martedì 12 marzo 2019

IL GOVERNO DEI SAPIENTI


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Ormai lo dicono in tanti: il principio maggioritario, base della democrazia, è “vecchio”, “superato”, va radicalmente rivisto. Il popolo è ignorante e non si possono affidare le sorti di un paese alle persone ignoranti. Devono governare i colti, le persone “sapienti”.
C'è una buona dose di arroganza ed insieme di ingenuità in simili posizioni. CHI è ignorante e CHI è “sapiente”? Un laureato è più colto di un semi analfabeta, ma è molto ignorante rispetto ad un nobel per la fisica. Il vecchio Socrate ammoniva: “siamo tutti ignoranti”, ma a sommi intellettuali come Carlo Calenda non interessa troppo, sembra, l'ignoranza socratica. E nessuno, pare, è sapiente in tutto. Un grande musicista può non sapere nulla di economia ed un fisico insigne può non conoscere la storia. E, quali fra i “sapienti” dovrebbero avere l'onore e l'onere di governarci? Come scegliere fra loro? Tramite libere elezioni? Siamo al punto di partenza. Organizzando “concorsi di sapienza”? E chi dovrebbe comporre l'infallibile giuria, chi la dovrebbe scegliere? Siamo di nuovo al punto di partenza.
In realtà chi teorizza il governo dei “sapienti” parte da un presupposto indimostrato ed indimostrabile: i sapienti siamo NOI. Noi siamo colti, raffinati, intelligenti. Gli altri no. Gli altri, “loro” sono stupidi, ignorati, mossi da passioni elementari. Noi decidiamo con la testa, loro con la pancia. Quindi noi e solo noi abbiamo diritto di governare. Peccato che tutti, ma proprio tutti, possano fare simili discorsi. I sapienti siamo NOI, strilla Tizio, leader del partito dei “sapienti”, NO, siamo NOI, replica Caio, leader del partito opposto. Come risolvere una simile contesa? In un solo modo: a suon di pugni prima, di sassate poi, infine di fucilate. Decide la violenza, in nome della sapienza e della intelligenza, delle scelte fatte non con la pancia ma con la testa.
Tra l'altro l'idea che i “sapienti” facciano sempre le scelte migliori è quanto meno discutibile. Un uomo di sconfinata cultura come Martin Heidegger aderì entusiasticamente, nel 1933, al partito nazionalsocialista, e fino al 1945 pagò con teutonica puntualità le quote. Un grande intellettuale come Giovanni Gentile fu ministro di Mussolini. Non parliamo poi degli intellettuali che osannarono l'URSS di Stalin o la Cina di Mao: Jean Paul Sartre, Pablo Picasso, George Bernard Shaw, i coniugi Webb, Bertolt Brecht, Gyory Lukacs... l'elenco è davvero troppo lungo. Molti di questi intellettuali fecero dei viaggi in URSS in piena epoca staliniana. Tutto era rigidamente programmato. Gli ospiti non potevano discostarsi di un centimetro dai percorsi stabiliti, incontravano solo persone sorridenti e felici che narravano loro che la Russia di Giuseppe Stalin era il paese del pane e delle rose, una sorta di paradiso in terra. Neppure una voce blandamente critica, neppure una! Qualsiasi manovale senza alcun titolo di studio si sarebbe insospettito, avrebbe detto: “qui c'è qualcosa che non va”... loro no. I grandi intellettuali, i sottilissimi filosofi bevevano come verità indiscutibili menzogne che non avrebbero convinto un bambino. C'è da fidarsi di simili “sapienti”? Non troppo, specie se governano senza che i tanto disprezzati “ignoranti” li possano controllare. Il miglior pregio della democrazia, ce lo ricorda Popper, consiste precisamente nel dare ai governati la possibilità di sbarazzarsi, senza far uso della violenza, di governanti che fanno danni eccessivi, malgrado tutta la loro sapienza.

Al di la delle precedenti considerazioni, frutto di semplice buon senso, c'è un errore di fondo in tutte le teorizzazioni di chi contrappone alla democrazia una qualche forma più o meno mascherata di “dittatura dei sapienti”.
Dietro a queste teorizzazioni sta una concezione “tecnica” della politica. Il compito fondamentale della politica sarebbe quello si scegliere le tecniche migliori per realizzare determinati fini o valori, della cui bontà non è lecito dubitare. Esisterebbe un “bene” oggettivamente valido per tutti ed il politico avrebbe il compito di governare la società in maniera tale da permetterle di raggiungere, o quanto meno di avvicinarsi a tale bene. Nulla di nuovo sotto il sole. Si tratta della concezione platonica della politica che non a caso sfocia nella richiesta che siano i filosofi, meglio, IL filosofo, a governare la città. Se davvero esiste un bene oggettivamente valido per tutti e se davvero il compito della politica consiste nel cercare le tecniche adatte a realizzarlo è chiaro che solo ad uomini superiori spetta il compito del governo. Solo loro possono sapere quale sia il vero bene e quali le tecniche per raggiungerlo. La “Repubblica” di Platone (non quella di Scalfari) rappresenta una eccelsa giustificazione teorica di questa concezione della politica. Non a caso un liberale come Popper la ha sottoposta ad una critica serrata, probabilmente sbagliata in alcune sue parti, qua e la ingiusta o esagerata nei toni, ma sostanzialmente condivisibile, a modesto parere di chi scrive.

Il difetto, come suol dirsi, sta nel manico. La politica non consiste nella scelta delle tecniche migliori per realizzare un fine universalmente condiviso, ma nella scelta fra fini diversi e tutti egualmente legittimi. Le società contemporanee e, in una certa misura, gran parte delle società storiche, sono, o sono state, caratterizzate da una pluralità di forze sociali, politiche, culturali, quindi da una pluralità di idee, interessi, fini, valori. La democrazia è il sistema che permette la scelta pacifica fra questi diversi interessi, fini, valori. Non una scelta escludente, che premi determinati fini ed escluda gli altri dalla competizione politica. No, una scelta che privilegi, per un determinato periodo di tempo, certi interessi, fini e valori senza annichilire gli altri. L'essenza della democrazia, meglio, della democrazia liberale, consiste nel pluralismo, e in una società pluralista nessun interesse, fine o valore può essere eliminato a meno che i suoi fautori non scelgano la strada della violenza.
Se questa è, per usare una brutta parola, l'essenza della democrazia liberale, è abbastanza chiaro che le fondamentali scelte di valore che questa consente non richiedono una particolare cultura.
Dobbiamo privilegiare lo sviluppo economico anche a costo di una riduzione delle aree naturali incontaminate o bisogna privilegiare la difesa dell'ambiente anche a costo di un certo rallentamento dello sviluppo? Dobbiamo dare più importanza alla integrazione internazionale o alla autonomia nazionale? Dobbiamo privilegiare la libertà individuale o l'uguaglianza? La sicurezza o i diritti dei singoli? Simili scelte di valore sono relativamente semplici, non richiedono conoscenze particolari. Per difendere la sua concezione tecnica della politica Platone e i suoi mediocri, e spesso inconsapevoli, tardi epigoni, fanno spesso paragoni con l'arte medica. Nessuno si farebbe curare da un medico impreparato solo perché in tanti lo hanno votato. Verissimo, ma in politica non si decide sulle tecniche di cura, semmai si sceglie fra il valore della salute ed altri valori. Val la pena di rinunciare a certi cibi perché forse poco salubri oppure è meglio vivere un po' meno sani ma godersi i piaceri della buona tavola? Non occorre essere medici per compiere scelte simili.
Tutto questo riduce le democrazie liberali al nichilismo relativista? No, ovviamente. Perché la democrazia, per vivere, ha bisogno che alcuni valori base siano largamente, quasi universalmente, condivisi. Le persone sono titolari di diritti che nessuno può loro togliere, sui problemi controversi si decide a maggioranza, le maggioranze non possono opprimere le minoranze, Ogni essere umano ha, in quanto tale, una sua ineliminabile dignità. Su queste cose in una democrazia pluralista non si sceglie. Ma sul resto, su tutto il resto si.

Andando a votare il corpo elettorale non sceglie fra verità ed errore Non si stabilisce col voto se una teoria scientifica o una dottrina filosofica siano o meno vere, o logicamente coerenti. Col voto non si decide del valore artistico di un dipinto od una sinfonia. Neppure il torto o ragione sono in discussione col voto. Col voto si decide “solo” quale forza politica abbia il diritto di governare, per un certo periodo di tempo e rispettando i diritti delle minoranze e dei singoli. Chi vince alle elezioni ha diritto di privilegiare nella sua azione certi valori, idee, interessi fermo restando che le idee, i valori, gli interessi di chi è rimasto in minoranza continuano ad avere piena legittimità. Tutto qui. Per questo le lamentele di chi contrappone al popolo bue la sapienza dei dotti sono completamente fuori luogo. La democrazia liberale non assomiglia in niente alla tirannide della maggioranza. Chiunque vinca alle elezioni non ha il diritto di impedire ai sapienti di far valere, in tutte le opportune sedi, la loro sapienza. Ha solo il diritto di governare. Chi contrappone a questo la sua “superiore cultura” non fa altro che contrapporre ad una presunta tirannide della maggioranza una non meno pericolosa tirannide della minoranza.
Ma, si potrebbe obiettare, la cultura è comunque importante nella azione di governo. La politica democratica si concretizza nella scelta fra fini diversi, ma, quale che sia il fine che viene scelto, per metterlo in atto occorre una buona dose di conoscenze. E molto spesso le scelte non sono particolarmente nette. Si sceglie non tanto fra A e B ma fra certe diverse misture di A e B. Quale è la “mistura” giusta? Quale il giusto punto di equilibrio? Per stabilirlo occorre spesso avere un elevato grado di cultura. Tutto giusto, tutto ampiamente condivisibile. La politica è anche cultura, richiede sempre una certa dose di conoscenze, non è solo scelta dei fini ma anche, in una certa misura, messa in atto di tecniche adeguate a realizzarli. Perché una democrazia liberale funzioni bene occorre che la cultura sia abbastanza diffusa sia fra gli eletti che fra gli elettori. Questo però non giustifica in alcun modo la pretesa arrogante di sostituire alla sovranità (limitata ovviamente) del corpo elettorale la presunta superiorità dei “sapienti”. Non la giustifica non solo perché molto spesso i “sapienti” tali non sono, ma per un motivo molto più fondamentale. Chi possiede la cultura deve consigliare, mettere in guardia, ammonire, istruire nelle sedi adeguate chi di cultura ne possiede meno, ma non può scegliere al posto suo sulle questioni fondamentali della vita politica. Non può e non deve farlo perché la facoltà di scelta è essa stessa, in quanto tale un valore della massima importanza. La politica riguarda il bene di una certa collettività, così come le scelte individuali riguardano il bene dei singoli; nessuno può imporre un determinato bene a nessun altro, sia questo un soggetto individuale o sovra individuale. La pretesa di imporre agli altri quello che a qualcuno, naturalmente molto “sapiente”, appare come il suo “vero” bene è tipica dei tiranni totalitari. Gli Hitler e gli Stalin, i Mao ed i Pol Pot hanno sempre affermato di operare per il “vero bene” di qualcuno: la nazione tedesca, la classe operaia internazionale, i “popoli” del terzo mondo. Con i risultati che tutti conoscono.
Personalmente sono grato a chiunque mi voglia consigliare. Se decido di fare una escursione in montagna ed una guida mi ammonisce sulle difficoltà del percorso sono dispostissimo a riconoscere la sua maggiore competenza e a prendere in considerazione quanto mi dice. Ma la scelta alla fine resta mia. Sono io che, una volta debitamente informato sulle difficoltà che mi attendono, devo decidere se valga o meno, per me, la pena di affrontarle. Mi sentirei vittima di una intollerabile ingiustizia se qualcuno, per il “mio” bene, mi impedisse con la forza di partire. Per ciò che riguarda la mia vita preferisco, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, sbagliare liberamente che essere obbligato a fare la cosa giusta. Vale per me come individuo, vale anche per i soggetti sovra individuali.
E tanto basta, direi.


2 commenti:

  1. Bello il tuo discorso, semplice, lineare, convincente, razionale, condivisibile, coinvolgente, inconfutabile. Ti invidio...

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  2. In realtà la questione non è così semplice. Tutto condivisibile quello che hai scritto, per carità, ma come sempre la verità sta nel mezzo. È giusto che si dia ai "sapienti" l'onere e onore di scegliere per i "meno sapienti"? Certo che no. Ma allo stesso tempo è giusto che a scegliere sia una persona (o più di una) completamente inetta che va appresso a facili promesse elettorali? Assolutamente no. Tant'è vero che in Italia la legge permette di votare a chi abbia compiuto 18 anni, o 25 nel caso del senato, ovvero a chi abbia raggiunto (si presume) un certo grado di maturità. Ecco, qui sta il problema, non è con l'età che si misura la maturità. Questo è il grande problema dell'Italia, gli italiani. Da decenni ormai vince le elezioni non chi promette un piano di lungo periodo che comprenda anche eventuali sacrifici, bensì chi promette la luna, domani, e senza il minimo sforzo. Io paragono ormai gli italiani a un bambino con la febbre, al quale viene regolarmente offerta non la medicina amara che fa guarire, bensi caramelle. Il bambino non sceglierà mai la medicina amara. Ecco, non tutti gli italiani sono come bambini, ma la maggior parte sembra di si a giudicare dalle scelte elettorali. La soluzione secondo me è semplicissima (e non l'ho inventata certo io): una patente di voto. Chi vuole partecipare alla democrazia deve dimostrare un minimo di conoscenza di storia e diritto. Non sto qui a dire chi dovrebbe decidere cosa far studiare ecc. Ma si può fare. Dopotutto la nostra costituzione e le nostre leggi sono state redatte da qualcuno, seppure poi confermate da un voto. Da qualche parte comunque si può e si deve iniziare.

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