostra grande civiltà rischia il tracollo. Ma se devo scegliere fra l’occidente, sia pure malato, e gli altri scelgo l’occidente, senza se e senza ma.
Con tutte le critiche che posso fare agli USA fra Mosca e Washington scelgo Washington.
E tanto basta.


 

giovedì 2 febbraio 2023

ANARCHICI

Gli anarchici sono considerati da molti con simpatia. Si tratterebbe di persone prive di realismo ma animate da ideali positivi, sognatori utopici che però non fanno male a nessuno.
In realtà l’anarchismo è un fenomeno assai complesso, impossibile da liquidarsi in due parole. Forse val la pena di spendere qualche considerazione in proposito.
C’è dell’anarchismo anche in Marx. Per il filosofo di Treviri la abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la programmazione centralizzata dell’economia renderebbero possibile la piena realizzazione dell’ideale anarchico: la abolizione dello stato. Su posizioni simili si collocherà lo stesso Lenin: in “stato e rivoluzione” il rivoluzionario russo arriverà a sostenere che le funzioni statali sono destinate a semplificarsi sempre di più. Una cuoca, afferma, sarà in grado di dirigere lo stato, prima che questo finisca nel dimenticatoio della storia.
Ad entrambi aveva a suo tempo risposto il padre dell’anarchismo: Michail Bakunin. Per l’anarchico russo la centralizzazione dei mezzi di produzione nelle mani dello stato, ben lungi dall’aprire la strada alla abolizione del medesimo, rischia di dar vita a forme di oppressione ancora più brutali di quelle contro cui combatteva il nascente movimento operaio. Lo stato va abolito, non rinforzato in vista di una sua futura abolizione. Se si tralascia il vaneggiamento utopico sulla abolizione dello stato è difficile dar torto a Bakunin. La storia su questo ha dato risposte inequivocabili. Per la sua onestà intellettuale Bakunin forse merita almeno un po’ della simpatia con cui alcuni guardano agli anarchici. Ma l’anarchismo, compreso quello di Bakunin, non è riconducibile ad un generico ed in fondo innocuo utopismo.
Serghei Necaev, populista rivoluzionario russo fu amico di Bakunin e assai vicino alle posizioni anarchiche. In lui però l’anarchismo si tinge nettamente di nichilismo terrorista. Nel celebre “catechismo del rivoluzionario” scritto insieme a Bakunin il nichilismo emerge chiaramente. Il rivoluzionario è un uomo perduto. Non ha interessi né cause, né finalità proprie. Il suo unico obiettivo è la rivoluzione e questa significa innanzitutto distruzione radicale di ogni ordinamento esistente.

Nel corso della sua carriera di rivoluzionario Necaev andò comunque oltre il nichilismo manifestato nel “Catechismo”. La folgorante bellezza dell’ideale anarchico giustifica per lui tutto, assolutamente tutto. L’anarchico non è legato da alcun vincolo morale, può fare qualsiasi cosa ritenga utile alla affermazione della causa. Può rubare, uccidere, mentire, far condannare innocenti se questo favorisce, a suo parere, la vittoria dell’ideale anarchico, Un amoralismo tanto marcato doveva portarlo alla rottura col suo amico Bakunin. Però, a ben vedere le cose, il vero rivoluzionario radicale era lui, Necaev più che il vecchio Bakunin. Non a caso Dostoevskij si ispira proprio a Necaev ed al suo nichilismo amorale ne “i demoni” uno dei suoi romanzi più profetici.
Lo stesso nichilismo di Necaev sarà però superato da un classico dell’anarchismo: Max Stirner.
Ne “l’unico e la sua proprietà” l’individualismo largamente presente nelle dottrine anarchiche subisce un radicale processo di estremizzazione. L’individuo diventa “l’unico”: singolo assolutamente isolato, non limitato da alcuna legge, né norma etica. Non limitato dalla presenza di altri individui, delle loro esigenze ed aspirazioni. E questo unico può fare ciò che vuole, non tanto per il trionfo della causa quanto per l’affermazione egoistica della sua assoluta unicità. Se vuoi fare una cosa falla, se desideri qualcosa allunga la mano. Tutto ciò che limita l’unico è una intollerabile forma di oppressione che va rifiutata. Rifiutata nei fatti, nell’azione.
Stoirner morì in povertà, solo e dimenticato. Si può ben dire che la sua fine costituisca la smentita più radicale delle sue teorie. Sei unico, puoi far e tutto per affermarti, ma hai perso. E come perdente non puoi fare appello ad alcuna norma universale per giustificare la tua sconfitta. E non vuol dire nulla il fatto che in futuro, forse, sarai ricordato. Sarai ricordato da altri, ma tu sei l’unico...
Direi che questa brevissima, e assolutamente carente rassegna sia sufficiente a smentire quanti guardano con benevola indulgenza all’anarchismo. Le dottrine anarchiche non sono affatto grondanti di benevolenza verso il genere umano. Il rifiuto anarchico di ogni limite alla libertà si trasforma molto facilmente in prevaricazione della libertà altrui. Si passa, per citare Dostoevsij, dalla assoluta libertà alla assoluta tirannide. Con buona pace dei difensori improvvisati di un terrorista anarchico dei nostri giorni.

 

lunedì 30 gennaio 2023

CONSUMO, MERCATO, OMOLOGAZIONE

E’ una caratteristica dei nostri tempi di decadimento culturale: il rimbalzo da uno schieramento politico all’altro, da destra a sinistra e viceversa, di temi e suggestioni ideologiche.
“Il turbo capitalismo” delle multinazionali impone a tutti una una universale omologazione. Scompaiono le differenze e l’uomo viene ridotto a mero consumatore di prodotti in larga misura inutili. Quante volte abbiamo letto frasi simili in rete? Difficile stabilirlo. Ed è anche difficile stabilire lo schieramento politico di chi fa simili affermazioni. Spesso i teorici della riduzione dell’uomo al ruolo di mero consumatore si collocano oggi, per usare termini assai generici, a destra. Eppure si tratta di tematiche che sono state tipiche della sinistra sessantottina.
L’ uomo ad una dimensione, afferma Marcuse, uno degli idoli dei contestatori dello scorso secolo, è il prodotto della società industriale avanzata, caratterizzata dal trionfo di una tecnologia alienante basata sulla razionalità strumentale e la dimensione unica cui l’uomo odierno è ridotto è (se ne poteva dubitare?) quella del consumo. La polemica contro il “consumismo” ha caratterizzato negli ultimi decenni i movimenti di sinistra occidentali. Eppure, a ben vedere le cose, ha antecedenti che si possono definire di destra. La denuncia della “macchinazione” è centrale nella polemica di Heiddeger contro l’inautenticità che caratterizzerebbe i nostri tempi. Allontanatosi dall’essere l’uomo di perde negli enti ed affida alla tecnica i propri destini. In una celebre intervista il filosofo tedesco giungerà a paragonare l’agricoltura industriale ai campi di sterminio nazisti: l’una e gli altri sono infatti caratterizzati dalla razionalità strumentale sostegno di una tecnologia disumana. Piccolo particolare: Heiddeger aderì al NSDAP, Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, nel 1933 e rimase iscritto allo stesso, pagando con teutonica puntualità le quote, sino al 1945.
Non è il caso di dilungarsi, il succo del discorso è piuttosto chiaro: le società contemporanee, dominate dal mercato e dalla tecnologia impoveriscono l’uomo, lo riducono all’unica dimensione del consumo. “Lavora e caga, consuma e crepa”: questo slogan volgarotto esprime abbastanza bene come qualcuno considera l’uomo che vive nelle società a “capitalismo avanzato”. Mera macchina per consumare, priva di valori, idee, sentimenti profondi, solidarietà sociale. Da Heiddeger a papa Bergoglio, da Marcuse a Diego Fusaro il succo non cambia troppo. Stiamo diventando, forse siamo già diventati, una sorta di nuovi automi, cui il mercato impone una mostruosa omologazione. Viviamo per consumare cose inutili a tutto vantaggio del “Dio denaro”.

Ma… stanno davvero così le cose? Per stabilirlo bisogna cercare di rispondere a tre domande.
1) Qual’è il ruolo del consumo nella vita umana?
2) Davvero la tecnologia mortifica l’uomo?
3) Davvero il mercato tende ad omologare gli esseri umani, a ridurli ad “una sola dimensione”?

L’uomo è consumatore, lo è, per usare una terminologia un po’ antiquata, per essenza. Il consumo caratterizza tutta la vita umana, sempre. La semplice riproduzione della vita implica continui atti di consumo: respiriamo, beviamo e mangiamo, quindi consumiamo, solo per sopravvivere. Vivere è consumare energia e risorse esterne per ripristinare di continuo l’energia consumata. Ma il consumo non è legato solo alle caratteristiche puramente animali dell’uomo. Noi consumiamo anche, forse soprattutto, quando ci dedichiamo alle nostre attività più nobili, più specificamente umane. Elaborare teorie scientifiche e filosofiche, comporre romanzi o sinfonie, dipingere o scolpire non implica solo consumare energie fisiche e mentali, implica anche consumare risorse che ci vengono dal mondo esterno. Un poeta ha bisogno almeno di carta e penna per scrivere, un musicista di strumenti musicali, uno scienziato di costose apparecchiature. Pensare che il consumo riguardi solo la componente “inferiore” dell’uomo è una sciocchezza, Più ci eleviamo più i nostri consumi si differenziano, diventano raffinati e sofisticati, superflui se vogliamo, nel senso che si tratta di consumi non legati alla mera riproduzione materiale della vita. Il consumare è una caratteristica ontologica dell’uomo. Consumiamo perché siamo esseri razionali finiti, dipendenti dal mondo che ci circonda. L’uomo consuma perché non è un essere autosufficiente, non è causa sui, in una parola, non è Dio. A qualcuno la cosa non piace? Non possiamo che dolercene.

Per consumare dobbiamo modificare l’ambiente circostante. Dobbiamo farlo perché viviamo in un mondo che non è fatto per noi, non si adatta alle nostre esigenze. E perché è nella nostra natura andare oltre il semplice adattamento al mondo che ci circonda. Una delle differenza fondamentali fra l’uomo e gli altri animali sta tutta qui: l’uomo non accetta di essere componente subordinata di qualche ecosistema. L’uomo è l’animale che “va oltre”; siamo “naturalmente artificiali”, se così non fosse ci saremmo con tutta probabilità estinti da tempo, visto che la nostra capacità di adattamento è radicalmente inferiore a quella di gran parte delle specie animali. Al massimo saremmo ridotti a sparuti branchi di umanoidi assediati da pericolosi predatori.
E’ qui che si innesta il discorso sulla tecnologia e la “razionalità strumentale”. Da sempre l’uomo ha costruito attrezzi che lo aiutino nella lotta per l’esistenza. Da sempre fra uomo ed ambiente è esistito un medio costituito dalla tecnica. In tutte le epoche storiche l’uomo ha sempre fatto ricorso alla tecnica. Per cacciare come per coltivare la terra, per costruire ripari come per vestirsi, per spostarsi come per combattere. La tecnica è presente in tutte le attività umane, da quelle più direttamente collegate alla vita materiale a quelle che riguardano le nostre attività spirituali. La tecnica è presente in un dialogo filosofico, nella composizione di una sinfonia, in una gara sportiva. E non solo perché, tutte queste attività richiedono l’uso di un certo numero di strumenti materiali ma anche, forse soprattutto, perché il linguaggio, le regole della composizione musicale come quelle della competizione sportiva sono esse stesse delle tecniche. Poche cose quindi sono tanto radicalmente umane come la tecnica e la connessa razionalità strumentale, quella che ci dice cosa dobbiamo fare se vogliamo raggiungere un certo fine. Certo, esiste, nessuno lo nega, il problema, enorme, dell’uso che si può fare della tecnica. Come moltissime altre cose anche la tecnica può essere usata bene o male. Per uccidere occorre usare certe tecniche, come occorre usarne altre per salvare la vita ad una persona gravemente ammalata, ma queste considerazioni del tutto ovvie nulla hanno a che vedere col rifiuto della tecnica in quanto tale. Quando Heidegger equipara la coltivazione industriale alle camere a gas fa invece proprio questo: non distingue fra gli usi della tecnica. Coltivare razionalmente grano che serve a sfamare gli esseri umani non è diverso che introdurre gas mortali un una stanza ermeticamente chiusa e piena di vittime innocenti.

Riassumendo: il consumo ha una importanza centrale nella vita umana, a tutti i livelli. La tecnica, ben lungi dall’essere un fattore di “alienazione” è qualcosa di radicalmente, profondamente umano, se ne devono controllare gli utilizzi ma non la si può rifiutare in quanto tale. Occorre ora cercare di rispondere alla terza, fondamentale, domanda: il mercato è fattore di “omologazione”? Cancella le differenze, ci riduce a gregge? Gli scambi eliminano le nostre particolarità trasformandoci in macchine per consumare? La società di mercato è davvero dominata dal “feticismo della merce”?
L’accenno al feticismo della merce ci rimanda a Marx, cioè ad un pensatore sicuramente profondo, quale che possa essere la gravità dei suoi errori. Non è però il caso, in questa sede di addentrarci in una analisi del suo pensiero. Basta ricordare che in Marx il tema del feticismo della merce è legato alla teoria del valore e che questa non trova oggi praticamente alcun difensore.
Ben lungi dall’omologare gli esseri umani, dal cancellare le differenze che li caratterizzano il mercato esalta le differenze. In molti lo ripetono, un po’ papagallescamente: il mercato riduce tutto a quantità, trasforma gli uomini in relazioni numeriche. E’ vero che il mercato è un insieme di relazioni quantitative, ma ridurlo a questo è semplicemente una idiozia. Agli estremi delle relazione quantitative stanno infatti i venditori ed i compratori, esseri umani con le loro specificità individuali, i loro gusti, esigenze, preferenze. Il mercato si basa sul valore di scambio, ma il valore di scambio altro non è che la relazione quantitativa fra valori d’uso. Tizio scambia con Caio tre paia di scarpe contro un abito perché ha bisogno di abiti e non di scarpe. Il fatto che un televisore abbia lo stesso prezzo di un frigorifero o di un certo numero di libri non eguaglia libri, frigorifero e televisore, meno che mai rende indistinguibili i fruitori di questi beni. Trasformare la relazione quantitativa in un fattore distruttivo delle particolarità qualitative è un po’ come affermare che se mi trovo in una località equidistante fra la vetta del Bianco ed il mare non esiste differenza fra le onde marine e la vetta ghiacciata del Bianco, una idiozia, appunto. Il mercato non annulla le differenze, le mette in relazione ed in questa relazione ognuno può cercare di procurarsi i beni che, a suo parere, servono meglio a soddisfare le esigenze per lui più importanti.
Qualcuno potrebbe obbiettare che si tratta di cose di secondaria importanza. Al di là delle differenze fra i carrelli della spesa di chi si reca al supermercato resta il fatto che tutti coloro che spingono tali carrelli sono consumatori, quindi identici in quanto consumatori, omologati, alienati. Cosa rispondere ad una simile obiezione? Solo che chi la fa ritiene il consumo qualcosa di non realmente umano, pensa che consumando gli esseri umani diventino “ad una dimensione”. Si è già risposto a simili considerazioni: gli esseri umani sviluppano le loro peculiarità, la loro multidimensionalità anche consumando, anche usufruendo di beni e servizi. E tanto basta.

La critica alla omologazione che sarebbe tipica dell’economia di mercato non riguarda però solo gli individui, si estende alle culture ed alle civiltà. L’espansione mondiale del mercato distrugge culture vecchie di secoli, cancella le differenze fra i popoli, sminuisce il valore delle nazionalità, in breve, impone al mondo una grigia uniformità, una sorta di notte in cui tutte le vacche sono scure. Esiste del vero in queste critiche, ma si tratta di un “vero” che va analizzato con molta cura, per evitare che si trasformi in una serie di banalità se non di grossolane mistificazioni.
In primo luogo, per amor di precisione, va detto che certe critiche appaiono semplicemente risibili se sostenute da persone che si rifanno alla filosofia marxista. Qualcuno lo deve rivelare al professor Fusaro:  Marx è stato uno dei più mondialisti fra i filosofi contemporanei. Marx considera un merito della borghesia la formazione di un mercato globale, considera questo una conquista positiva e profondamente rivoluzionaria, basta leggere il celeberrimo “manifesto del partito comunista” per rendersene conto.
La critica che Marx muove all’economia capitalistica è completamente diversa da quelle strillate oggi da molti super critici del “turbo capitalismo”. Per Marx la borghesia capitalistica è incapace di portare a termine il compito iniziato. Il Capitalismo non è in grado di superare la ristrettezza dei confini nazionali e dare vita ad una autentica società mondiale. Il mercato mondiale è conseguenza dell’enorme sviluppo delle forze produttive ma i rapporti di produzione borghesi sono diventati, per Marx, un ostacolo ad un loro ulteriore sviluppo. Per farla breve, Marx sottopone a critica non l’universalismo ma la ristrettezza della società borghese, non lo stimolo che essa garantisce allo sviluppo economico, ma il limite a tale sviluppo, non la creazione del mercato mondiale ma il suo carattere parziale e limitato.
C’è della esagerazione in molte espressioni di Marx ma si può tranquillamente riconoscere che alcuni aspetti della sua analisi sono condivisibili. In effetti contrapporre alla apertura del mercato mondiale la chiusura nel localismo è francamente reazionario, come lo è la pura e semplice accettazione di ogni caratteristica di antiche culture e civiltà.
L’espansione del mercato mondiale ha distrutto molti usi e costumi che non possiamo certo ritenere accettabili solo perché caratteristici di culture vecchie di secoli. Sostituire la la scienza alla magia è stato un progresso per il genere umano, come lo è poter leggere in Italia le opere di Confucio e quelle di Aristotele in Cina. Anche se le femministe radicali non lo sanno l’unificazione del mondo ha contribuito moltissimo alla emancipazione della donna. Pensare che sia da accettare tutto ciò che è parte di vecchie culture e civiltà è solo stupido.

Le critiche al mondialismo condotte da un punto di vista marxista, a parte il valore dei loro argomenti, poggiano quindi su basi teoriche decisamente fragili, ma, a parte i richiami al vecchio Marx, quali sono oggi le caratteristiche di quello che comunemente si chiama “mondialismo”? Si va davvero, in maniera ineluttabile, verso un mondo privo di differenze culturali o nazionali o quanto meno in cui queste differenze siano semplicemente qualcosa di residuale? Soprattutto, l’economia di mercato tende davvero, in forza delle sue leggi immanenti, verso un mondo di questo tipo? La risposta è a mio parere NO.
A livello concettuale esiste una differenza radicale fra l’idea stesa di omologazione e quella di scambio. Lo scambio avviene perché i vari attori dello stesso sono diversi l‘uno dall’altro, quindi mai interamente omologabili. Lo scambio e l’economia di mercato basata sullo scambio esistono perché esistono le diversità fra gli esseri umani. Tizio scambia con Caio perché è diverso da Caio, ha gusti, esigenze, aspettative di vita non coincidenti con le sue. E fa parte a pieno titolo di queste differenze la cultura di Tizio, il suo appartenere ad una determinata civiltà, l’essere cittadino di un certo paese, parte di una certa nazione, avere alle spalle una certa tradizione. A livello sovra individuale, i vari paesi hanno fra loro rapporti di scambio perché sono soggetti autonomi, relazionati agli altri ma non coincidenti con questi. Il mercato mondiale relaziona individui, paesi, culture, civiltà e nazioni diverse, ma relazionare non vuol dire eliminare le differenze, vuol dire metterle in contatto. Studiare la filosofia cinese è per un occidentale fonte di arricchimento culturale, ma questo arricchimento smetterebbe di essere tale se la filosofia cinese diventasse non distinguibile da quella occidentale. Una cosa è leggere Aristotele e Confucio, cosa completamente diversa mischiare i due, confondere le tradizioni storico culturali che stanno dietro al greco ed al cinese. Vale per i singoli come, fatte le debite differenze, per nazioni, culture e civiltà: Fra il relazionamento e l’omologazione che annulla le differenze non esiste identità alcuna, esiste al contrario una autentica incompatibilità.
Precisazioni a parte, esistono certamente oggi nel mondo, meglio, nell’occidente in crisi, forze potenti che premono nel senso della eliminazione delle differenze. Vanno in questo senso i no border, per i quali i confini non avrebbero oggi alcun motivo di esistere ed interi popoli avrebbero il diritto di spostarsi liberamente da uno stato o addirittura da un continente all’altro, senza alcun limite, vincolo o controllo. Vanno nello stesso senso i teorici del “gender” per i quali il sesso non sarebbe più una caratteristica essenziale degli esseri umani ma una “scelta” che può cambiare da un anno, o da un mese all’altro ed i teorici della “cancell culture” che vorrebbero imporci di gettare alle ortiche una tradizione culturale millenaria e di enorme rilevanza. In una parola premono per la riduzione del mondo ad area grigia indifferenziata tutti coloro che seguono le varie teorie del politicamente corretto, e dietro questi pseudo teorici ci sono forze economiche potenti, legate alle grandi multinazionali industriali e finanziarie. Tutto questo è vero e difficilmente contestabile.
Ma si tratta, appunto, di settori, parti dell’occidente. Potenti fin che si vuole ma non invincibili, cui si oppongono non tanto gli strenui difensori di un localismo ormai indifendibile ma tutti coloro che non identificano l’apertura all’altro con una “inclusività” che nei fatti elimina il concetto stesso di “altro” e riduce il mondo in una sorta di notte in cui tutte le vacche sono grigie.

Parlando delle forze potenti che tendono alla mondializzazione occorre porsi una domanda: si tratta di forze espresse dalla dinamica spontanea del mercato e che agiscono conformemente a tale dinamica? O non si tratta piuttosto di forze certamente inserite nell’economia di mercato che agiscono però in larga misura seguendo logiche proprie, che col mercato e le sue dinamiche non hanno troppo a che vedere?
In realtà il legame fra certe multinazionali e le dinamiche di mercato è alquanto labile. I settori che maggiormente spingono per la mondializzazione hanno il loro punto di maggior forza non nel mercato me nei legami col potere politico. Si è parlato di capitalismo di relazione, o di “modello cinese” e già la terminologia lascia intendere quale sia il carattere di fondo del mondialismo economico: non la logica dello scambio e dei rapporti mercantili ma la pretesa di programmare il più possibile l’economia. Più che ad un risveglio del “liberismo” stiamo assistendo al tentativo, forse il primo nella storia, di una programmazione a livello mondiale di interi settori dell’economia. Gli esempi sono numerosi: si cerca di imporre all’economia mondiale, o quanto meno occidentale, nientemeno che una globale transizione energetica. In passato le grandi rivoluzioni tecniche ed industriali partivano e si misuravano con esigenze e domande di mercato. Oggi gruppi di burocrati si riuniscono e stabiliscono che entro un certo numero di anni in tutta Europa, meglio in tutto l’occidente, meglio ancora in tutto il mondo, si dovranno produrre solo auto elettriche. La UE poi è scatenata in scelte di questo tipo. Sembra che ai massimi livelli di questa istituzione ci siano persone davvero convinte che si possa programmare nientemeno che il clima del pianeta. Entro pochi anni tutte le case di civile abitazione europee dovranno avere certe caratteristiche “energetiche”, si TUTTE, non solo quelle di nuova costruzione. Per carità di patria evito ogni commento sulle innumerevoli direttive europee tendenti a stabilire il diametro della pizze, l’inclinazione del gambo dei carciofi o la portata degli sciacquoni nei bagni pubblici e privati. Per farla breve: una autentica orgia programmatoria che col “liberismo”, quale che sia il giudizio che se ne può dare, poco ha a che vedere. E nulla ha a che vedere col pluralismo liberale, molto poco con la stessa democrazia.
Certo, la pretesa di imporre ad interi popoli processi migratori incontrollati ha un certo sapore di “liberismo” ed alcune analogie con lo stesso liberalismo, ma si tratta di analogie superficiali. L’economia di mercato prevede ed auspica, ovviamente, la libertà di movimento negli e fra gli stati, ma nessuno dei grandi teorici del mercato ha mai teorizzato la scomparsa degli stati stessi, né la loro marginalizzazione. Lo scambio economico, val la pena di ripeterlo, avviene fra soggetti caratterizzati tutti dalle loro caratteristiche naturali e socio culturali; processi migratori privi di controllo distruggono o stravolgono in maniera violenta proprio queste caratteristiche distorcendo in profondità gli stessi rapporti di scambio. Permettere a masse enormi di esseri umani di spostarsi liberamente da un continente all’altro nulla ha a che vedere con la libertà liberale e con la stessa libertà degli scambi. Sarebbe come se il governo per garantire la libertà degli scambi permettesse a tutti di entrare ed uscire a loro piacere da casa mia. La libertà liberale presuppone la garanzia delle caratteristiche dei soggetti dello scambio, compresa la libertà fondamentale di riconoscersi in una certa cultura, appartenere ad un certo gruppo nazionale. Se questa garanzia viene a mancare tutto crolla. Non a caso le potenti forze economiche che mirano al mondialismo si servono delle loro relazioni con la politica per cercare di imporre ai popoli l’idea distopica di processi migratori privi di vincoli, limiti e controlli. Dietro al fenomeno di portata storica del trasferimento in Europa di milioni di africani ci sono, molto più che gli automatismo del mercato internazionale, le scelte politiche degli stati e, spesso, l’azione della malavita organizzata.

L’equiparazione fra liberalismo e liberismo, cose diverse anche se non opposte, e di entrambi con una omologazione che elimina ogni diversità è nel migliore, e più raro, dei cosi, un grossolano equivoco, assai più spesso deriva da un autentico odio verso l’idea stessa di libertà individuale. Si tratta di una nuova forma di radicale antiliberalismo che unisce, paradossalmente ma non troppo, settori della destra reazionaria e della sinistra nostalgica del comunismo.
Libertà personali, pluralismo, mercato, democrazia rappresentativa vengono spacciate come rifiuto della dimensione sociale dell’uomo, abbandono nichilista di ogni valore, trionfo di un individualismo gretto che trasforma le persone in pure macchine per consumare, gregge senz’anima controllato dei “padroni del vapore”. Un modo di ragionare che rivela tutta la propria vacuità se si pensa che libertà, pluralismo e democrazia sono essi stessi valori sulla cui base sorgono molti rapporti sociali differenziati. Ed ancora più strana appare l’equiparazione delle società libere al gregge da parte di chi esalta esperienze come quelle della Unione Sovietica staliniana o della Cina maoista (nessuno osa manifestare rimpianti nei confronti della Germania hitleriana, ma dovrebbe farlo, se avesse un minimo di coerenza logica). Gli stessi che, rifacendosi malamente a Nietzsche, strillano contro il gregge o la “massificazione” delle moderne società industriali non sprecano una parola di critica nei confronti di esperienze caratterizzate dal più totale disprezzo, teorico e pratico, nei confronti dell’individuo. Certo, esistono in occidente importanti fenomeni di massificazione, da combattere senza esitazione alcuna. Ma si tratta della patologia, non della fisiologia dell’occidente e nulla è tanto fuorviante quanto opporre a tale patologia il fascino discreto di paesi come la Russia di Putin, la Cina di Xi Jin Ping o l’Iran o la Corea del nord.
Il fascino che paesi simili esercitano su settori non maggioritari ma neppure residuali d
ella pubblica opinione occidentale è un termometro che attesta quanto sia grave la crisi della nostra civiltà. Motivo in più per combatterlo, senza se e senza ma.

 

sabato 28 gennaio 2023

LAGER E GULAG

In occasione della giornata della memoria c’è chi ha discusso delle similitudini e delle differenze fra i lager hitleriani ed i gulag staliniani. Visto che in proposito si dicono molte fesserie val forse la pena di soffermarsi un po’ sull’argomento.
E’ inutile sottolineare le numerose analogie fra lager e gulag, queste sono evidenti a chiunque abbia un minimo di capacità di vedere e ragionare. Vale invece la pena di esaminare le differenze fra loro.
Qualcuno sostiene che i gulag sovietici erano campi di concentramento, non di sterminio. E’ vero, ma in cosa consiste di preciso questa distinzione?
Nei gulag avvenivano a volte fucilazioni di massa di prigionieri ma queste non erano la norma. L’obiettivo principale di chi costruì e gestì i gulag era economico. Non si trattava di sterminare interi gruppi sociali o etnici ma di ridurli in stato di schiavitù. Certo, questo non era l’unico obiettivo: per un certo periodo di tempo, durante il grande terrore per essere precisi, fu fondamentale l’obiettivo di terrorizzare i nemici, veri o presunti, reali o potenziali del regime, di tenere costantemente sotto pressione la società per impedire che si potesse formare un qualsiasi tipo di opposizione, ma l’obiettivo più importante fu quasi sempre economico. Bisognava realizzare gli obiettivi sempre più irrealistici dei piani quinquennali e nulla sembrava più facile che utilizzare a questo fine il lavoro schiavo. E’ ora di dirselo una volta per tutte: l’apparato industriale sovietico è stato edificato in considerevole misura col lavoro schiavo. Gli ospiti dei gulag non erano condannati a morte ma allo schiavismo. Erano schiavi pubblici pronti ad essere sostituiti da altri in caso di morte o al termine della pena (che spesso veniva prolungata senza processo alcuno). Ovviamente il il lavoro schiavo in condizioni proibitive provocava un altissimo numero di decessi, ma non erano questi, di norma l’obiettivo dichiarato di Stalin e dei suoi complici. In questo la differenza con Hitler è evidente, anche se non mi pare si tratti di una differenza rilevante dal punto di vista etico.
Legata a questa differenza possiamo rilevarne un’altra, più generale fra il nazismo hitleriano ed il comunismo staliniano.
Il nazismo hitleriano non lasciava possibilità alcuna di scampo agli sventurati appartenenti a certi gruppi etnici. L’ebreo era condannato a morte, punto e basta. Poteva non rappresentare pericolo alcuno per il regime, poteva essere un genio potenzialmente utile ai nazisti, poteva avere idee politiche di destra, non contava. Era ebreo quindi doveva morire. In una certa misura questo riguardava anche altri gruppi, i rom ad esempio.
Nella Russia staliniana questo non avveniva. Stalin perseguitò crudelmente intere nazionalità, deportò moltissimi ucraini, russi tedeschi, tatari, ceceni, ma, almeno sulla carta, non decise mai di sterminare tutti gli appartenente a queste nazionalità. In linea teorica nella Russia staliniana tutti potevano sperare di salvarsi, in questo, di nuovo, è possibile ravvisare una differenza fra il comunismo di Stalin ed il nazismo di Hitler. Però… però è anche vero che se in URSS tutti potevano sperare di salvarsi, nessuno poteva considerarsi neppur relativamente al sicuro. Nella Germania nazista un cittadino tedesco, non ebreo, se non aveva idee pericolose, non manifestava dissenso, si comportava “bene” aveva discrete possibilità di condurre una vita relativamente normale. Questo non avveniva nella Russia staliniana. Qui chiunque poteva finir male, anche se non apparteneva a gruppi considerati “nemici”, anche se era un buon comunista, anche se manifestava tutti i giorni il suo amore per Stalin. Nei gulag c’erano criminali comuni (era considerato criminale comune anche chi rubava un pugno di grano) ma anche operai, contadini, intellettuali. C’erano i russi come gli ucraini, c’erano i dissidenti politici ma anche chi dissidente non era. Molti staliniani di ferro assaggiarono le dolcezze dei gulag, magari accanto ai nemici del popolo menscevichi e trotzkisti. Il nazismo non lasciava scampo ad alcuni, lo stalinismo lasciava a tutti la speranza di farla franca,  ma non dava a nessuno la minima, relativa certezza di scampare al terrore. Nessuno nella Russia di Stalin era certo, andando a letto la sera, di risvegliarsi la mattina nello stesso letto.
Da qui un’altra differenza. Nei campi nazisti vigeva una distinzione assoluta fra prigionieri da un lato e, dall’altro, amministratori, capi e guardiani. I prigionieri erano la “razza inferiore”, chi li controllava apparteneva alla “razza superiore”.
Nei gulag staliniani invece esisteva invece una certa continuità fra prigionieri e guardiani. I guardiani erano al culmine di una gerarchia di cui anche zek (così si chiamavano gli ospiti dei gulag) facevano parte, ovviamente al grado più basso. Ci furono molti casi di zek (NON fra i politici però) che divennero guardiani e, viceversa, di guardiani che degradarono a zek. Molti aguzzini si ritrovarono a dover subire la stessa sorte di coloro contro cui avevano agito con disumana crudeltà.
Il discorso è ovviamente solo abbozzato, andrebbe approfondito a tutti i livelli. Altri lo hanno fatto in maniera approfondita ed esaustiva.
Un’ultima considerazione: quale fra le due esperienze storiche è stata la peggiore? Si tratta di una domanda a cui non mi sento di rispondere. Il nazismo è stato unico, la Shoah è davvero un fenomeno senza confronto nella storia. Ma anche il comunismo staliniano è stato, a modo suo, unico. Nessun tiranno ha mai oppresso il suo popolo con l’ampiezza e la spietatezza messe in atto da Stalin.
Stabilire quale fra i due sia stato il peggior è un po’ come voler decidere cosa è peggio fra la peste ed il colera.
E tanto può bastare.