mercoledì 17 aprile 2024

IL RACCONTO DI PEUW, BAMBINA CAMBOGIANA

 

Lo ho letto una prima volta tanti, tanti, anni fa. Ero giovane davvero allora, non “diversamente giovane” come oggi, e la sua lettura diede il colpo definitivo, emotivo e non solo intellettuale, al mio sempre più vacillante marxismo. Poi, anni dopo, non so come, forse durante un trasloco, ho perso quel libro: “Il racconto di Peuw, bambina cambogiana”. Lo ho cercato in tutte le librerie, poi in rete, nulla da fare, era introvabile. Nelle italiche librerie si possono facilmente trovare i capolavori di Fabio Volo e Michela Murgia ma il diario di Peuw, quello no, quello è introvabile.
Lo ho alla fine scovato in rete, di seconda mano, in una sconosciuta libreria, di Torino mi pare. Lo ho immediatamente comprato e lo ho riletto, dopo tanti, tanti anni. E mi ha fatto ancora più impressione.
Nell’Aprile del 1975 i Kmer rossi, i comunisti cambogiani guidati da Pol Pot, entrano vittoriosi a Phnom Penh ed inizia per il popolo cambogiano una autentica traversata dell’inferno.
Le città vengono svuotate, dall’oggi al domani milioni di esseri umani sono mandati nelle campagne a compiere lavori mai fatti in precedenza, praticamente privi di qualsiasi attrezzatura. Peuw una bambina di 12 anni, è fra questi. Il suo racconto ci descrive il suo peregrinare nell’inferno. Le terrificanti marce verso i luoghi di destinazione, il lavoro massacrante cui è sottoposta, in condizioni proibitive. Immersa fino alla cintola in stagni o risaie, spesso infestati da serpenti, sempre da sciami di insetti che non danno tregua. Priva di attrezzi o munita di attrezzi che richiamano l’età della pietra lavora per 12 o 16 ore al giorno. I nuovi schiavi alloggiano in capanne che loro stessi devono costruirsi, nelle ore di “riposo”, dopo il lavoro dedicato alla “Kampucea democratica”, così Pol Pot denomina la nuova Cambogia. Tutto è vietato, anche cercare un po’ di cibo, mangiare qualche frutto che si trova nella foresta. Tutto deve essere collettivo, tutto va consegnato ai “mekong”, i sorveglianti dei campi di lavoro forzato che provvedono poi alla giusta distribuzione delle vivande. Quando le cose vanno bene i nuovi schiavi ricevono un mestolo di brodaglia per “pranzo” e un altro per “cena”, tutto qui. La fame è una delle protagoniste del libro: una fame feroce, spietata, che distrugge i corpi ed insieme le anime, una fame che fa risorgere su larga scala il cannibalismo.
Ed un altro protagonista sono le malattie. Il colera stronca la vita di una quantità enorme di esseri umani, Peuw ne è colpita e si salva letteralmente per miracolo. Molto spesso continua a lavorare anche afflitta da febbre alta, squassata dalla diarrea. Lo fa per una ragione molto precisa: i “mekong” concedono generosamente ai malati di non lavorare… solo… solo che da buoni seguaci del comunismo staliniano-leniniano mettono in atto una delle parole d’ordine di Vladimir Lenin: “chi non lavora non mangia”. E i malati che non lavorano NON mangiano, anche il mestolo di riso in brodaglia è loro negato, non mangiano e muoiono di fame, fra i loro escrementi. Una donna torna al lavoro tre giorni dopo aver partorito, e non ad un comodo lavoro d’ufficio, di fronte ad un PC, no, nelle risaie, semi immersa nell’acqua con insetti velenosi nelle vicinanze…
Tanto lavoro per cosa? Per costruire colossali opere pubbliche? Edificare un paese migliore? Nemmeno per sogno. I lavori cui sono sottoposti i nuovi schiavi sono del tutto inutili. Peuw racconta della costruzione di una “strada”. Il lavoro consisteva nel togliere, con le mani, il fango che copriva una gran pianura, nello scavare sino a che il terreno non sembra un po’ più compatto accatastando il fango ai lati della striscia di terra che in questo modo si riusciva a formare. Quella striscia di terra era la “strada”. Bastava un po’ di pioggia ovviamente per distruggerla. A questo serviva il lavoro schiavo cui erano costretti milioni di cambogiani.
In quattro anni, dal 1975 al 1979 sono morte in Cambogia dai due ai tre milioni di persone, su una popolazione che non raggiungeva i 12 milioni di esseri umani: da oltre un sesto ad oltre un quarto dell’intera popolazione di quello sventurato paese. Applicate ad un paese come l’Italia quelle percentuali si tradurrebbero in 10 o 15 milioni di morti, probabilmente di più. Queste le dimensioni terrificanti di una delle esperienze più mostruose della storia.

A prima vista la tragedia cambogiana sembra, più di altre, inspiegabile, frutto di pura follia. Ma sarebbe un grave errore ridurre tutto a follia; certo, l’esperienza cambogiana è folle, ma dietro a quella follia c’è qualcosa di molto reale, che ha un nome preciso, si chiama ideologia.
I Kmer rossi sono comunisti cambogiani, i combattenti sono contadini semi analfabeti, i loro leader però si sono formati in occidente, Pol Pot studiò per tre anni a Parigi e lì, nella capitale francese, si avvicinò al marxismo leninismo. E lo mise in pratica quando i suoi Kmer riuscirono ad impadronirsi del potere.
Lo mise in pratica correttamente? Beh… il massacro del popolo cambogiano è stato preceduto da altri massacri di immani dimensioni messi in atto da leader comunisti, basti pensare all’Holodomor ucraino o al gran balzo in avanti in Cina. Anche qui milioni e milioni di morti, anche qui ricomparsa del cannibalismo. Tengo a sottolineare che in questa sede non mi occupo di altri mostruosi genocidi, tristemente primo fra tutti quello del popolo ebraico messo in atto dai nazisti.
La mostruosità cambogiana non si riduce a semplice follia: si tratta di una follia ideologica. Pol Pot cerca di mettere in atto integralmente l’utopia del marxismo leninismo e di risolvere, mettendola in atto, una delle principali contraddizioni che in essa si annidiano: quella relativa alla continuità del corso storico.
Esiste una continuità nel corso della storia, qualcosa di positivo che passa, pur nei salti e nelle discontinuità, da una generazione all’altra? Un legame che ci permette di riconoscerci in una tradizione, un divenire che lega i tempi che viviamo a quelli di chi ci ha preceduto? Oppure questa continuità non esiste e la rivoluzione che Marx preconizza segna una discontinuità assoluta, una rottura radicale con tutta la tradizione storica, col conseguente rifiuto di tutto ciò che gli esseri umani hanno costruito nel corso dei secoli e dei millenni?
Marx capisce l’importanza del problema: negare ogni continuità nel corso storico significa fondare sul nulla la rivoluzione, recidere le radici che legano in qualche modo la rottura rivoluzionaria con la storia precedente, col risultato di cadere in quello che Marx stesso chiamava sprezzantemente l’utopismo rivoluzionario: la rivoluzione cessa di essere un prodotto della storia per diventare il risultato di una mera azione volontarista.
Sappiamo come Marx cerca di risolvere il problema: esiste per lui una continuità nel corso storico e questa è rappresentata dallo sviluppo delle forze produttive sociali. La scienza e la tecnica sono oggi usate in maniera capitalistica, servono a sfruttare la classe operaia, ma domani, in una organizzazione sociale nuova, potranno avere un uso positivo e liberatorio. Lo sviluppo delle forze produttive lega in qualche modo la società perfetta di domani alla alienante società di oggi. La rivoluzione cessa di essere il risultato di un volontarismo privo di radici e diventa la tappa finale di un corso storico predeterminato.
La soluzione però è più apparente che reale. Marx infatti riduce drasticamente l’uomo alla sua componente storica e socio economica. E riduce a sua volta questa, integralmente, ad alienazione, oppressione e sfruttamento. Se si aggiunge che il materialismo storico marxiano fa delle attività spirituali dell’uomo una sovrastruttura, riflesso della struttura socio economica, il tentativo di rinvenire una qualche continuità nel corso storico diventa disperato. Se tutto è società, se tutto dipende dalla dimensione economico sociale e se questa è integralmente basata su alienazione e sfruttamento quale continuità sarà mai possibile instaurare fra la società perfetta, il paradiso di domani e l’inferno di oggi?
La tensione presente nel marxismo fra la accettazione di una qualche continuità nel corso storico, affidata allo sviluppo tecnico scientifico, e la accentuazione esasperata della radicale discontinuità dello stesso, porterà ad una frattura alla lunga insanabile nel movimento operaio fra una componente gradualista e una rivoluzionaria. La prima, al termine di un travagliato percorso intellettuale metterà Marx in soffitta, la seconda sostituirà il pesante scientismo presente nel marxismo con un volontarismo esasperato e criminale.

I teorici della scuola di Francoforte, fra i principali ispiratori del movimento del ‘68, metteranno però in evidenza come un po’ tutte le componenti del marxismo sottovalutino in qualche modo la radicalità della rottura rivoluzionaria. Anche i rivoluzionari infatti conferiscono valore oggettivo, quindi sostanzialmente extra sociale, alla scienza e alla tecnica. Lenin definisce il socialismo come i soviet più l’elettrificazione e in “materialismo ed empiriocriticismo” difende una concezione della conoscenza certamente ingenua e dogmatica ma che non nega il valore conoscitivo della scienza, al contrario. Per i teorici della scuola di Francoforte è invece profondamente sbagliato parlare di “uso capitalistico della scienza e della tecnologia”, come se esse potessero essere usate in modo diverso. E’ la stessa struttura quantitativa della scienza ad essere funzionale ad un sistema basato sullo scambio di equivalenti, quindi sulla universale quantificazione di tutto. Non esiste una tecnica neutrale che possa essere utilizzata a fini diversi da diverse classi sociali: la tecnica è espressione coerente cdi un sistema basato sulla oppressione di classe, come lo sono l’arte, la filosofia, la letteratura. Nulla è, sotto nessun punto di vista “neutrale”. Una rivoluzione che accetti in qualche modo una qualsiasi forma di continuità storica è inesorabilmente destinata a degenerare. La vera colpa di Stalin non è stata quella di aver distrutto ogni forma di libertà civile e politica, no, il suo vero “errore” sarebbe stato quello di avvalersi di metodi produttivi sostanzialmente “capitalisti” (a dire il vero nessuna esperienza di accumulazione capitalistica ha portato al risorgere del cannibalismo, ma questi per molti intellettuali raffinati sono dettagli).
Il movimento del ‘68 farà proprio, esasperandone al massimo gli aspetti più deteriori, questo minestrone di utopismo e mentalità antiscientifica. La rivoluzione diventa “contestazione globale” e comprende tutti, ma proprio tutti gli aspetti della vita umana. Dal lavoro al linguaggio, dai sentimenti alle passioni. Ragione, sentimenti, pulsioni sessuali, gusto estetico tutto deve cambiare, ruotare di 180 gradi. Nulla lega l’uomo nuovo, meglio sarebbe dire l’angelo, comunista al vecchio, deforme uomo della società capitalista. Ogni radice va spezzata. Non a caso i “sessantottini” vedranno il loro ispiratore nel Mao della “rivoluzione culturale”, un tragico, mostruoso episodio di nichilismo totalitario che ha gettato nel caos il paese più popoloso del mondo.

Ovviamente gli intellettuali ed i contestatori del ‘68 erano poco coerenti. Nemici del benessere avevano spesso conti in banca di tutto rispetto, negavano ogni valore a scienza e tecnologia ma viaggiavano in aereo e se malati facevano ben volentieri uso della aborrita medicina borghese. Non così i Kmer rossi di Pol Pot. A differenza dei raffinati frequentatori dei salotti buoni della sinistra occidentale i loro leader presero sul serio i filosofemi dei vari Adorno e Marcuse e li misero in pratica, senza riguardo alcuno, per nessuno.
Le città sono covo di corruzione, i Kmer svuotarono le città. La famiglia è una istituzione borghese e repressiva, i Kmer separarono le mogli dai mariti, i genitori dai figli. La cultura, l’arte, la scienza servono a perpetuare lo sfruttamento e l’oppressione di classe, i Kmer fucilarono gli “intellettuali”, cioè che aveva frequentato anche solo le scuole elementari; i loro capi erano ovviamente esclusi, la loro, non si sa bene perché, era una cultura “proletaria”. La religione è alienante, i kmer distrussero magnifici templi e pagode, e fucilarono chi osava pregare. Il linguaggio è classista, i Kmer imposero a tutti un nuovo linguaggio “non classista”. La tecnologia è strumento del dominio di classe, i Kmer obbligarono milioni di esseri umani a lavorare come schiavi praticamente privi di strumenti. L’individualismo è il male assoluto, i kmer collettivizzarono tutto, comprese pentole, piatti e scodelle e obbligarono tutti a vestire nello stesso modo, in orribili camicioni e pantaloni neri. La frattura fra vecchio e nuovo è totale, radicale, insanabile, i Kmer vollero ripartire da zero, senza sconti per nessuno.
Nell’esperienza cambogiana l’utopia comunista si rivela per quello che è e non può non essere: una utopia assassina.
La natura umana e la società possono essere gradualmente modificate ma non rivoltate di 180 gradi, il nuovo non può che innestarsi sul vecchio, nessuna innovazione può partire dalla negazione totale di ciò che la precede. Ogni individuo ama se stesso ed ha la tendenza a godere privatamente di un certo numero di beni; è a partire da questo che ognuno di noi può amare e rispettare gli altri. Negare questo carattere fondamentale della natura umana, annegarlo in un collettivismo abbruttente significa distruggere l’uomo.
Ripartire da zero è impossibile, meglio, è possibile solo se milioni di esseri umani, la società tutta, sono sottoposti a mostruose forme di violenza, solo se un pugno di fanatici, armati sino ai denti e pervasi da una ideologia nichilista, dichiarano guerra alla società, alla società nel suo complesso ed impongono a questa la loro volontà spietata.
Il comunismo reale, cioè l’unico possibile, è stato precisamente questo: una lunga, spietata guerra del partito al potere contro la società. Contro la borghesia, gli intellettuali, gli strati intermedi, contro i contadini, massacrati a milioni da Stalin e Mao, contro gli operai che nella propaganda di regime avrebbero dovuto essere i veri beneficiari del cambiamento rivoluzionario e si trovarono a dover subire forme di sfruttamento inimaginabili anche nel peggiore dei sistemi capitalistici.
In Cambogia questa guerra del partito contro la società assunse le forme più mostruose, i Kmer rossi furono coloro che più di ogni altro portarono la loro ideologia nichilista alle sue tragicamente coerenti conseguenze.
Furono coerenti Pol Pot e i suoi kmer, fecero ciò che molti raffinati intellettuali occidentali, molti cattivi maestri, si limitarono a teorizzare evitando attentamente, nelle loro teorizzazioni, di trarre, anche anche solo a livello teorico, le conseguenze di quanto dicevano.
Se la tecnologia non ha nulla di neutrale, è solo espressione del dominio di classe, perché viaggiare in auto invece che a piedi? Se la medicina serve solo alle case farmaceutiche perché assumere farmaci? Se la famiglia è solo una istituzione repressiva perché non separare i figli dai genitori? I Kmer rossi misero spietatamente in pratica i filosofemi di tanti cattivi maestri, ebbero il tragico, criminale coraggio della coerenza, quello che, per venire all’oggi, manca agli attuali riformatori politicamernte corretti del linguaggio ed ai teorici della cancel culture.
Per questo è importante sapere cosa ha significato per milioni di esseri umani la loro politica criminale, per questo sarebbe importante che tutti leggessero un libro come “il racconto di Pew bambina cambogiana”. Purtroppo questo libro prezioso è oggi praticamente introvabile.
Chissà, forse non si tratta di una caso.

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