domenica 24 novembre 2024

FOLLEMENTE CORRETTO

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Senz’altro da leggere questo libro di Luca Ricolfi: “il follemente corretto”. Edizioni "La nave di Teseo".
L’autore sottopone a esame e critica severa l’ideologia politicamente corretta e l’involuzione che questa ha subito negli ultimi 10, 15 anni. Involuzione che ha trasformato il politicamente corretto classico, già molto criticabile, in quello che Ricolfi chiama “il follemente corretto”.
In cosa consiste tale involuzione? Soprattutto nell’allargamento sempre più ampio della fascia dei soggetti che il politicamente corretto vorrebbe sottoporre a tutela, nelle aggressioni sempre più radicali al linguaggio, nell’imposizione sempre più ampia di vincoli e limiti alla libertà di espressione.
L’aggressione alla lingua è, a parere di Ricolfi uno dei campi prediletti del follemente corretto. Si parte, per fare solo un esempio, negando il valore ontologico della differenza sessuale e questo porta alla pretesa di mettere al bando alcune parole, giudicate “offensive”, come padre e madre, poi si prosegue in una china che raggiunge le sublimi vette dell’assurdo. Le parole “maschio” e “femmina” vanno bandite non solo quando si riferiscono al sesso, ma anche in contesti che col sesso nulla hanno a che vedere, ad esempio quando riferite alle prese e agli spinotti elettrici. Stessa sorte capita ad altre parole, lontane dal campo sessuale. La parola “cieco” sarebbe “offensiva”, a partire da questa discutibilissima premessa si arriva a chiederne la proibizione anche in contesti che nulla hanno a che vedere con la cecità delle persone, ad esempio quando si parla di una vicolo cieco.
La prima parte del libro costituisce una autentica fenomenologia del follemente corretto, molto bella e interessante, anche se, lo confesso, è difficile leggerla senza sentirsi ribollire di indignazione.
Nella parte conclusiva l’autore esamina la nascita del politicamente e follemente corretto, gli strumenti che ne hanno agevolato la diffusione, fondamentalmente l’enorme importanza assunta dai social, e la spinta che questa ideologia malata dà alla formazione di nuove elites e al sorgere di nuove discriminazioni, esclusioni e contrasti, soprattutto quello fra strati benestanti e iper acculturati (spesso in realtà crassamente ignoranti) e gente comune. Infine, piccola fiammella di speranza, Ricolfi analizza le tare logiche del follemente corretto, i conflitti che la sua espansione provoca anche all’interno dei suoi seguaci, come quello fra le femministe classiche e teorici del sesso “fluido”, tutti fattori che possono far sperare in una inversione di tendenza.
Luca Ricolfi era ed è un uomo di sinistra, ma, come altri, si pensi a Federico Rampini, mantiene una ammirevole onestà intellettuale e lucidità di pensiero. Come uomo di sinistra è convinto che il follemente corretto nuoccia in ultima analisi alla sinistra stessa che ha ormai abbandonato i suoi referenti classici, la classe operaia e i lavoratori in generale; per far proprie le esigenze e i valori di minoranze molto spesso faziose e lontane dal sentire della quasi totalità dei ceti disagiati. Quale che sia il giudizio su queste posizioni di Luca Ricolfi il suo resta un libro importante, una pietra nello stagno del pensiero dominante su tutti i media.
Lo ripeto: decisamente da leggere


lunedì 29 aprile 2024

INCLUSIVITA'

 

E’ uno dei concetti più diffusi nei tempi di crisi culturale che stiamo attraversando, ma è anche uno dei più potenzialmente pericolosi: mi riferisco al concetto di inclusività.
Dobbiamo includere il diverso, accettarlo, dialogare con lui… praticamente non passa giorno senza che qualcuno non ci ripeta cose simili, soprattutto dagli schermi televisivi. Intesi in senso debole simili discorsi sono del tutto accettabili. L’occidente, nella sua miglior componente, è una civiltà essenzialmente inclusiva. Proprio perché in occidente sono nati e si sono faticosamente affermati valori che hanno portata universale l’occidente è inclusivo. Non si può sostenere la pari dignità di ogni essere umano, indipendentemente da sesso, razza, nazionalità, senza essere inclusivi. Un giapponese è diverso da me, ma ha la mia stessa dignità di persona umana, quindi io sono, devo essere disposto a confrontarmi con lui, a vedere quanto di positivo esiste o può esistere nei suoi valori, nella sua civiltà di appartenenza, sono, in questo senso, inclusivo nei suoi confronti. Fin qui l’inclusività è non solo del tutto accettabile, ma positiva.
Ma non è questo il concetto di inclusività che si sta affermando in questo periodo in occidente.
Per essere positiva la inclusività non può, non deve essere assoluta. Una inclusività totale, illimitata, in una parola, assoluta è una autentica contraddizione in termini. In nome della inclusività dovrei accettare, includere appunto, anche chi rifiuta ogni forma di inclusività. In nome di una illimitata apertura al diverso dovrei accettare chi in quanto diverso mi odia ed odia ogni forma di diversità. Vale per l’inclusività lo stesso limite che vale per la tolleranza: si possono tollerare molte cose ma non l’intolleranza, si può dialogare, ci si può confrontare con molti ma non con tutti, di certo non si può dialogare con chi rifiuta ogni dialogo, non ci si può confrontare con chi considera il confronto come una sorta di offesa, o con chi considera “offensivo” il fatto stesso che qualcuno chieda di confrontarsi.
Ed ancora, si può includere qualcuno o qualcosa solo sulla base della affermazione forte della propria identità. Io includo qualcosa perché sono IO, perché partendo dalla affermazione di ciò che sono considero positivo aprirmi a quel qualcosa. Sono amico di Tizio perché, partendo da ciò che in positivo io sono, desidero includere Tizio fra i miei amici, mentre non includo nella cerchia delle mie amicizie Caio. In questo senso la inclusività è diversa dalla apertura al confronto. Posso confrontarmi sia con Tizio che con Caio, ma alla fine includere solo Tizio nella mia sfera privata. Identità, confronto, inclusività sono concetti in qualche modo collegati, ma restano diversi. Partendo dalla affermazione della propria identità si è disposti al confronto e da questo nasce o può nascere l’inclusione; mai però una inclusione totale, assoluta. A parte il fatto che una simile inclusione è empiricamente impossibile: nessuno può immaginare che la popolazione del mondo si concentri tutta o quasi in un solo paese o continente, a parte questo, una simile illimitata inclusione si scontra col dato originario della affermazione dell’identità di chi include. Per essere positiva l’inclusività non può che essere parziale, limitata, differenziata. Nel momento stesso in cui diventa illimitata, o addirittura assoluta l’inclusività si trasforma in distruzione di certe identità (quelle di chi accoglie per essere chiari) e ciò costituisce la negazione radicale dello stesso concetto di inclusione.

Il concetto oggi egemone in occidente, quanto meno, in settori considerevoli della civiltà occidentale è invece proprio quello di una inclusività assoluta, illimitata, soprattutto di una inclusività separata da ogni forma di affermazione della propria identità. Per essere inclusivi bisogna dimenticarsi di se stessi, per potersi confrontare occorre pregiudizialmente rifiutare i propri valori, rinunciare alla proprie idee, demonizzare la propria storia e nel contempo accettare, considerare pregiudizialmente positivi i valori, le idee, la storia di chi è altro da noi. Non ci vuole molto per capire che in questo modo è proprio il confronto a cessare di esistere. Confrontarsi significa appunto esaminare idee e valori, diversi e valutare, sulla base di comuni valori base, quanto meno il riconoscimento della pari dignità di ogni essere umano, cosa esiste di positivo o negativo nei valori e nelle idee che si confrontano, o, almeno cercare le vie che permettano la pacifica coesistenza di idee e valori diversi. Un confronto che parta dal rifiuto pregiudiziale della propri identità non è confronto, è pura e semplice sottomissione, l’esatto contrario del confronto.
E l’inclusività che nasce da questo non confronto altro non è che rinuncia a se stessi, abbandono della propria identità e trasformazione di una grande civiltà in una sorta di scatola vuota, pura potenzialità ad aprirsi e ad accogliere tutto e tutti.
E’ deprimente constatare quanto l’occidente sia vicino a forme simili di cattiva inclusività. Idee, usi e costumi che ogni occidentale è pronto a condannare senza appello se si manifestano nella sua civiltà sono accettate, o quanto meno criticate in maniera blanda, quasi impercettibile, se si manifestano, e con ben altra diffusione, in civiltà diverse. Femministe che tacciono di fronte a fustigazioni e lapidazioni delle adultere, imposizione del velo, infibulazione, difensori dei diritti degli omosessuali che nulla dicono di fronte al carcere o alla impiccagione di omosessuali, sostenitori del laicismo e del libero pensiero che non hanno nulla da obiettare alla pena di morte per apostati e bestemmiatori… l’elenco sarebbe lungo. Ed ancora, la nostra storia ridotta ad un accumulo di orrori, cui si contrappone una molto presunta innocenza nella storia delle altre civiltà, l’universalità di alcuni nostri valori negata, mentre è proprio tale universalità a costituire lla solida base per una inclusività autentica.
Per l’occidentale politicamente corretto includere significa né più né meno ridursi a scatola vuota, merto contenitore di tutto ciò che è altro. Nessuna civiltà però può ridirsi a scatola vuota, mera potenzialità inclusiva, senza perire. L’abbandono da parte dell’occidente politicamente corretto, dei propri valori base altro non è che l’autodistruzione dell’occidente e con questa, la fine di una positiva tendenza alla buona inclusione.
Siamo di fronte ad un paradosso che se non fosse tragico sarebbe comico: una civiltà che annovera fra i suoi valori base la tolleranza, l’apertura al confronto e quindi alla inclusione rischia, in nome della accettazione di una assoluta, cattiva inclusività di distruggere le basi stesse di politiche di autentica inclusione. L’inclusivismo politicamente corretto favorisce solo chi è intollerante, rifiuta ogni dialogo, intende non confrontarsi ma dominare, non includere ma assoggettare.
Un paradosso che è segno dei tempi di crisi che stiamo attraversando...

mercoledì 17 aprile 2024

IL RACCONTO DI PEUW, BAMBINA CAMBOGIANA

 

Lo ho letto una prima volta tanti, tanti, anni fa. Ero giovane davvero allora, non “diversamente giovane” come oggi, e la sua lettura diede il colpo definitivo, emotivo e non solo intellettuale, al mio sempre più vacillante marxismo. Poi, anni dopo, non so come, forse durante un trasloco, ho perso quel libro: “Il racconto di Peuw, bambina cambogiana”. Lo ho cercato in tutte le librerie, poi in rete, nulla da fare, era introvabile. Nelle italiche librerie si possono facilmente trovare i capolavori di Fabio Volo e Michela Murgia ma il diario di Peuw, quello no, quello è introvabile.
Lo ho alla fine scovato in rete, di seconda mano, in una sconosciuta libreria, di Torino mi pare. Lo ho immediatamente comprato e lo ho riletto, dopo tanti, tanti anni. E mi ha fatto ancora più impressione.
Nell’Aprile del 1975 i Kmer rossi, i comunisti cambogiani guidati da Pol Pot, entrano vittoriosi a Phnom Penh ed inizia per il popolo cambogiano una autentica traversata dell’inferno.
Le città vengono svuotate, dall’oggi al domani milioni di esseri umani sono mandati nelle campagne a compiere lavori mai fatti in precedenza, praticamente privi di qualsiasi attrezzatura. Peuw una bambina di 12 anni, è fra questi. Il suo racconto ci descrive il suo peregrinare nell’inferno. Le terrificanti marce verso i luoghi di destinazione, il lavoro massacrante cui è sottoposta, in condizioni proibitive. Immersa fino alla cintola in stagni o risaie, spesso infestati da serpenti, sempre da sciami di insetti che non danno tregua. Priva di attrezzi o munita di attrezzi che richiamano l’età della pietra lavora per 12 o 16 ore al giorno. I nuovi schiavi alloggiano in capanne che loro stessi devono costruirsi, nelle ore di “riposo”, dopo il lavoro dedicato alla “Kampucea democratica”, così Pol Pot denomina la nuova Cambogia. Tutto è vietato, anche cercare un po’ di cibo, mangiare qualche frutto che si trova nella foresta. Tutto deve essere collettivo, tutto va consegnato ai “mekong”, i sorveglianti dei campi di lavoro forzato che provvedono poi alla giusta distribuzione delle vivande. Quando le cose vanno bene i nuovi schiavi ricevono un mestolo di brodaglia per “pranzo” e un altro per “cena”, tutto qui. La fame è una delle protagoniste del libro: una fame feroce, spietata, che distrugge i corpi ed insieme le anime, una fame che fa risorgere su larga scala il cannibalismo.
Ed un altro protagonista sono le malattie. Il colera stronca la vita di una quantità enorme di esseri umani, Peuw ne è colpita e si salva letteralmente per miracolo. Molto spesso continua a lavorare anche afflitta da febbre alta, squassata dalla diarrea. Lo fa per una ragione molto precisa: i “mekong” concedono generosamente ai malati di non lavorare… solo… solo che da buoni seguaci del comunismo staliniano-leniniano mettono in atto una delle parole d’ordine di Vladimir Lenin: “chi non lavora non mangia”. E i malati che non lavorano NON mangiano, anche il mestolo di riso in brodaglia è loro negato, non mangiano e muoiono di fame, fra i loro escrementi. Una donna torna al lavoro tre giorni dopo aver partorito, e non ad un comodo lavoro d’ufficio, di fronte ad un PC, no, nelle risaie, semi immersa nell’acqua con insetti velenosi nelle vicinanze…
Tanto lavoro per cosa? Per costruire colossali opere pubbliche? Edificare un paese migliore? Nemmeno per sogno. I lavori cui sono sottoposti i nuovi schiavi sono del tutto inutili. Peuw racconta della costruzione di una “strada”. Il lavoro consisteva nel togliere, con le mani, il fango che copriva una gran pianura, nello scavare sino a che il terreno non sembra un po’ più compatto accatastando il fango ai lati della striscia di terra che in questo modo si riusciva a formare. Quella striscia di terra era la “strada”. Bastava un po’ di pioggia ovviamente per distruggerla. A questo serviva il lavoro schiavo cui erano costretti milioni di cambogiani.
In quattro anni, dal 1975 al 1979 sono morte in Cambogia dai due ai tre milioni di persone, su una popolazione che non raggiungeva i 12 milioni di esseri umani: da oltre un sesto ad oltre un quarto dell’intera popolazione di quello sventurato paese. Applicate ad un paese come l’Italia quelle percentuali si tradurrebbero in 10 o 15 milioni di morti, probabilmente di più. Queste le dimensioni terrificanti di una delle esperienze più mostruose della storia.

A prima vista la tragedia cambogiana sembra, più di altre, inspiegabile, frutto di pura follia. Ma sarebbe un grave errore ridurre tutto a follia; certo, l’esperienza cambogiana è folle, ma dietro a quella follia c’è qualcosa di molto reale, che ha un nome preciso, si chiama ideologia.
I Kmer rossi sono comunisti cambogiani, i combattenti sono contadini semi analfabeti, i loro leader però si sono formati in occidente, Pol Pot studiò per tre anni a Parigi e lì, nella capitale francese, si avvicinò al marxismo leninismo. E lo mise in pratica quando i suoi Kmer riuscirono ad impadronirsi del potere.
Lo mise in pratica correttamente? Beh… il massacro del popolo cambogiano è stato preceduto da altri massacri di immani dimensioni messi in atto da leader comunisti, basti pensare all’Holodomor ucraino o al gran balzo in avanti in Cina. Anche qui milioni e milioni di morti, anche qui ricomparsa del cannibalismo. Tengo a sottolineare che in questa sede non mi occupo di altri mostruosi genocidi, tristemente primo fra tutti quello del popolo ebraico messo in atto dai nazisti.
La mostruosità cambogiana non si riduce a semplice follia: si tratta di una follia ideologica. Pol Pot cerca di mettere in atto integralmente l’utopia del marxismo leninismo e di risolvere, mettendola in atto, una delle principali contraddizioni che in essa si annidiano: quella relativa alla continuità del corso storico.
Esiste una continuità nel corso della storia, qualcosa di positivo che passa, pur nei salti e nelle discontinuità, da una generazione all’altra? Un legame che ci permette di riconoscerci in una tradizione, un divenire che lega i tempi che viviamo a quelli di chi ci ha preceduto? Oppure questa continuità non esiste e la rivoluzione che Marx preconizza segna una discontinuità assoluta, una rottura radicale con tutta la tradizione storica, col conseguente rifiuto di tutto ciò che gli esseri umani hanno costruito nel corso dei secoli e dei millenni?
Marx capisce l’importanza del problema: negare ogni continuità nel corso storico significa fondare sul nulla la rivoluzione, recidere le radici che legano in qualche modo la rottura rivoluzionaria con la storia precedente, col risultato di cadere in quello che Marx stesso chiamava sprezzantemente l’utopismo rivoluzionario: la rivoluzione cessa di essere un prodotto della storia per diventare il risultato di una mera azione volontarista.
Sappiamo come Marx cerca di risolvere il problema: esiste per lui una continuità nel corso storico e questa è rappresentata dallo sviluppo delle forze produttive sociali. La scienza e la tecnica sono oggi usate in maniera capitalistica, servono a sfruttare la classe operaia, ma domani, in una organizzazione sociale nuova, potranno avere un uso positivo e liberatorio. Lo sviluppo delle forze produttive lega in qualche modo la società perfetta di domani alla alienante società di oggi. La rivoluzione cessa di essere il risultato di un volontarismo privo di radici e diventa la tappa finale di un corso storico predeterminato.
La soluzione però è più apparente che reale. Marx infatti riduce drasticamente l’uomo alla sua componente storica e socio economica. E riduce a sua volta questa, integralmente, ad alienazione, oppressione e sfruttamento. Se si aggiunge che il materialismo storico marxiano fa delle attività spirituali dell’uomo una sovrastruttura, riflesso della struttura socio economica, il tentativo di rinvenire una qualche continuità nel corso storico diventa disperato. Se tutto è società, se tutto dipende dalla dimensione economico sociale e se questa è integralmente basata su alienazione e sfruttamento quale continuità sarà mai possibile instaurare fra la società perfetta, il paradiso di domani e l’inferno di oggi?
La tensione presente nel marxismo fra la accettazione di una qualche continuità nel corso storico, affidata allo sviluppo tecnico scientifico, e la accentuazione esasperata della radicale discontinuità dello stesso, porterà ad una frattura alla lunga insanabile nel movimento operaio fra una componente gradualista e una rivoluzionaria. La prima, al termine di un travagliato percorso intellettuale metterà Marx in soffitta, la seconda sostituirà il pesante scientismo presente nel marxismo con un volontarismo esasperato e criminale.

I teorici della scuola di Francoforte, fra i principali ispiratori del movimento del ‘68, metteranno però in evidenza come un po’ tutte le componenti del marxismo sottovalutino in qualche modo la radicalità della rottura rivoluzionaria. Anche i rivoluzionari infatti conferiscono valore oggettivo, quindi sostanzialmente extra sociale, alla scienza e alla tecnica. Lenin definisce il socialismo come i soviet più l’elettrificazione e in “materialismo ed empiriocriticismo” difende una concezione della conoscenza certamente ingenua e dogmatica ma che non nega il valore conoscitivo della scienza, al contrario. Per i teorici della scuola di Francoforte è invece profondamente sbagliato parlare di “uso capitalistico della scienza e della tecnologia”, come se esse potessero essere usate in modo diverso. E’ la stessa struttura quantitativa della scienza ad essere funzionale ad un sistema basato sullo scambio di equivalenti, quindi sulla universale quantificazione di tutto. Non esiste una tecnica neutrale che possa essere utilizzata a fini diversi da diverse classi sociali: la tecnica è espressione coerente cdi un sistema basato sulla oppressione di classe, come lo sono l’arte, la filosofia, la letteratura. Nulla è, sotto nessun punto di vista “neutrale”. Una rivoluzione che accetti in qualche modo una qualsiasi forma di continuità storica è inesorabilmente destinata a degenerare. La vera colpa di Stalin non è stata quella di aver distrutto ogni forma di libertà civile e politica, no, il suo vero “errore” sarebbe stato quello di avvalersi di metodi produttivi sostanzialmente “capitalisti” (a dire il vero nessuna esperienza di accumulazione capitalistica ha portato al risorgere del cannibalismo, ma questi per molti intellettuali raffinati sono dettagli).
Il movimento del ‘68 farà proprio, esasperandone al massimo gli aspetti più deteriori, questo minestrone di utopismo e mentalità antiscientifica. La rivoluzione diventa “contestazione globale” e comprende tutti, ma proprio tutti gli aspetti della vita umana. Dal lavoro al linguaggio, dai sentimenti alle passioni. Ragione, sentimenti, pulsioni sessuali, gusto estetico tutto deve cambiare, ruotare di 180 gradi. Nulla lega l’uomo nuovo, meglio sarebbe dire l’angelo, comunista al vecchio, deforme uomo della società capitalista. Ogni radice va spezzata. Non a caso i “sessantottini” vedranno il loro ispiratore nel Mao della “rivoluzione culturale”, un tragico, mostruoso episodio di nichilismo totalitario che ha gettato nel caos il paese più popoloso del mondo.

Ovviamente gli intellettuali ed i contestatori del ‘68 erano poco coerenti. Nemici del benessere avevano spesso conti in banca di tutto rispetto, negavano ogni valore a scienza e tecnologia ma viaggiavano in aereo e se malati facevano ben volentieri uso della aborrita medicina borghese. Non così i Kmer rossi di Pol Pot. A differenza dei raffinati frequentatori dei salotti buoni della sinistra occidentale i loro leader presero sul serio i filosofemi dei vari Adorno e Marcuse e li misero in pratica, senza riguardo alcuno, per nessuno.
Le città sono covo di corruzione, i Kmer svuotarono le città. La famiglia è una istituzione borghese e repressiva, i Kmer separarono le mogli dai mariti, i genitori dai figli. La cultura, l’arte, la scienza servono a perpetuare lo sfruttamento e l’oppressione di classe, i Kmer fucilarono gli “intellettuali”, cioè che aveva frequentato anche solo le scuole elementari; i loro capi erano ovviamente esclusi, la loro, non si sa bene perché, era una cultura “proletaria”. La religione è alienante, i kmer distrussero magnifici templi e pagode, e fucilarono chi osava pregare. Il linguaggio è classista, i Kmer imposero a tutti un nuovo linguaggio “non classista”. La tecnologia è strumento del dominio di classe, i Kmer obbligarono milioni di esseri umani a lavorare come schiavi praticamente privi di strumenti. L’individualismo è il male assoluto, i kmer collettivizzarono tutto, comprese pentole, piatti e scodelle e obbligarono tutti a vestire nello stesso modo, in orribili camicioni e pantaloni neri. La frattura fra vecchio e nuovo è totale, radicale, insanabile, i Kmer vollero ripartire da zero, senza sconti per nessuno.
Nell’esperienza cambogiana l’utopia comunista si rivela per quello che è e non può non essere: una utopia assassina.
La natura umana e la società possono essere gradualmente modificate ma non rivoltate di 180 gradi, il nuovo non può che innestarsi sul vecchio, nessuna innovazione può partire dalla negazione totale di ciò che la precede. Ogni individuo ama se stesso ed ha la tendenza a godere privatamente di un certo numero di beni; è a partire da questo che ognuno di noi può amare e rispettare gli altri. Negare questo carattere fondamentale della natura umana, annegarlo in un collettivismo abbruttente significa distruggere l’uomo.
Ripartire da zero è impossibile, meglio, è possibile solo se milioni di esseri umani, la società tutta, sono sottoposti a mostruose forme di violenza, solo se un pugno di fanatici, armati sino ai denti e pervasi da una ideologia nichilista, dichiarano guerra alla società, alla società nel suo complesso ed impongono a questa la loro volontà spietata.
Il comunismo reale, cioè l’unico possibile, è stato precisamente questo: una lunga, spietata guerra del partito al potere contro la società. Contro la borghesia, gli intellettuali, gli strati intermedi, contro i contadini, massacrati a milioni da Stalin e Mao, contro gli operai che nella propaganda di regime avrebbero dovuto essere i veri beneficiari del cambiamento rivoluzionario e si trovarono a dover subire forme di sfruttamento inimaginabili anche nel peggiore dei sistemi capitalistici.
In Cambogia questa guerra del partito contro la società assunse le forme più mostruose, i Kmer rossi furono coloro che più di ogni altro portarono la loro ideologia nichilista alle sue tragicamente coerenti conseguenze.
Furono coerenti Pol Pot e i suoi kmer, fecero ciò che molti raffinati intellettuali occidentali, molti cattivi maestri, si limitarono a teorizzare evitando attentamente, nelle loro teorizzazioni, di trarre, anche anche solo a livello teorico, le conseguenze di quanto dicevano.
Se la tecnologia non ha nulla di neutrale, è solo espressione del dominio di classe, perché viaggiare in auto invece che a piedi? Se la medicina serve solo alle case farmaceutiche perché assumere farmaci? Se la famiglia è solo una istituzione repressiva perché non separare i figli dai genitori? I Kmer rossi misero spietatamente in pratica i filosofemi di tanti cattivi maestri, ebbero il tragico, criminale coraggio della coerenza, quello che, per venire all’oggi, manca agli attuali riformatori politicamernte corretti del linguaggio ed ai teorici della cancel culture.
Per questo è importante sapere cosa ha significato per milioni di esseri umani la loro politica criminale, per questo sarebbe importante che tutti leggessero un libro come “il racconto di Pew bambina cambogiana”. Purtroppo questo libro prezioso è oggi praticamente introvabile.
Chissà, forse non si tratta di una caso.

venerdì 16 febbraio 2024

INNOCENZA O COLPEVOLEZZA DEI POPOLI

 

Lo si sente dire spesso: i popoli sono innocenti, non possono essere considerati responsabili delle nefandezze dei loro governi. Sembra una affermazione di buon senso, ma… le cose stanno davvero così?
I popoli non sono super persone, misteriose entità metafisiche che annullano le differenze individuali. Fanno parte di un popolo persone con idee, interessi, valori diversi, spesso profondamente diversi. In questo senso parlare di innocenza o colpevolezza dei popoli è completamente sbagliato, come sono sbagliati, anzi, criminosi i propositi di vendetta sui popoli per crimini e delitti commessi da una parte degli stessi. La responsabilità giuridica e morale è sempre individuale, questo è uno dei principi base della nostra civiltà cui è bene attenersi, sempre.
Però i popoli esistono. Non come super persone ma come entità collettive, insiemi di esseri umani uniti da un linguaggio, una storia, una tradizione, usi, costumi, abitudini. E capita a volte che queste entità collettive si ammalino, facciano proprie ideologie assassine o portino alle estreme conseguenze gli aspetti negativi di ideologie, fedi religiose, modi di vedere il mondo. Certo, queste malattie dell’anima non riguardano mai tutti i membri di un certo popolo, cultura o fede, ne possono infettare però settori estremamente ampi, sua pure in maniera differenziata. Non tutti i tedeschi erano nazisti, né tutti i tedeschi che simpatizzavano per il nazismo erano equiparabili ai criminali che conducevano gli ebrei alle camere a gas, tuttavia l’ideologia criminale del nazismo infettava in profondità il popolo tedesco. Durante la notte dei cristalli c’erano i criminali che spaccavano le vetrine dei negozi retti da ebrei, c’era chi applaudiva, chi si voltava dall’altra parte, chi non approvava ma taceva, chi infine si opponeva, ma si trattava di esigue minoranze. Il popolo tedesco era ammalato di nazismo, questo non lo rendeva tutto egualmente responsabile dei crimini nazisti, ma lo esponeva comunque alle conseguenze della malattia che lo aveva travolto.

Il punto è proprio questo: le vendette a danno dei popoli sono inammissibili ma questo non implica che i popoli non debbano mai subire le conseguenze delle loro scelte collettive, sia pure non unanimi.
Moltissimi tedeschi hanno appoggiato Hitler. La gran maggioranza di loro ha finto di non vedere le persecuzioni cui il tiranno nazista sottoponeva gli ebrei e non solo loro. Masse enormi di tedeschi hanno applaudito freneticamente quando le armate naziste hanno conquistato la Polonia, la Francia, l’Ucraina. Poi le cose sono cambiate ed il popolo tedesco ha dovuto patire sofferenze enormi. Sarebbe stato giusto chiedere ai nemici della Germania nazista di non attaccarla perché i loro attacchi coinvolgevano inevitabilmente anche persone che nulla avevano fatto di male? Dal fatto che un popolo non debba subire vendette collettive deriva che lo stesso popolo possa evitare di essere coinvolto nelle conseguenze delle politiche che una sua parte importante ha comunque avallato? Basta fare la domanda per avere la risposta, credo.
Si possono fare considerazioni simili riguardo a quanto sta avvenendo oggi a Gaza.
Non tutti i palestinesi sono terroristi, è vero, però una parte cospicua dei palestinesi approva gli atti dei terroristi, li incoraggia, li applaude. Altri fingono di non vedere, altri ancora, pochi probabilmente, sono in disaccordo ma non possono opporsi. Dopo gli attentati dell’undici settembre a Gaza sono stati in moltissimi a festeggiare, lo stesso è avvenuto dopo il 7 ottobre. Questo non rende collettivamente “colpevoli” i palestinesi, non li deve esporre a vendette collettive, ma non può neppure esonerarli dal subire le conseguenze di una politica che tanti di loro hanno avallato.
E’ bene saperlo: quando parti importanti di un popolo avalla ideologie assassine e quando queste ideologie assassine si traducono in concrete azioni criminali tutto il popolo interessato ne subisce le conseguenze, purtroppo.
Questo è uno dei motivi più importanti per opporsi con tutte le forze alle ideologie assassine. Sempre, a tutti i livelli. Dovrebbero pensarci bene gli intellettuali, veri o presunti, che per le ideologie assassine hanno una incredibile, e vomitevole, simpatia.

mercoledì 14 febbraio 2024

lunedì 5 febbraio 2024

LO STUPRO DI CATANIA

 

In occasione dello stupro di Catania è ricominciata la solita, asfissiante polemica sulle generalizzazioni. “Dal fatto che sette ragazzi egiziani commettono uno stupro non si può dedurre che tutti gli egiziani siano stupratori, chi lo sostiene è un razzista” ha detto qualcuno. Cosa rispondere a questa constatazione, tanto vera quanto banalmente ovvia?
Procedo per punti.
1) E’ verissimo che sarebbe una idiozia affermare che siccome sette egiziani hanno commesso uno stupro tutti gli egiziani sono stupratori, penso infatti che nessuna persona sensata sostenga una tesi tanto assurda. Però… però chi oggi strilla contro simili generalizzazioni ha sostenuto ieri generalizzazioni ancora più assurde. Un mascalzone uccide la fidanzata e per questo io dovrei vergognarmi di essere maschio. Ce le ricordiamo simili generalizzazioni? Per molti che oggi strillano quelle erano lecite…
2) In realtà non si tratta di generalizzare o meno, di dare giudizi sommari su interi popoli. Si tratta di valutare certe culture diffuse in zone assai estese del pianeta, culture che considerano la donna che non accetta certi canoni di morale sessuale poco meno che una prostituta. Queste culture esistono e sono largamente egemoni in determinati paesi. Affermarlo non vuol dire essere “razzisti”, altrimenti sarebbe “razzista” ogni analisi dei fenomeni sociali e culturali, visto che ogni fenomeno sociale e culturale riguarda in maniera differenziata i vari paesi del mondo. Sarebbe “razzista” affermare che la mafia è un fenomeno storicamente siciliano (il che NON vuol dire che tutti i siciliani siano mafiosi) o che nella cultura confuciana le donne avevano un ruolo particolarmente subordinato (dal che non deriva che tutti i cinesi opprimano le donne).
3) Soprattutto lo stupro di Catania riguarda la politica delle porte aperte alla immigrazione clandestina. E’ ovvio che NON tutti i migranti sono degli stupratori, ma è altrettanto ovvio che se si permette a chiunque di entrare in Italia senza filtri, limiti e controlli, se si fanno entrare masse di disperati, tra l'altro senza essere in grado di offrir loro un lavoro ed una esistenza decenti, si creano inevitabilmente situazioni di degrado in cui non è un caso che avvengano episodi come quello di Catania. Accusare di “razzismo” chi sostiene cose simili è solo un ridicolo tentativo di nascondere una realtà che è sotto gli occhi di tutti.
4) Il modo migliore per alimentare il razzismo è proprio quello di negare la gravità della situazione, dire che “tutto va bene”, alimentare la melassa buonista sul dovere alla accoglienza illimitata, ripetere palle sul fatto che tutte le culture sono egualmente buone, con l’esclusione, ovviamente, della NOSTRA cultura. A tirarla troppo la corda si spezza, ed allora emergono davvero, purtroppo, cose molto, molto brutte.

domenica 4 febbraio 2024

FRA FILOSOFIA E POLITICA

 

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