Negli
ultimi decenni si è sempre più diffusa a livello di massa l’immagine di
una natura in cui ogni contrasto, ogni disarmonia sono definitivamente
banditi. Un amore generalizzato unisce tutti gli esseri viventi e questi
si integrano armoniosamente con il mondo inorganico. Tutto ciò che,
volenti o nolenti, non quadra con questa visione da cartone animato del
mondo naturale viene giustificato con argomentazioni tanto sofistiche
quanto affascinanti. Il leone uccide lo gnu, è vero, e lo uccide anche
in maniera piuttosto terrificante: una volta ferito ed impossibilitato a
difendersi o a fuggire il grosso erbivoro viene letteralmente divorato
vivo dal branco di felini. In tutto questo sembra esserci poca armonia, è
vero. Ma i teorici della dolcezza di tutto ciò che è “naturale” non
demordono. E’ vero che il leone divora lo gnu, e lo squalo la foca, e
così via, ma così facendo i predatori contribuiscono al superiore
equilibrio del tutto. Uccidendo il singolo gnu il leone contribuisce
alla salvaguardia della specie degli gnu e lo stesso si può dire per lo
squalo, la tigre, il pitone e così via. E' fin troppo evidente il
profondo irrealismo di una simile concezione. L’idea secondo cui la
lotta a morte fra animali mira alla conservazione di tutte le specie è
in totale antitesi con le conclusioni di Darwin, cui molti ambientalisti
si rifanno, e contrasta con tutto ciò che ci insegna la storia
naturale. Nel corso dei secoli moltissime specie animali si sono
estinte, in natura sopravvivono i più adatti, siano essi
specie o singoli, gli altri muoiono, o si estinguono. E nulla ci assicura che chi soppravvive sia "meglio" di chi scompare, nè che una specie si estingua solo quando altre, "migliori" sono pronte a sostituirla. La cosa non ci
piace, e alllora?
Ma, anche prescindendo dalle considerazione appena fatte, anche ammettendo che in natura la morte del singolo garantisca la
sopravvivenza della specie resta il fatto che in questo modo la
natura è caratterizzata da una frattura profondissima fra specie ed
individui. Un sistema in cui la vita del gruppo può essere
assicurata solo dalla morte di alcuni singoli non è affatto armonico,
non è per niente finalizzato al bene di tutti. E’ per definizione un sistema
lacerato, un sistema che si basa sulla sofferenza e sulla morte di
alcuni come condizione per l’incerta sopravvivenza degli altri. Non è
assolutamente mia intenzione giudicare moralmente la natura, questa
sarebbe la cosa più sciocca che si potrebbe fare. E’ assurdo giudicare
moralmente il comportamento di tigri o squali, mucche o gatti. La natura non umana si colloca in una dimensione in cui concetti di bene e di male non hanno rilevanza alcuna. Ciò che si intende criticare non è la natura me le teorie sulla natura
che vengono elaborate da alcuni suoi superficiali adoratori. Questi
sono colti con tutta probabilità da scrupoli morali vedendo quanta
violenza esista in natura ed elaborano allora teorie che hanno fin
troppo chiaramente il fine di “giustificare” questa violenza. Il leone
non è cattivo, sembrano dirci, la natura non è cattiva... sotto
l’apparente male essa prepara il bene, attraverso la morte si appresta a
far trionfare la vita. E’ vero, la natura non è cattiva e non è cattivo il leone. Ma lo splendido predatore non può essere definito “cattivo” non perché
uccidendo il singolo favorisce la vita della specie, non può essere
definito “cattivo” per lo stesso motivo per cui non si possono definire
“cattivi” una valanga o un terremoto. I fenomeni naturali, e quegli
esseri naturali incapaci di capire i concetti di bene e di male, non
sono né buoni né cattivi, semplicemente sono.
L’atteggiamento verso gli animali che si sta diffondendo in occidente contiene numerose contraddizioni. Molte persone condividono le teorie sulla armonia della natura, sono convinte che la morte del singolo animale garantisca la sopravvivenza della specie, che dal male nasca il bene. Eppure queste stesse persone mostrano molto spesso un incredibile affetto verso singoli animali, fortemente individualizzati. In queste persone l’amore per la natura intesa come severa ma buona madre che persegue il bene tramite il male si combina in maniera contraddittoria con un amore di tipo umano verso il singolo, il singolo cane, il singolo gatto. E’ per far dormire comodamente quel gatto che si compra un comodo cuscino, è per fargli mangiare le leccornie che preferisce che lo si nutre con carne ben cucinata o pesce fresco, è per difenderlo da parassiti (che hanno il loro ruolo nell’equilibrio di madre natura) che gli si somministrano medicine. Insomma, il nostro micio vale come singolo micio, non come puro numero senza importanza, mero strumento per la sopravvivenza della specie dei mici. Queste contraddizioni non sono tuttavia troppo gravi. Si basano in fondo su un sentimento molto umano e senza dubbio positivo: l’affetto, quell’affetto che ognuno di noi prova non solo nei confronti dei suoi simili ma anche verso i nostri amici a quattro zampe. Purtroppo però le cose non si fermano qui. La maggior considerazioni in cui tutti tengono oggi gli animali, la giusta preoccupazione di mostrare benevolenza nei loro confronti e di evitar loro inutili sofferenze, si è trasformata ultimamente in qualcosa di radicalmente diverso: l’animale è stato sempre più umanizzato. Nel momento stesso in cui l’esaltazione per la natura porta molti a considerare l’uomo una mera componente dell’equilibrio naturale, la parte subordinata di qualche ecosistema, si elevano a rango umano gli animali. Gli stessi che adorano l’unità organica degli ecosistemi e considerano la natura come una provvida e severa madre che salvaguardia le specie sacrificando i singoli, guardano a cani e gatti, foche e squali come ad esseri dotati di dignità individuale, soggetti di diritto, enti morali che è dovere etico dell’uomo rispettare.
Per evitare equivoci e per non commettere banali errori è bene approfondire la questione. Gli animalisti indirizzano i loro strali polemici soprattutto contro un nemico: lo specismo. Di cosa si tratta? Ecco la definizione che ne da Wikipedia:
“Specismo è un termine coniato da Richard Ryder per descrivere la diffusa convinzione antropocentrica che gli esseri umani godano di uno status morale superiore - e debbano quindi godere di maggiori diritti - rispetto agli altri animali. L'intento di Ryder era quello di porre in evidenza le analogie fra lo specismo e il razzismo, dimostrando che le motivazioni filosofiche per condannare queste due posizioni sono analoghe.” (1). L’uomo non ha uno status etico diverso da quello degli altri animali, non merita più rispetto di quello che meritano un cane, un gatto o un topo. Chi teorizza il diverso status etico che spetterebbe ad un essere umano rispetto a quello che dovrebbe spettare ai topi è un razzista. Nulla di serio divide il razzismo di chi afferma la superiorità dei bianchi rispetto ai neri dal razzismo di chi teorizza la superiorità dell’uomo rispetto a topi, conigli o sardine:
“L'antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo.Come l'antirazzismo rifiuta la discriminazione arbitraria basata sulla diversità razziale umana, l'antispecismo respinge quella di specie e sostiene che la sola appartenenza biologica ad una specie diversa da quella umana non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro di un essere senziente.” (2)
Gli aderenti al movimento per la liberazione animale sono piuttosto coerenti. Non affermano di difendere gli animali perché questo risulterebbe utile per l’uomo. Orsi e squali vanno difesi non perché all’uomo piace vivere in un mondo popolato anche da orsi e squali; allo stesso modo gli esperimenti su animali vanno rifiutati non perché poco utili per la ricerca ma perché ledono i diritti degli animali e le diete a base di carne vanno respinte non perché poco salubri per l’uomo ma per la ragione ben più fondamentale che non è possibile cibarsi di un essere che è soggetto di diritto. David Oliver in un saggio diffuso in rete sui rapporti fra liberazione animale e protezione animale esprime molto bene questi concetti. Polemizzando contro i militanti della protezione animale Olivier va al fondo della questione: non si tratta di difendere gli animali per favorire l’uomo, li si deve liberare perché essi stessi sono degni di tutela morale e rispetto. “Anziché rimettere in discussione il principio dell'utilizzo di animali per un qualsiasi fine umano, la protezione animale insiste sull'«inutilità» degli esperimenti – inutilità per gli umani, s'intende.” (3) Olivier ha il grosso pregio di non barare. Non afferma che gli esperimenti su animali sono scientificamente infondati, dice chiaramente che quegli esperimenti sono comunque da vietare. Sperimentare nuovi medicinali su cavie umane sarebbe scientificamente produttivo ma è eticamente inaccettabile quindi va proibito. La stessa cosa può dirsi per gli esperimenti sui topi. E la critica non si ferma agli esperimenti su animali, mette in luce gli equivoci di fondo della protezione animale: la protezione animale è un po’ l’avvocato degli animali, afferma Olivier, ma “L'avvocato – il difensore – di un ladro deve poter difendere il suo cliente, cioè chiedere che non venga condannato, o che sia condannato di meno, senza contestare le leggi che condannano i ladri. La protezione animale difende gli animali, all'interno di un sistema dato. In difesa dei cani, dirà che tengono compagnia agli anziani, in difesa dei gatti, che ammazzano i topi, in difesa dei topi, che il loro uso negli esperimenti non è affidabile. In difesa delle anatre, che il fegato d'oca è tossico, in difesa delle lepri, che la caccia uccide gli umani. Sull'avvocato di un ladro pesa sempre, malgrado tutto, la minaccia di essere scambiato per l'avvocato dei ladri, per un loro amico, per un sostenitore del furto. È vitale, per la sua difesa, che il giudice non abbia l'impressione, se libera quel ladro, di liberare tutti i ladri. Allo stesso modo, la difesa animale avverte come vitale la necessità di non rimettere in discussione lo specismo.” (4) Non si può non ammirare tanta coerenza, anche se si tratta della lucida, sinistra coerenza della follia.
Ma su quale principio si basa una così rigida difesa della vita animale? Forse sulla difesa della vita in generale? Su una concezione sacra della vita in quanto tale che va difesa sempre e comunque, quale che sia il genere o la specie dell’essere vivente? O su una concezione sacra della natura, concezione secondo cui tutta la natura è ugualmente sacra e non è lecito fare alcuna distinzione al suo interno? Su nessuna di queste. Gli animalisti oltranzisti di “liberazione animale” introducono divisioni nella natura, non considerano tutta egualmente sacra la natura e non considerano neppure tutte egualmente sacre le forme di vita. Il loro principio guida è quello che occorre rispettare non la vita in generale e meno che mai la natura non vivente ma la vita senziente. Gli animali possono soffrire e questa capacità di soffrire fa di loro dei soggetti di diritto al pari degli esseri umani. Gli animali condividono con l’uomo la sensibilità, la capacità di provare dolore e questo di fatto li equipara agli esseri umani. Torniamo a cedere la parola a David Olivier che ha l’indubbio pregio di essere molto chiaro:
“personalmente non rispetto la vita delle piante. Non perché le disprezzi, ma perché non penso che siano sensibili, ovvero che percepiscano ciò che succede loro. Se esse non provano né piacere nel vivere, né sofferenza nell'essere tagliate o sradicate, né dispiacere di dover morire, non trovo ragioni per non farne l'uso che mi conviene, e in particolare per non mangiarle.” (5) In base a queste considerazioni il militante animalista spiega il paradosso consistente nel fatto che chi difende la vita di topi e anguille non ha nulla da dire contro l’aborto che consiste nell’eliminazione di una vita umana, sua pure ancora in parte potenziale: “ è praticamente certo che l'embrione umano non è sensibile almeno durante le prime 18 settimane di gravidanza (su un totale di 38 settimane) per via dell'assenza prima e dell'immaturità poi del suo sistema nervoso. Il neonato invece è sensibile; la sensibilità appare dunque ad un certo momento nel corso della seconda metà della gravidanza. Prima, l'essere in questione, che non prova né piacere né dolore, né timori né speranze, non mi sembra moralmente più significativo di un filo d'erba o di un sasso.” (6) Per 18 settimane quello che sarà (e in parte già è) un essere umano merita minor tutela di un filo d’erba o di un sasso, c’è da rabbrividire. E ancora di più fanno rabbrividire le posizioni del padre fondatore dell’animalismo radicale: Peter Singer, filoso australiano esponente di rilievo della nuova etica tollerante e postmoderna, fondata sul pensiero debole. “Un bambino di una settimana non è un essere razionale cosciente e vi sono molti animali non umani la cui razionalità, autocoscienza, consapevolezza , capacità di sentire e così via è superiore a quella di un bambino umano di una settimana o anche di un anno. Se il feto non ha la stessa pretesa alla vita di una persona sembra che non l’abbia neanche il neonato, e che la vita di un neonato abbia meno valore della vita di un maiale, un cane o uno scimpanzé” (7) Questo si che è parlare chiaro! La vita umana non vale in quanto tale, valgono certe caratteristiche della vita (vita tout court), fra cui è basilare la capacità di provare dolore. Ora, è chiaro che in certi animali queste caratteristiche sono più sviluppate che in un neonato, quindi la loro vita vale più di quella di un neonato, non siamo mica razzisti, diamine! Sulla base di queste, lucidissime, argomentazioni Singer avanza tranquillamente la proposta di legalizzare l’infanticidio quando il neonato presenti gravi malformazioni, ad esempio, sia affetto da sindrome di Down con deficit intellettivi (ma perché solo in quei casi?) e a chi definisce mostruose simili proposte replica tranquillamente: “La nostra attuale protezione assoluta della vita degli infanti è un atteggiamento tipicamente ebraico cristiano (…) L’infanticidio è stato praticato in società che vanno geograficamente da Thaiti alla Groenlandia e culturalmente dagli aborigeni australiani nomadi, alle sofisticate civiltà urbane dell’antica Grecia o della Cina dei Mandarini” (8). Se è per questo la storia dell’umanità ha conosciuto anche lo schiavismo, i genocidi, la tortura, i roghi per i liberi pensatori, chi più ne ha più ne metta. In base al relativismo etico e culturale di Singer dovremmo accettare tutto, ma proprio tutto. Né il filosofo australiano amico di gatti e topi (ma non dei bambini) si preoccupa degli argomenti di chi gli ricorda che un feto (e a maggior ragione un neonato) è una persona in potenza. “Un X potenziale” afferma Singer “non ha tutti i diritti di X. Il principe Carlo è un potenziale re d’Inghilterra ma non ha i diritti di un re. Perché mai una persona solo potenziale dovrebbe avere i diritti di una persona?” (9).
E’ possibile ovviamente difendere l’aborto, almeno in certi casi lo trovo personalmente il male minore. Ma gli argomenti di Singer sono assolutamente risibili. Il principe Carlo non ha i diritti del re ma ha il diritto di prepararsi a diventare Re, un neonato non ha i diritti di un adulto (chi lo ha mai sostenuto?) ma ha il diritto di poter diventare adulto. Con Singer l’animalismo etico postmoderno giunge al sua apice. Con grande coerenza il filosofo di Melbourne trae dalle premesse tutte le conseguenze, senza pudori né timori. Peccato che le sue proposte non siano troppo nuove, in fondo. A conclusioni piuttosto simili alle sue era arrivato, un bel po’ di anni fa, un ometto piuttosto isterico, con un ciuffo da capelli lisci sulla fronte ed un bel paio di baffetti.
E non si tratta di posizioni isolate, sostenute solo da pochi estremisti. Certo, solo pochi estremisti hanno il coraggio di essere tanto chiari e coerenti ma posizioni simili alle loro, solo più incerte e sfumate, sono assai diffuse e coinvolgono anche governi e istituzioni. Nel libro “Le bugie degli ambientalisti” Cascioli e Gasperi ricordano: “L’alta corte olandese, per esempio, ha decretato che andare a pescare con quella che da noi si chiama esca viva – cioè un lombrico, una mosca, una larva di un insetto – è un reato, quello di maltrattamento di animali” (10) ed ancora: “Nel febbraio 2001 mentre Amnesty international e altre associazioni internazionali denunciavano le violazioni dei diritti umani in Cina con persecuzione delle famiglie che mettono al mondo più di un figlio e sospetto traffico di organi espiantati da condannati a morte, l’onorevole Carla Ronchi del gruppo dei Verdi su recò all’ambasciata cinese a Roma a protestare energicamente non per i diritti umani bensì per il maltrattamento degli orsi” (11) E’ solo il caso di aggiungere che in Cina chi uccide un panda è punito con la pena di morte. Che io sappia non ci sono mai state in occidente manifestazioni di protesta per l’esecuzione di un cacciatore di frodo, ce ne sono invece molte quando negli Stati Uniti uno stupratore assassino viene giustiziato, forse non è un caso.
Ma veniamo al famoso principio di sensibilità, quello secondo cui la capacità di provare dolore darebbe a tutti gli esseri sensibili la dignità di enti morali e di soggetti di diritto. Perché questa capacità dovrebbe dare a chi la possiede questa la dignità? Dovrebbe darla perché decidiamo che chi ha la sensibilità deve essere, ipso facto, soggetto di diritto? Certo, si può sostenere una cosa simile, ma si possono sostenere, con pari e migliori ragioni, anche cose diverse, ad esempio che il semplice fatto di vivere o anche solo di esistere è sufficiente per essere considerati soggetti di diritto ed enti morali. In fondo la vita vegetativa viene prima di quella senziente e l’esistere è prioritario rispetto al vivere: per poter provare dolore devo esistere e devo vivere. Gli animalisti come i non animalisti fanno delle discriminazioni nella natura, ma ogni discriminazione deve affrontare un problema fondamentale: dove passa il confine fra gli enti che si discriminano? Perché il confine tra chi è e chi non è soggetto di diritto deve collocarsi al livello degli enti senzienti? Perché non collocarlo al livello degli enti semplicemente viventi o a quello degli enti tout court? Se la facoltà di provare dolore dà ad un topo la dignità di soggetto di diritto perché la facoltà di crescere non dovrebbe dare ad un abete una pari dignità? E perché il semplice fatto di esserci, di esistere da migliaia di anni, non dovrebbe conferire la stessa dignità alla vetta ghiacciata del Monte Bianco? Se è razzista privilegiare la vita intelligente rispetto alla vita semplicemente senziente perché non dovrebbe essere razzista privilegiare la vita senziente nei confronti della vita vegetale, o privilegiare ciò che è vivo rispetto a ciò che non lo è? Molti animalisti chiedono polemicamente perché si debba attribuire tanto valore all’intelligenza, la domanda è legittima, ma con altrettanta legittimità si può chiedere perché mai si debba attribuire tanto valore alla sensibilità. C’è quasi da sospettare che sotto sotto i super amici degli animali siano un po’ antropocentrici: privilegiano orsi, gatti e topi perché condividono con l’uomo qualcosa di importante, perché li sentono più vicini, si sentono, da uomini, attratti da loro. Questa però, se valgono le categorie dell’animalismo estremista, è una forma di razzismo.
In quanto tale il principio di sensibilità non giustifica un bel niente. Si può stabilire che questo principio deve essere decisivo ma si può anche stabilire il contrario. Ciò che rende per alcuni plausibile il principio di sensibilità non è il principio in quanto tale, è la ripugnanza che alcuni esseri umani provano per il dolore, anche quello degli altri, anche quello degli animali. La ripugnanza per il dolore però, in quanto sentimento soggettivo, non può fondare alcuna etica universale, impegna solo chi la condivide.
Il principio di sensibilità inoltre può al massimo giustificare la richiesta di non infliggere troppe sofferenze agli animali, non di non ucciderli. Se davvero la capacità di provar dolore dovesse costituire il discrimine fra chi è degno di rispetto morale e chi no, fra chi è e chi non è soggetto giuridico le conseguenze sarebbero devastanti e paradossali. Se è la capacità di provare dolore quella che dà ad un ente la dignità morale e la soggettività giuridica, la massima immoralità che si può commettere è quella di arrecare dolore a qualcuno. Se valesse il principio di sensibilità la norma morale fondamentale non dovrebbe essere: “non uccidere” ma : “non provocare dolore”. Uccidere un bambino nel sonno, senza causargli dolore alcuno, dovrebbe essere un atto non contrario alla morale, forse Singer sarebbe d’accordo; un killer molto abile che ti uccidesse di sorpresa in un centesimo di secondo con un colpo di pistola alla nuca non farebbe nulla di riprovevole. I sostenitori del principio di sensibilità si trovano in un bel dilemma. O sostengono tale principio indipendentemente dalla repulsione che alcuni uomini provano verso il dolore, ed allora non possono giustificarlo in alcun modo, possono solo affermarlo, ma la loro affermazione non ha più valore razionale di un pugno sbattuto sul tavolo. Oppure possono difendere tale principio basandosi sulla ripugnanza del dolore ed allora devono ammettere che ogni crimine che non implichi dolore per le vittime non è un crimine. Se una bomba atomica distrugge istantaneamente la vita di centomila persone, le uccide tutte e le uccide senza farle soffrire, (cosa che le atomiche possono fare) allora sganciare quella bomba non deve essere considerato moralmente sbagliato. Viene da pensare che gli animalisti si rifacciano al principio di sensibilità perché si rendono conto che estendere il diritto al rispetto e la personalità giuridica a tutta indistintamente la natura è impossibile e dà vita a paradossi troppo grossi anche per loro. Se analizzata a fondo tutta la loro concezione ha però conseguenze altrettanto devastanti e paradossali.
Il dolore è presente in natura, è quanto di più naturale possa concepirsi. In natura la vita si mantiene e si trasmette tramite la morte. La morte della preda è vita per il predatore, la morte del vegetale è vita per l’erbivoro, la morte dell’uomo è vita per i batteri e viceversa. E in natura la morte è sempre o quasi congiunta al dolore, assai spesso a molto dolore. Si tratta di dati di fatto, dati di fatto che non è possibile esorcizzare con strilli e condanne morali. Gli animalisti di “liberazione animale” si ribellano a questi dati di fatto e chiedono che il dolore scompaia dal mondo o quanto meno che si contragga, che venga ridimensionato. E a chi chiedono di operare affinché avvenga questo ridimensionamento del dolore? Lo chiedono all’uomo.
All’uomo piace mangiare carne, anche al più estremista degli animalisti verrebbe probabilmente l’acquolina in bocca alla vista di un bel cosciotto di agnello al forno e allo stesso modo all’uomo piace indossare una calda pelliccia, o fare una corsa a cavallo, addirittura l’uomo prova piacere a cacciare, cacciare e basta, senza considerazione alcuna per l’utilità che gli può derivare dalla preda. E’ nella natura dell’uomo tutto questo, esattamente come è nella natura del leone abbattere la gazzella o del toro diventare aggressivo di fronte allo sventolare di un drappo rosso. Ma per gli animalisti l’uomo deve reprimere queste componenti della sua natura, egli è intelligente, sa distinguere il bene dal male può farlo, deve farlo! Deve farlo in quanto essere intelligente, morale, deve farlo in quanto uomo! All’uomo e solo all’uomo si chiede di reprimere certi istinti, di correggere la propria natura, non avrebbe senso alcuno a chiederlo a uno squalo, ad un gatto e neppure agli intelligenti delfini e scimpanzè, all’uomo invece si, chiederlo a lui ha senso. Eppure questi stessi animalisti negano che l’uomo abbia uno status diverso da quello di tutti gli altri animali senzienti; nel momento stesso in cui devono riconoscere che non tutto nell’uomo è semplice natura o quanto meno che nella natura umana esiste qualcosa che non esiste in nessuna altro ente naturale, proprio nel momento in cui ammettono tutto questo gli animalisti considerano “razzista” chiunque sottolinei la particolarità e la alterità dell’uomo nei confronti degli altri animali, teorizzano che nulla di fondamentale può farci preferire la vita di un essere umano a quella di un topo, considerano la vita di un’anguilla più importante di quella di un feto umano. Dando prova di una dissociazione schizofrenica davvero notevole i liberatori degli animali esaltano e nel contempo degradano l’uomo.
Ma è in qualche modo possibile che l’uomo segua le raccomandazioni degli animalisti? Quali sarebbero le conseguenze di una loro generalizzata messa in pratica? Che l’uomo possa correggere alcuni aspetti della propria natura è vero, che possa instaurare rapporti (quasi) non violenti con alcuni animali e meno violenti col mondo animale nel suo complesso lo è altrettanto. Che molta violenza umana, diretta sia verso altri esseri umani che contro la natura non umana, sia gratuita e vada ridotta è ancora vero. Con tutto ciò però il problema di fondo resta irrisolto. Forse l’uomo non è solo natura, certamente la sua natura è particolare, diversa da quella degli altri animali, ma l’uomo è e resta un essere naturale, inserito nella natura, spinto ad agire anche da istinti, esigenze, bisogni naturali. Se l’uomo fosse una sorta di angelo o di semidio potrebbe anche assumere nei confronti del resto della natura atteggiamenti del tutto esenti da ogni forma di violenza, ma l’uomo è solo uomo, è nella natura, non sopra o a fianco di essa e precisamente in quanto essere naturale, anche naturale per lo meno, non potrà mai eliminare del tutto la violenza nei confronti degli altri esseri naturali. Fra uomini, gatti e topi non esisterà mai un rapporto simile a quello che esiste fra soggetti di diritto.
Cosa vuol dire rispettare moralmente un orso e conferire allo stesso la dignità di soggetto di diritto? Vuol dire in primo luogo non fare dell’orso un mero strumento per il soddisfacimento delle nostre esigenze: non ucciderlo per mangiarlo o impossessarci della sua pelliccia, non imprigionarlo eccetera. Vuol dire anche rispettarlo per quello che è, rispettarlo in quanto orso. Questo fatto però ha molte conseguenze. Se ad esempio l’orso ci aggredisse potremmo ucciderlo in nome della legittima difesa? No, ovviamente. L’istinto ad aggredirci è parte della natura dell’orso che noi dobbiamo rispettare dal momento stesso in cui abbiamo elevato l’orso al rango di soggetto morale e di diritto. E se l’orso entra a casa nostra e mangia le nostre provviste? Anche in questo caso non dovremmo far nulla, sarebbe insensato rispettare l’orso e pretendere che non si comporti da orso. E’ possibile pretendere che un essere morale, capace di distinguere il bene dal male, un uomo insomma, ci rispetti, è giusto difendersi da lui e punirlo se non lo fa. Nei confronti dei nostri simili hanno senso i concetti di giustizia, punizione e legittima difesa. E’ insensato invece punire un essere che non è capace di distinguere il bene dal male, o affermare che ci difendiamo legittimamente da lui. Con un essere simile, un orso ad esempio, si possono avere rapporti basati sulla forza o anche, in certi casi, sulla benevolenza, ma non si potranno mai avere rapporti basati sui concetti di diritto, giustizia, legittimità. Nel momento stesso però in cui questo orso è stato da noi riconosciuto soggetto morale e di diritto qualsiasi violenza nei suoi confronti diventa impossibile: non lo si può uccidere o ridurre in cattività per utile, ovviamente, e non ci si può neppure difendere dalle sue incursioni perché fare questo vorrebbe dire non rispettare la sua natura, vorrebbe dire cercare di imporgli con la forza (ed in maniera del tutto illusoria) la nostra natura. Riconoscendo dignità morale e giuridica agli altri animali l’uomo si collocherebbe al loro stesso livello senza potere però fare ciò che essi fanno: usare la forza, aggredire, cacciare, usare come mezzi gli altri animali. L’essere intelligente, saper distinguere il bene dal male metterebbe l’uomo in una condizione di enorme inferiorità nei confronti degli altri animali: dovrebbe tutelarli e rispettarli nel momento stesso in cui loro non potrebbero tutelare e rispettare lui.
Ma ammettiamo pure che questo non dovesse avere conseguenze troppo gravi. Il progresso scientifico e tecnologico ha messo l’uomo nella condizione di potersi difendere (a volte) anche senza uccidere. E poniamo anche che gli esseri umani possano rinunciare senza troppi inconvenienti a diete carnivore, latte, uova e tonno sott’olio ed ancora a pellicce, seta e lana, scarpe, cinture di cuoio, cera e tante altre inutili cosette. Il problema non sarebbe affatto risolto, caso mai aggravato. Lo sviluppo dell’agricoltura, come quello della urbanizzazione, tolgono spazi agli animali e ne uccidono molti più che non la tanto aborrita caccia; la costruzione di una fabbrica di lana sintetica, o di un villino eco compatibile, distrugge una quantità enorme di lombrichi, fa a pezzi tane di talpe, lascia senza cibo tanti begli uccellini, lepri e scoiattoli. E non dimentichiamo che gli animali si spostano e che l’uomo, una volta che li ha trasformati in soggetti morali e giuridici, non ha alcun diritto di ostacolare i loro spostamenti. Come potremmo continuare ad usare aerei ed elicotteri sapendo che spesso le loro eliche fanno a pezzi tanti bei volatili? E che dire delle navi che più di una volta hanno ucciso balene e capodogli? Se uccelli e balene fossero esseri umani potremmo avvisarli del pericolo, accordarci con loro affinché non volino in certe aree o non nuotino in altre, ma questi splendidi animali non sono esseri umani.
Gli esempi possono bastare. L’unico modo che l’uomo avrebbe per trattare coerentemente da esseri morali e soggetti giuridici gli altri animali sarebbe quello di rinunciare alla civiltà, recedere di secoli o di millenni, ricostituire una situazione sociale e culturale in cui il solo parlare di rapporti meno violenti con gli animali farebbe indignare o ridere. Le proposte animaliste sono folli perché se attuate condurrebbero a rischio di estinzione l’unica specie a cui ha senso parlare di obbligazione morale ed anche di benevolenza verso le altre specie. Il vero confine nella natura passa fra chi è e chi non è capace di giudizio morale, fra chi sa e chi non sa distinguere il bene dal male e quindi può essere definito “buono” o “cattivo”, “innocente” o “colpevole”. L’uomo merita uno status morale particolare non perché più buono delle bestie ma perché può essere considerato cattivo se si comporta da bestia; ha senso considerare l’uomo degno di rispetto morale perché l’uomo può legittimamente essere punito se rifiuta il rispetto ai suoi simili. Anche se spesso si comporta peggio delle belve più sanguinarie l’uomo merita uno status diverso da queste perché definendo lui “una belva” lo si svalorizza. La possibilità di agire moralmente crea una frattura nella natura perché forse questa possibilità non può essere interamente spiegata dalle leggi della natura. L’uomo forse non è solo natura, appunto per questo forse è libero, quindi responsabile, quanto meno va considerato tale. Nessun gatto invece lo è. E’ tutta qui la differenza fra uomini e gatti.
Note
1) Wikipedia: Specismo. Rinvenibile in rete alla voce: specismo
2) Ibidem
3) David Oliver: Protezione animale e liberazione animale. Rinvenibile in rete digitando: “movimento per la liberazione animale” e poi “protezione animale e liberazione animale”
4) Ibidem
5) David Olivier: Aborto e liberazione animale. Rinvenibile in rete digitando “liberazione animale” e poi “aborto e liberazione animale”
6) Ibidem.
7) P: Singer: Etica pratica. Citato in: Giovanni Fornero: Bioetica cattolica e bioetica laica. Bruno Mondadori 2009 pag. 109
8) Ibidem pag. 109 - 110
9) Ibidem pag. 110
10) Riccardo calcioli Antonio Gaspari: Le bugie degli ambientalisti. Piemme 2006 pag. 41.
11) Ibidem pag. 42
Il concetto di bene o male è proprio dell'essere umano per via dell'arma che madre natura ci ha dato per sopravvivere, il cervello, sottovalutato dagli animalardi perchè al contrario di una zanna o di un artiglio, non si vede, trovandosi al nostro interno.
RispondiEliminaGli animalardi non sanno usarlo bene. Si sottopongono a diete per noi innaturali (veganismo e derivati), fanno di tutta l'erba un fascio (tutti gli uomini sono cattivi, anche quelli che proteggono gli animali dai bracconieri e che fanno battaglie. Tutti gli animali sono buoni e altruisti - e qui mi chiedo, siccome l'altruismo è un concetto umano, come fa un animale ad essere altruista? Mmagari esiste qualcosa di simile in un branco, ma tra gli animali solitari, non esiste. Le mie gatte quando mangiano devo tenerle d'occhio, perchè la più giovane ruba il cibo alla più vecchia. Nella mentalita animalarda la possiamo chiamare egoista. Quando la sgrido la chiamo ladruncola, ma è la natura del gatto. L'unica cosa da fare, se voglio che entrambe le mie gatte mangiano, è sorvegliarla, richiamalra se si avvicina all'altra gatta, oppure farle mangiare in stanze separate.
L'antispecismo è una cazzata. Trattare un animale allo stesso modo di come si tratta un uomo non è bene. E' deleterio e paradossalmente in molti casi causa sofferenza all'animale. Gesti affettuosi e rassicuranti che facciamo nei confronti dei nostri figli, vengono interpretati come minaccia da alcune specie anche domestiche (come i cani o i gatti).
Cibi che per noi sono salutari, per certi animali sono un veleno mortale (e viceversa).
Parlare con voce aspra ad un cane per addestrarlo non è maltrattamento (al contrario che fare lo stesso con un bambino). Il cane si sente rassicurato, mentre un ordine impartito con voce dolce lo confonde.