Lo ho letto una prima volta tanti, tanti, anni fa. Ero giovane
davvero allora, non “diversamente giovane” come oggi, e la sua
lettura diede il colpo definitivo, emotivo e non solo intellettuale,
al mio sempre più vacillante marxismo. Poi, anni dopo, non so come,
forse durante un trasloco, ho perso quel libro: “Il racconto di
Peuw, bambina cambogiana”. Lo ho cercato in tutte le librerie, poi
in rete, nulla da fare, era introvabile. Nelle italiche librerie si
possono facilmente trovare i capolavori di Fabio Volo e Michela
Murgia ma il diario di Peuw, quello no, quello è introvabile.
Lo
ho alla fine scovato in rete, di seconda mano, in una sconosciuta
libreria, di Torino mi pare. Lo ho immediatamente comprato e lo ho
riletto, dopo tanti, tanti anni. E mi ha fatto ancora più
impressione.
Nell’Aprile del 1975 i Kmer rossi, i comunisti
cambogiani guidati da Pol Pot, entrano vittoriosi a Phnom Penh ed
inizia per il popolo cambogiano una autentica traversata
dell’inferno.
Le città vengono svuotate, dall’oggi al
domani milioni di esseri umani sono mandati nelle campagne a compiere
lavori mai fatti in precedenza, praticamente privi di qualsiasi
attrezzatura. Peuw una bambina di 12 anni, è fra questi. Il suo
racconto ci descrive il suo peregrinare nell’inferno. Le
terrificanti marce verso i luoghi di destinazione, il lavoro
massacrante cui è sottoposta, in condizioni proibitive. Immersa fino
alla cintola in stagni o risaie, spesso infestati da serpenti, sempre
da sciami di insetti che non danno tregua. Priva di attrezzi o munita
di attrezzi che richiamano l’età della pietra lavora per 12 o 16
ore al giorno. I nuovi schiavi alloggiano in capanne che loro stessi
devono costruirsi, nelle ore di “riposo”, dopo il lavoro dedicato
alla “Kampucea democratica”, così Pol Pot denomina la nuova
Cambogia. Tutto è vietato, anche cercare un po’ di cibo, mangiare
qualche frutto che si trova nella foresta. Tutto deve essere
collettivo, tutto va consegnato ai “mekong”, i sorveglianti dei
campi di lavoro forzato che provvedono poi alla giusta distribuzione
delle vivande. Quando le cose vanno bene i nuovi schiavi ricevono un
mestolo di brodaglia per “pranzo” e un altro per “cena”,
tutto qui. La fame è una delle protagoniste del libro: una fame
feroce, spietata, che distrugge i corpi ed insieme le anime, una fame
che fa risorgere su larga scala il cannibalismo.
Ed un altro
protagonista sono le malattie. Il colera stronca la vita di una
quantità enorme di esseri umani, Peuw ne è colpita e si salva
letteralmente per miracolo. Molto spesso continua a lavorare anche
afflitta da febbre alta, squassata dalla diarrea. Lo fa per una
ragione molto precisa: i “mekong” concedono generosamente ai
malati di non lavorare… solo… solo che da buoni seguaci del
comunismo staliniano-leniniano mettono in atto una delle parole
d’ordine di Vladimir Lenin: “chi non lavora non mangia”. E i
malati che non lavorano NON mangiano, anche il mestolo di riso in
brodaglia è loro negato, non mangiano e muoiono di fame, fra i loro
escrementi. Una donna torna al lavoro tre giorni dopo aver partorito,
e non ad un comodo lavoro d’ufficio, di fronte ad un PC, no, nelle
risaie, semi immersa nell’acqua con insetti velenosi nelle
vicinanze…
Tanto lavoro per cosa? Per costruire colossali
opere pubbliche? Edificare un paese migliore? Nemmeno per sogno. I
lavori cui sono sottoposti i nuovi schiavi sono del tutto inutili.
Peuw racconta della costruzione di una “strada”. Il lavoro
consisteva nel togliere, con le mani, il fango che copriva una gran
pianura, nello scavare sino a che il terreno non sembra un po’ più
compatto accatastando il fango ai lati della striscia di terra che in
questo modo si riusciva a formare. Quella striscia di terra era la
“strada”. Bastava un po’ di pioggia ovviamente per
distruggerla. A questo serviva il lavoro schiavo cui erano costretti
milioni di cambogiani.
In quattro anni, dal 1975 al 1979 sono
morte in Cambogia dai due ai tre milioni di persone, su una
popolazione che non raggiungeva i 12 milioni di esseri umani: da
oltre un sesto ad oltre un quarto dell’intera popolazione di quello
sventurato paese. Applicate ad un paese come l’Italia quelle
percentuali si tradurrebbero in 10 o 15 milioni di morti,
probabilmente di più. Queste le dimensioni terrificanti di una
delle esperienze più mostruose della storia.
A prima
vista la tragedia cambogiana sembra, più di altre, inspiegabile,
frutto di pura follia. Ma sarebbe un grave errore ridurre tutto a
follia; certo, l’esperienza cambogiana è folle, ma dietro a quella
follia c’è qualcosa di molto reale, che ha un nome preciso, si
chiama ideologia.
I Kmer rossi sono comunisti cambogiani, i
combattenti sono contadini semi analfabeti, i loro leader però si
sono formati in occidente, Pol Pot studiò per tre anni a Parigi e
lì, nella capitale francese, si avvicinò al marxismo leninismo. E
lo mise in pratica quando i suoi Kmer riuscirono ad impadronirsi del
potere.
Lo mise in pratica correttamente? Beh… il massacro del
popolo cambogiano è stato preceduto da altri massacri di immani
dimensioni messi in atto da leader comunisti, basti pensare
all’Holodomor ucraino o al gran balzo in avanti in Cina. Anche qui
milioni e milioni di morti, anche qui ricomparsa del cannibalismo.
Tengo a sottolineare che in questa sede non mi occupo di altri
mostruosi genocidi, tristemente primo fra tutti quello del popolo
ebraico messo in atto dai nazisti.
La mostruosità cambogiana
non si riduce a semplice follia: si tratta di una follia ideologica.
Pol Pot cerca di mettere in atto integralmente l’utopia del
marxismo leninismo e di risolvere, mettendola in atto, una delle
principali contraddizioni che in essa si annidiano: quella relativa
alla continuità del corso storico.
Esiste una continuità nel
corso della storia, qualcosa di positivo che passa, pur nei salti e
nelle discontinuità, da una generazione all’altra? Un legame che
ci permette di riconoscerci in una tradizione, un divenire che lega i
tempi che viviamo a quelli di chi ci ha preceduto? Oppure questa
continuità non esiste e la rivoluzione che Marx preconizza segna una
discontinuità assoluta, una rottura radicale con tutta la tradizione
storica, col conseguente rifiuto di tutto ciò che gli esseri umani
hanno costruito nel corso dei secoli e dei millenni?
Marx
capisce l’importanza del problema: negare ogni continuità nel
corso storico significa fondare sul nulla la rivoluzione, recidere le
radici che legano in qualche modo la rottura rivoluzionaria con la
storia precedente, col risultato di cadere in quello che Marx stesso
chiamava sprezzantemente l’utopismo rivoluzionario: la rivoluzione
cessa di essere un prodotto della storia per diventare il risultato
di una mera azione volontarista.
Sappiamo come Marx cerca di
risolvere il problema: esiste per lui una continuità nel corso
storico e questa è rappresentata dallo sviluppo delle forze
produttive sociali. La scienza e la tecnica sono oggi usate in
maniera capitalistica, servono a sfruttare la classe operaia, ma
domani, in una organizzazione sociale nuova, potranno avere un uso
positivo e liberatorio. Lo sviluppo delle forze produttive lega in
qualche modo la società perfetta di domani alla alienante società
di oggi. La rivoluzione cessa di essere il risultato di un
volontarismo privo di radici e diventa la tappa finale di un corso
storico predeterminato.
La soluzione però è più apparente che
reale. Marx infatti riduce drasticamente l’uomo alla sua componente
storica e socio economica. E riduce a sua volta questa,
integralmente, ad alienazione, oppressione e sfruttamento. Se si
aggiunge che il materialismo storico marxiano fa delle attività
spirituali dell’uomo una sovrastruttura, riflesso della struttura
socio economica, il tentativo di rinvenire una qualche continuità
nel corso storico diventa disperato. Se tutto è società, se tutto
dipende dalla dimensione economico sociale e se questa è
integralmente basata su alienazione e sfruttamento quale continuità
sarà mai possibile instaurare fra la società perfetta, il paradiso
di domani e l’inferno di oggi?
La tensione presente nel
marxismo fra la accettazione di una qualche continuità nel corso
storico, affidata allo sviluppo tecnico scientifico, e la
accentuazione esasperata della radicale discontinuità dello stesso,
porterà ad una frattura alla lunga insanabile nel movimento operaio
fra una componente gradualista e una rivoluzionaria. La prima, al
termine di un travagliato percorso intellettuale metterà Marx in
soffitta, la seconda sostituirà il pesante scientismo presente nel
marxismo con un volontarismo esasperato e criminale.
I
teorici della scuola di Francoforte, fra i principali ispiratori del
movimento del ‘68, metteranno però in evidenza come un po’ tutte
le componenti del marxismo sottovalutino in qualche modo la
radicalità della rottura rivoluzionaria. Anche i rivoluzionari
infatti conferiscono valore oggettivo, quindi sostanzialmente extra
sociale, alla scienza e alla tecnica. Lenin definisce il socialismo
come i soviet più l’elettrificazione e in “materialismo ed
empiriocriticismo” difende una concezione della conoscenza
certamente ingenua e dogmatica ma che non nega il valore conoscitivo
della scienza, al contrario. Per i teorici della scuola di
Francoforte è invece profondamente sbagliato parlare di “uso
capitalistico della scienza e della tecnologia”, come se esse
potessero essere usate in modo diverso. E’ la stessa struttura
quantitativa della scienza ad essere funzionale ad un sistema basato
sullo scambio di equivalenti, quindi sulla universale quantificazione
di tutto. Non esiste una tecnica neutrale che possa essere utilizzata
a fini diversi da diverse classi sociali: la tecnica è espressione
coerente cdi un sistema basato sulla oppressione di classe, come lo
sono l’arte, la filosofia, la letteratura. Nulla è, sotto nessun
punto di vista “neutrale”. Una rivoluzione che accetti in qualche
modo una qualsiasi forma di continuità storica è inesorabilmente
destinata a degenerare. La vera colpa di Stalin non è stata quella
di aver distrutto ogni forma di libertà civile e politica, no, il
suo vero “errore” sarebbe stato quello di avvalersi di metodi
produttivi sostanzialmente “capitalisti” (a dire il vero nessuna
esperienza di accumulazione capitalistica ha portato al risorgere del
cannibalismo, ma questi per molti intellettuali raffinati sono
dettagli).
Il movimento del ‘68 farà proprio, esasperandone
al massimo gli aspetti più deteriori, questo minestrone di utopismo
e mentalità antiscientifica. La rivoluzione diventa “contestazione
globale” e comprende tutti, ma proprio tutti gli aspetti della vita
umana. Dal lavoro al linguaggio, dai sentimenti alle passioni.
Ragione, sentimenti, pulsioni sessuali, gusto estetico tutto deve
cambiare, ruotare di 180 gradi. Nulla lega l’uomo nuovo, meglio
sarebbe dire l’angelo, comunista al vecchio, deforme uomo della
società capitalista. Ogni radice va spezzata. Non a caso i
“sessantottini” vedranno il loro ispiratore nel Mao della
“rivoluzione culturale”, un tragico, mostruoso episodio di
nichilismo totalitario che ha gettato nel caos il paese più popoloso
del mondo.
Ovviamente gli intellettuali ed i contestatori
del ‘68 erano poco coerenti. Nemici del benessere avevano spesso
conti in banca di tutto rispetto, negavano ogni valore a scienza e
tecnologia ma viaggiavano in aereo e se malati facevano ben
volentieri uso della aborrita medicina borghese. Non così i Kmer
rossi di Pol Pot. A differenza dei raffinati frequentatori dei
salotti buoni della sinistra occidentale i loro leader presero sul
serio i filosofemi dei vari Adorno e Marcuse e li misero in pratica,
senza riguardo alcuno, per nessuno.
Le città sono covo di
corruzione, i Kmer svuotarono le città. La famiglia è una
istituzione borghese e repressiva, i Kmer separarono le mogli dai
mariti, i genitori dai figli. La cultura, l’arte, la scienza
servono a perpetuare lo sfruttamento e l’oppressione di classe, i
Kmer fucilarono gli “intellettuali”, cioè che aveva frequentato
anche solo le scuole elementari; i loro capi erano ovviamente
esclusi, la loro, non si sa bene perché, era una cultura
“proletaria”. La religione è alienante, i kmer distrussero
magnifici templi e pagode, e fucilarono chi osava pregare. Il
linguaggio è classista, i Kmer imposero a tutti un nuovo linguaggio
“non classista”. La tecnologia è strumento del dominio di
classe, i Kmer obbligarono milioni di esseri umani a lavorare come
schiavi praticamente privi di strumenti. L’individualismo è il
male assoluto, i kmer collettivizzarono tutto, comprese pentole,
piatti e scodelle e obbligarono tutti a vestire nello stesso modo,
in orribili camicioni e pantaloni neri. La frattura fra vecchio e
nuovo è totale, radicale, insanabile, i Kmer vollero ripartire da
zero, senza sconti per nessuno.
Nell’esperienza cambogiana
l’utopia comunista si rivela per quello che è e non può non
essere: una utopia assassina.
La natura umana e la società
possono essere gradualmente modificate ma non rivoltate di 180 gradi,
il nuovo non può che innestarsi sul vecchio, nessuna innovazione può
partire dalla negazione totale di ciò che la precede. Ogni
individuo ama se stesso ed ha la tendenza a godere privatamente di un
certo numero di beni; è a partire da questo che ognuno di noi può
amare e rispettare gli altri. Negare questo carattere fondamentale
della natura umana, annegarlo in un collettivismo abbruttente
significa distruggere l’uomo.
Ripartire da zero è
impossibile, meglio, è possibile solo se milioni di esseri umani, la
società tutta, sono sottoposti a mostruose forme di violenza, solo
se un pugno di fanatici, armati sino ai denti e pervasi da una
ideologia nichilista, dichiarano guerra alla società, alla società
nel suo complesso ed impongono a questa la loro volontà spietata.
Il comunismo reale, cioè l’unico possibile, è stato
precisamente questo: una lunga, spietata guerra del partito al potere
contro la società. Contro la borghesia, gli intellettuali, gli
strati intermedi, contro i contadini, massacrati a milioni da Stalin
e Mao, contro gli operai che nella propaganda di regime avrebbero
dovuto essere i veri beneficiari del cambiamento rivoluzionario e si
trovarono a dover subire forme di sfruttamento inimaginabili anche
nel peggiore dei sistemi capitalistici.
In Cambogia questa
guerra del partito contro la società assunse le forme più
mostruose, i Kmer rossi furono coloro che più di ogni altro
portarono la loro ideologia nichilista alle sue tragicamente coerenti
conseguenze.
Furono coerenti Pol Pot e i suoi kmer, fecero ciò
che molti raffinati intellettuali occidentali, molti cattivi maestri,
si limitarono a teorizzare evitando attentamente, nelle loro
teorizzazioni, di trarre, anche anche solo a livello teorico, le
conseguenze di quanto dicevano.
Se la tecnologia non ha nulla di
neutrale, è solo espressione del dominio di classe, perché
viaggiare in auto invece che a piedi? Se la medicina serve solo alle
case farmaceutiche perché assumere farmaci? Se la famiglia è solo
una istituzione repressiva perché non separare i figli dai genitori?
I Kmer rossi misero spietatamente in pratica i filosofemi di tanti
cattivi maestri, ebbero il tragico, criminale coraggio della
coerenza, quello che, per venire all’oggi, manca agli attuali
riformatori politicamernte corretti del linguaggio ed ai teorici
della cancel culture.
Per questo è importante sapere cosa ha
significato per milioni di esseri umani la loro politica criminale,
per questo sarebbe importante che tutti leggessero un libro come “il
racconto di Pew bambina cambogiana”. Purtroppo questo libro
prezioso è oggi praticamente introvabile.
Chissà, forse non si
tratta di una caso.
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