domenica 7 ottobre 2018

GLI ULTIMI GORNI DELL'IMPERO ROMANO




Michele de Jeaghere: “Gli ultimi giorni dell'impero romano”. Libreria editrice goriziana.

Un affresco appassionante della caduta del grande impero in cui l'accuratezza del racconto si intreccia con l'analisi rigorosa delle cause di quello che resta uno degli eventi cardine della storia universale.
Non esiste, afferma l'autore, una causa del crollo dell'impero romano, la storia non è una scienza esatta e le vicende umane non sono assimilabili a quelle del mondo fisico. Esistono diverse cause di quel crollo. Cause socio economiche che si intrecciano con scelte ed errori umani, motivi culturali, modificazioni della psicologia delle classi dirigenti.
La crisi economica e fiscale derivante dalla fine delle grandi conquiste e dall'affermarsi della pax romana. L'affermarsi di una aristocrazia terriera slegata dalla vita cittadina, l'estensione smisurata del lavoro schiavo che bloccava ogni tentativo di innovazione tecnologica sono alcune delle cause socio economiche che si intrecciano con la crisi demografica, l'abbandono dei vecchi ideali che costituivano il fondamento della lealtà di tutti gli strati della popolazione romana nei confronti della loro città imperiale, l'affermarsi di un materialismo edonista potenzialmente distruttivo.

L'impero romano fu distrutto dalle grandi migrazioni, su questo non possono esserci dubbi. Jeaghere contesta con estremo rigore, dati alla mano, la tesi di chi vorrebbe attenuare il carattere drammatico di questa distruzione, farla passare per un processo di “reciproca integrazione” quasi pacifico. NON fu così, come testimoniano tutti i contemporanei dell'evento, compreso un grande filosofo: Agostino di Ippona. Ne “La città di Dio” Agostino polemizza con chi, di fronte al disastro, dubita della bontà ed onnipotenza del Signore e fa coincidere il crollo dell'impero con la fine della civiltà. Le invasioni dei barbari sono un autentico flagello, ma questo non deve farci perdere la speranza perché noi cristiani, dice il Vescovo di Ippona, facciamo parte della città di Dio, oltre e prima che di quella dell'uomo. Siamo di fronte ad una catastrofe che però non deve far vacillare la nostra fede: in una simile posizione nulla può far pensare alle invasioni come ad un processo di graduale e reciproca “integrazione”. Il crollo fu un dramma e fu seguito da un generale declino della civiltà durato almeno un paio di secoli.

Certo, tentativi di integrazione ci furono. I romani adottarono la politica di concedere agli invasori che oltrepassavano i confini dell'impero lo status di “clientes”. Concedevano ai barbari terre ed ampie autonomie in cambio dell'impegno a fornire soldati destinati a difendere un impero smisurato. In certi momenti questo diede sollievo all'impero ed alle sue esauste finanze, ma alla lunga contribuì a minarlo irrimediabilmente. Nelle fasi precedenti della storia romana la fedeltà dei popoli vinti era la risultante di una politica che combinava una assimilazione severa con la concessione di molti benefici della romanità. Nelle fasi della decadenza invece si crearono nell'impero autentiche isole non romane, formalmente sottoposte alla autorità imperiale ma di fatti slegate, e spesso nemiche, della stessa.
Molto belle, nelle pagine finali del libro, le considerazioni sull'impero in quanto tale. Un impero di enormi dimensioni può assicurarsi la fedeltà dei popoli sino a quando questi possono godere dei benefici della pace e della relativa prosperità che l'impero stesso riesce ad assicurare. Quando si tratta invece si difenderlo armi alla mano si può constatare che un simile, smisurato organismo è in grado di suscitare pochi entusiasmi e scarso spirito combattivo.

Fermo restando che a storia non si ripete mai negli stessi termini, non ci vuole molto per notare le impressionanti analogie fra la situazione descritta da Jeaghere e quella che sta oggi sotto i nostri occhi. Crisi demografica, crisi economica, finanze dissestate, migrazioni fuori controllo, intere zone di grandi città europee in cui di fatto non vige più la legge inglese, o francese, o tedesca. Siamo nell'Europa di oggi ma sembra, da certi punti di vista, di essere in quella di quindici o sedici secoli fa...
E non ci si deve illudere, afferma Jeaghere, pensando che i contemporanei previdero il crollo dell'impero romano mentre noi oggi non prevediamo nulla di simile riguardo alla nostra declinante civiltà.
“I contemporanei della fine dell'impero romano” scrive Jeaghere, “rifiutarono di crederci per tutto il tempo in cui riuscirono ad afferrarsi alle loro chimere. “Nei tempi in cui cominciava a sorgere la luce del mondo questa Roma destinata a vivere fintanto che esisterà l'uomo...” scriveva Ammiano Marcellino nel libro XIV delle sue storie. Era il 385. Venticinque anni dopo, Alarico avrebbe preso Roma. Meno di un secolo e sarebbe scomparso l'impero di occidente”.
I contemporanei della fine dell'impero romano rifiutarono di crederci per tutto il tempo in cui riuscirono ad afferrarsi alle loro chimere! Fanno un certo effetto queste parole, fa effetto soprattutto quel rifiutarono di crederci, un rifiuto che non può non far pensare ai tanti illusi dei nostri giorni (non mi occupo di chi è in malafede) che non vogliono credere al peggio, alla crisi, neppure in via ipotetica, non vogliono neppure pensarci e che invece vogliono credere alle favolette che raccontano.

Non è il caso di dilungarci troppo. In ogni caso non riuscirei a dare una idea adeguata di un'opera come quella che sto cercando malamente di recensire. La narrazione è accurata, documentata e minuziosa, a volte un po' dura per il lettore che si trova avvolto in una miriade di nomi, eventi, congiure di palazzo, intrighi, difficile da seguire. In ogni caso mai noiosa, con pagine di autentica piacevolezza narrativa: le descrizioni dei principi barbari ad esempio, dei loro usi e costumi, degli incredibili banchetti.
In definitiva, nel tetro panorama editoriale dei nostri giorni questa storia dello Jeaghere rappresenta una bellissima eccezione. Un libro da leggere, meditare e, se si ha tempo, studiare!

2 commenti:

  1. I primi a cadere saranno Inghilterra, Svezia, Belgio, Francia e Germania, e gli altri saranno conquistati militarmente. Secondo me finisce così.

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  2. Spesso diciamo che l' impero romano è caduto per una serie di concause concatenate, come un vecchio che muore per un complesso quadro clinico in cui tutto concorre a scassare la salute del malandato anziano fino a portarlo al decesso.
    Il che , nel caso dell' impero romano d' OCCIDENTE, è una immensa cazzata, visto che la parte ORIENTALE dello stesso è durata altri 1000 anni.
    la realtà si evince facilmente leggendo due testi interessantissim, " Il Sacro Romano Impero. Storia di un millennio europeo " di Wilson e " Storia dell' impero bizantino " di Ostrogorsky.
    Ebbene Wilson descrivendo il sacro romano impero delinea in modo semplice ma corretto cosa caratterizza un impero:
    l' impero ha una terra che costituisce il " nucleo" imperiale, ovvero le terre che costituiscono la riserva insostituibile di soldati, soldi e anche idee e tradizioni che egli chiama in inglese " core".
    A queste terre si affiancano le terre " vicine alla corona" e "lontane dalla corona".
    Ostrogorsky d'altro canto delinea come l' impero bizantino fosse " forte " fintantochè il " core " , ovvero i temi di Opsikion e Anatolia, rimase saldamente in mano bizantina.
    Ovvero finche il " core " era al sicuro l' impero era " forte" non tanto perchè vincesse , ma perchè anche in caso di sconfitta si poteva sempre sollevare.
    Allo stesso modo la ROma repubblicana durante le guerre annibaliche riuscì sempre a risollevarsi perchè il " core" ovvero gli alleati italici , erano sempre al sicuro dietro le mura delle città che l' impreparato nella poliorcetica ( Annibale) non poteva prendere.
    Ora analizziamo meglio l' impero d'occidente ed oriente.
    Certo entrambi gli imperi soffersero dei problemi da te elencati ma perchè la parte orientale seppe scrollarsi di dosso il giogo straniero e tornare alle origini ( addiritura al soldato contadino dei tempi repubblicani:lo stratiota) e l' occidente no?
    La ragione è semplice: il " core " orientale era vicino ad un centro politico militarmente imprendibile ( Bisanzio), laddove in Occidente il "core " era non solo vulnerabile ma anche lontano dal centro politico, vulnerabile anch' esso.
    E quindi con questo cosa voglio dire?
    Voglio dire che se volgiamo mantenere la nostra civiltà dobbiamo comprendere il nostro " core " e difenderlo. Il nostro " core "è costituito da famiglia , industria, scienza e laicità dello stato . Ogniuno di questi chiodi che salta fa partire un pò dell' argine e rende più difficile riprendersi da una crisi... basti vedere da quanti anni si trascina la crisi economica europeaper capire che non abbiamo radici che ci tengano in piedi

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