Detesto il fanatismo,la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero.
giovedì 26 ottobre 2023
LA GUERRA NON RISOLVE MAI ALCUN PROBLEMA?
martedì 24 ottobre 2023
CAPACITA' DI PENSARE ADDIO
mercoledì 18 ottobre 2023
OFFESA E DIFESA
Lo sanno tutti: Israele avvisa la popolazione civile di Gaza prima di
sferrare un attacco o di effettuare un bombardamento, invita i civili
ad evacuare. In questo modo offre un notevole vantaggio anche ai
terroristi di Hamas: chi deve subire un attacco è infatti
avvantaggiato dal fatto di sapere in anticipo dove l’attacco avrà
luogo. Qualcuno può citare in tutta la storia un altro stato che si
comporti o si sia comportato in questo modo? Quando hanno cinto
d’assedio Leningrado le armate naziste hanno forse permesso
l’evacuazione della popolazione civile? E quando i russi sono
giunti alle porte di Berlino l’armata rossa ha forse frenato la sua
avanzata per consentire l’evacuazione dei civili berlinesi? Si
comportano forse in questo modo i russi in Ucraina? Eppure è così
che si comporta lo stato ebraico. Possibile che a tanti sfugga la
enorme differenza etica fra questo modo di comportarsi e quello dei
terroristi di Hamas che fanno deliberatamente strage di
civili?
Ma a tanti questo non basta. Gli attacchi a Gaza,
sostengono, arrecano comunque inevitabili lutti e gravissime
sofferenze alla popolazione civile, quindi sono attacchi
criminali.
Il problema a questo punto riguarda non le sofferenze
dei civili, purtroppo inevitabili in ogni guerra, comunque questa sia
condotta, ma il diritto stesso di Israele a difendersi.
E’
vero, difendendosi Israele è inevitabilmente destinato ad arrecare
sofferenze alla popolazione di Gaza, ma Israele ha o non ha il
diritto di difendersi? E come va inteso tale diritto? Questo è il
punto da chiarire.
Per qualcuno Israele NON ha il
diritto di difendersi. Non ha questo diritto perché NON ha
diritto di esistere. La stessa
esistenza di Israele è un crimine, una sorta di peccato originale
che si estende a tutti i suoi abitanti, neonati compresi. Israele non
deve esistere, quindi non ha diritto a difendere la sua esistenza. I
civili israeliani sono non dovrebbero essere, condividono il peccato
originale del loro stato, quindi non hanno diritto di difendersi da
chi li vuole massacrare. Si tratta di una tesi aberrante, addirittura
oscena che non mi interessa neppure confutare, ma ha almeno il pregio
della coerenza.
Altri fanno un discorso diverso. Israele,
dicono, ha il diritto di difendersi ma tale diritto si ferma alle
porte di Gaza. Se i terroristi di Hamas attaccano un villaggio
israeliano
con l’intento di massacrarne la popolazione civile gli israeliani
hanno diritto di difendersi, ma non di inseguire fin dentro Gaza gli
assalitori eventualmente messi in fuga. Gli israeliani hanno il
diritto di intercettare un missile palestinese, ma non di attaccare
le basi da cui questo missile parte. Gaza è una sorta di santuario
che non si può toccare anche se da quel santuario partono ed
in quello si rifugiano i
terroristi che fanno stragi in Israele. Per fare un paragone storico:
l’aviazione britannica avrebbe avuto il diritto di abbattere gli
aerei tedeschi diretti a Londra, ma non di bombardare gli aeroporti
di partenza. Il diritto dei popoli aggrediti dal mostro nazista
avrebbe dovuto fermarsi ai confini e
sui cieli della Germania.
Pochi, mi pare, hanno
sostenuto concezioni tanto bizzarre.
Concezioni
tuttavia che sono state e sono sostenute, mutatis mutandis, anche in
occasione della guerra in Ucraina, nell’incredibile,
surreale dibattito sulla differenza fra armi offensive ed armi
difensive.
L’Ucraina ha diritto di difendersi, hanno sostenuto
molti, ma deve avere solo armi difensive. Ha diritto di difendere le
sue città ma non di contrattaccare per liberare quelle conquistate
dai russi. Se usa armi “offensive” o contrattacca la sua cessa di
essere una guerra difensiva.
La lancia è il prototipo delle
armi offensive, lo scudo di quelle difensive. Se
Tizio viene attaccato da Caio armato di lancia e scudo lo si può
aiutare fornendogli lo scudo ma
non la lancia, altrimenti la
sua non sarebbe più una azione difensiva. Sembra incredibile ma c’è
gente che ragiona in questo modo. Non a caso chi ha sostenuto simili
barzellette ha in seguito mutato posizione: non bisogna dare nessuna
arma, sia offensiva che difensiva, agli ucraini, punto e basta.
Guarda caso il campione di
questi giri di valzer è stato ed è il signor Giuseppe Conte.
Povero
occidente!
lunedì 16 ottobre 2023
LA MONTAGNA INCANTATA
Ho
letto “La montagna incantata” una prima volta circa 17
anni fa. Attraversavo un momento di difficili condizioni di salute e
non ho affrontato romanzo di Thomas Mann con la dovuta, necessaria
concentrazione; pur riconoscendo l’importanza e la grandezza del
romanzo lo ho giudicato “troppo intellettualistico”.
Ho
riletto in questo periodo il capolavoro di Mann e sono costretto a
mutare parere. “La montagna incantata” è un romanzo
semplicemente stupendo. Si tratta certamente un libro “difficile”,
ma la sua è la tipica difficoltà del capolavoro.
La trama è
abbastanza nota. Il giovane Hans Castorp si reca al sanatorio del
Berghof, sulle Alpi svizzere, per visitare il cugino Joachin
Ziemssen, da tempo ricoverato perché affetto da tubercolosi.
Inizialmente pensa di doversi trattenere per tre settimane, poi
scoprirà di essere a sua volta malato ed il suo soggiorno in
montagna si protrarrà per ben sette anni. Il romanzo ci fa vivere le
vicende umane ed intellettuali del giovane Castorp, i suoi incontri,
le sue esperienze, il suo graduale distacco dal modo di vivere della
“pianura” e la sua graduale assimilazione al mondo del sanatorio.
Quel mondo che diventa nel romanzo di Mann il punto di incontro di
tutte le principali correnti del pensiero europeo nel periodo che
precede la grande tragedia del primo conflitto mondiale: la scienza,
lo scientismo, con incursioni nel mondo della psicanalisi e
addirittura, con chiari significati simbolici, del paranormale, il
progressismo democratico, il razionalismo ingenuo, la rivolta contro
la ragione con i suoi inevitabili risvolti autoritari e nichilisti.
In questa griglia intellettuale si svolgono le vicende umane del
giovane protagonista, le sue relazioni con gli ospiti del sanatorio,
il rafforzamento dell’amicizia nei confronti del cugino, ansioso di
tornare “a valle” per intraprendere la carriera militare. In
quell’atmosfera rarefatta il giovane Castorp si innamora
perdutamente di madame Chauchat, giovane, affascinante donna che
passa la vita da un sanatorio all’altro, facendo letteralmente
perdere la testa a più di un uomo. Il suo è un amore fatto di
sguardi, intese silenziose, parole non dette. Un amore platonico al
cui fondo sta tuttavia una fortissima carica erotica. Solo dopo molto
tempo, in una memorabile notte di carnevale, Castorp troverà il
coraggio di rivelare i suoi sentimenti a madame Chauchat, che però
proprio l’indomani deve partire. Tornerà, molto tempo dopo,
accompagnata da un amante: l’incredibile, ricchissimo signor
Peeperkorn, incarnazione della sensualità della vita in tutti i suoi
aspetti, una sorta di Dionisio nietzchiano, di scarsa levatura
intellettuale ma dotato di una enorme, invadente personalità che
conquista il giovane Castorp, spegnendo in lui la ogni traccia di
gelosia.
I veri protagonisti intellettuali del romanzo
sono tuttavia Lodovico Settembrini e Leo Naphta.
Il massone
Settembrini è un umanista pervaso di razionalismo, fede nel
progresso, amore per la libertà e la democrazia. Il suo ottimismo
idealistico è però tanto ingenuo da apparire a volte quasi comico.
Settembrini crede in una ragione quasi onnipotente, capace di
cancellare dal mondo ogni dolore e con questo tutto ciò che nel
mondo esiste di oscuro, arazionale, non spiegato e non spiegabile.
Vuole un mondo unificato dai valori della libertà, e pare davvero
convinto che l’umanità si avvii versa una sorta di ininterrotta
felicità; non a caso Castorp lo definisce fra se e se “suonatore
di organetto”.
Naphta, ebreo convertito al cristianesimo,
gesuita cui la malattia (e forse anche i superiori, preoccupati dai
risvolti nichilisti del suo pensiero) ha interrotto la carriera, è
l’antagonista di Settembrini. Naphta rappresenta la rivolta contro
la ragione, detesta l’idea di progresso, è per il dogma contro il
libero pensiero, l’autorità contro la democrazia. Per lui le idee
di Settembrini altro non sono che ipocrisie borghesi, esaltazione
dell’individuo egoistico staccato e contrapposto al collettivo di
cui è parte. E’ tale l’avversione di Naphta contro qualsiasi
razionalismo che nel corso delle sue discussioni con Settembrini non
esista ad esaltare quanto di oscuro, corruttibile, miserabile esiste
nell’uomo. Una sorta di miscuglio fra Dio e Satana, gli rimprovera
Settembrini, ma la mistura non spaventa Naphta: meglio questa che
l’ipocrisia borghese con la miserabile adorazione del Dio denaro ad
essa collegata. In questo modo Naphta giunge ad accostarsi al
comunismo e profetizza, facendo inorridire Settembrini, l’avvento
di una rivoluzione comunista che spazzerà via l’insopportabile
alienazione borghese e mercantile. Non c’è che dire: un gran salto
profetico, di interesse anche attuale, dai tribunali della sacra
inquisizione alla dittatura proletaria...
I due antagonisti
vorrebbero conquistare alle loro idee il giovane Castorp che però
non segue né l’uno né l’altro. Il giovane prova sentimenti di
umana simpatia per Settembrini, ma comprende bene l’ingenuità di
molti aspetti del suo pensiero. E’ affascinato dalla ferrea,
sottile logica di Naphta, che spesso ha la meglio negli scontri
dialettici col rivale, ma non lo segue nell’abisso del nichilismo,
ed arriva a definirlo “terrorista”. Castorp raggiunge
faticosamente un suo equilibrio intellettuale: riconosce l’importanza
del male e della morte ma non ne sposa l’oscurità, piuttosto li
vede come una dura via da seguire per raggiungere un autentico
rinnovamento spirituale.
Sarebbe però erroneo considerare
“la montagna incantata” come una sorta di panoramica del
pensiero europeo nel periodo precedente la grande guerra, una sorta
di grande saggio storico filosofico. No, “la montagna incantata”
è innanzitutto un romanzo, una grande opera di narrativa. Un romanzo
ricco di considerazioni filosofiche, carico di simbolismi, la cui
grande forza sta però nella potenza narrativa, nella capacità di
coinvolgere il lettore nella vita nel sanatorio, nei suoi tempi,
cerimonie, frivolezze. Un grande romanzo in cui la narrazione
raggiunge a volte le vette di un realismo addirittura spietato,
capace di comunicare al lettore sentimenti di autentica angoscia
nelle pagine dedicate alla descrizione del dolore e della morte.
“la
montagna incantata” può infatti essere considerato un romanzo sul
tempo e sulla morte.
Sul tempo non tanto per le considerazioni
profonde che su questo mistero fanno Naphta e Settembrini e,
soprattutto, il giovane Castorp, che si rivela rapidamente assi
diverso dal bonaccione borghese che all’inizio poteva apparire.
Romanzo sul tempo, sul tempo soggettivo, non quello di Newton od
Einstein, quello della quotidiana esperienza in cui ognuno di noi
collega nell’istante ricordi ed aspettative. Romanzo sul tempo,
dicevo, perché immerge il lettore nel tempo del sanatorio, del tutto
diverso da quello della “pianura”. Il sanatorio è caratterizzato
dalla lentezza del tempo. Come accadrebbe ad un viaggiatore spaziale
che si muovesse a velocità vicine a quella della luce il tempo del
sanatorio si dilata. Sua unità di misura sono i mesi e gli anni, non
i giorni o le settimane. Ed anche quel tempo “lento” si modifica
a seconda delle situazioni. Bellissima a questo proposito la
narrazione di una importante esperienza del protagonista. Accortosi
di non stare bene il giovane Castorp, sollecitato da una arcigna
infermiera, acquista un termometro e si misura la temperatura
corporea. Deve tenere il termometro sotto la lingua per sette minuti.
Sette minuti, non un tempo breve, una eternità! Ed il lettore è
coinvolto in questa eternità, segue il corso dei pensieri, delle
sensazioni del giovane, si trova quasi magicamente immerso nel “suo”
tempo.
E ancora, romanzo sulla morte; di nuovo non per le dotte
considerazioni che Settembrini e Naphta fanno sull’argomento ma
perché tutta la narrazione è letteralmente impastata di morte.
Bellissime a questo proposito le parti iniziali del romanzo.
Raggiunto il sanatorio questo sembra a prima vista al giovane Castorp
assai simile ad un albergo di lusso. Begli arredi, anche se un po
kitsch, camerieri gentili, pasti pantagruelici con piatti
raffinatissimi. E l’atmosfera sembra, di nuovo, quella di una
località di vacanza: chiacchiere frivole, baldi giovanotti, sani
all’apparenza, che corteggiano leggiadre fanciulle, belle
passeggiate nello splendore delle Alpi svizzere. Ma in questo idillio
si sente da subito il puzzo della morte. Mentre sta per raggiungere
il sanatorio Castorp vede una slitta. “con quella portano a valle i
cadaveri” lo informa il cugino. E quando per la prima volta si
avvia verso la grande sala da pranzo sente un rumore, un rumore
orribile, mai sentito prima. “E’ una giovane che tossisce”, lo
informa di nuovo il cugino... “ne ha per poco…”. Tosse, un
colpo dio tosse, ma una tosse mostruosa, un rumore quasi osceno che
rivela di colpo la vera natura del posto. I ricoverati rimuovono il
pensiero della morte, non parlano delle persone che non entrano più
nella elegante sala da pranzo, discutono di sciocchezze, si offendono
se qualcuno accenna al… brutto. Ma la morte è li, onnipresente, il
suo puzzo si sente.. e lo sente anche il lettore.
La
permanenza di Castorp in sanatorio durerà, lo si è detto, ben sette
anni durante i quali il ggiovane perde di fatto ogni contatto col mondo “della
pianura”. A riportarlo in “pianura” sarà il dramma della
grande guerra. Castorp parte per andare a servire il suo paese,
abbandona il tempo lento del sanatorio per immergersi nel turbinio
bellico che lo travolge. Il romanzo non dice se il giovane sopravvive
o meno al grande conflitto, questo tuttavia pone fine ad un’epoca,
ed un’altra ne apre. Una epoca nuova e sanguinosa, che si
concluderà con una nuova ed ancora più colossale mattanza, e che
sembra confermare le previsioni più fosche di Leo Naphta. Un’epoca
che siamo riusciti a superare, ma che, vista la situazione attuale
del mondo, potrebbe ripresentarsi. Perché sempre e da sempre la
civiltà è minacciata dal riemergere della barbarie.
La
montagna incantata è in definitiva un grande romanzo, un autentico,
assoluto capolavoro. Un libro difficile, di certo non è possibile
leggerlo a letto o in treno, ma proprio per questo regala al lettore
momenti di profondo piacere intellettuale. La sua difficoltà è
quella dei sentieri di montagna: sono faticosi ma quante
soddisfazioni regalano a chi li affronta!
Ovviamente apprezzare
la grandezza di un romanzo, specie di un romanzo filosofico come “la
montagna incantata”, non vuol dire condividere tutte le tesi
politiche e filosofiche che in esso sembrano esporre il pensiero
dell’autore. Nelle “considerazioni di un impolitico”
Mann espresse a suo tempo tesi che difficilmente possono essere
condivise da chi ama la democrazia occidentale. In seguito sottopose
a critica le idee esposte nel saggio, difese la repubblica di Weimar
contro gli attacchi del nazismo e nel 1933 abbandonò la Germania.
Non rinnegò però mai del tutto le tesi esposte nelle
“considerazioni” e di queste ci sono tracce nella
“montagna incantata”.
Ma apprezzare un capolavoro non
vuol dire, val la pena di ripeterlo, essere d’accordo con tutta la
filosofia di cui è impregnato. Personalmente non concordo affatto,
per fare solo un esempio, con l’antioccidentalismo di un
Dostoevskij, questo non mi ha spinge a cercare di negare o sminuire
il valore di un capolavoro come “i fratelli karamazov”.
Una
cosa è certa: “la montagna incantata” è un libro da
leggere e meditare. In un momento in cui sugli scaffali delle
librerie è esposta molta spazzatura ed in cui nanerottoli letterari
vengono presentati come giganti la lettura di un grande capolavoro
non solo eleva lo spirito, ma costituisce un ottimo antidoto contro
la superficiale volgarità che ci opprime. Non è poco, direi.
mercoledì 11 ottobre 2023
DIRITTI