E’ una caratteristica dei nostri tempi di decadimento culturale: il
rimbalzo da uno schieramento politico all’altro, da destra a
sinistra e viceversa, di temi e suggestioni ideologiche.
“Il
turbo capitalismo” delle multinazionali impone a tutti una una
universale omologazione. Scompaiono le differenze e l’uomo viene
ridotto a mero consumatore di prodotti in larga misura inutili.
Quante volte abbiamo letto frasi simili in rete? Difficile
stabilirlo. Ed è anche difficile stabilire lo schieramento politico
di chi fa simili affermazioni. Spesso i teorici della riduzione
dell’uomo al ruolo di mero consumatore si collocano oggi, per usare
termini assai generici, a destra. Eppure si tratta di tematiche che
sono state tipiche della sinistra sessantottina.
L’ uomo ad
una dimensione, afferma Marcuse, uno degli idoli dei contestatori
dello scorso secolo, è il prodotto della società industriale
avanzata, caratterizzata dal trionfo di una tecnologia alienante
basata sulla razionalità strumentale e la dimensione unica cui
l’uomo odierno è ridotto è (se ne poteva dubitare?) quella del
consumo. La polemica contro il “consumismo” ha caratterizzato
negli ultimi decenni i movimenti di sinistra occidentali. Eppure, a
ben vedere le cose, ha antecedenti che si possono definire di destra.
La denuncia della “macchinazione” è centrale nella polemica di
Heiddeger contro l’inautenticità che caratterizzerebbe i nostri
tempi. Allontanatosi dall’essere l’uomo di perde negli enti ed
affida alla tecnica i propri destini. In una celebre intervista il
filosofo tedesco giungerà a paragonare l’agricoltura industriale
ai campi di sterminio nazisti: l’una e gli altri sono infatti
caratterizzati dalla razionalità strumentale sostegno di una
tecnologia disumana. Piccolo particolare: Heiddeger aderì al NSDAP,
Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori,
nel 1933 e
rimase iscritto allo stesso, pagando con teutonica puntualità le
quote, sino al 1945.
Non è il caso di dilungarsi, il
succo del discorso è piuttosto chiaro: le società contemporanee,
dominate dal mercato e dalla tecnologia impoveriscono l’uomo, lo
riducono all’unica dimensione del consumo. “Lavora e caga,
consuma e crepa”: questo slogan volgarotto esprime abbastanza bene
come qualcuno considera l’uomo che vive nelle società a
“capitalismo avanzato”. Mera macchina per consumare, priva di
valori, idee, sentimenti profondi, solidarietà sociale. Da Heiddeger
a papa Bergoglio, da Marcuse a Diego Fusaro il succo non cambia
troppo. Stiamo diventando, forse siamo già diventati, una sorta di
nuovi automi, cui il mercato impone una mostruosa omologazione.
Viviamo per consumare cose inutili a tutto vantaggio del “Dio
denaro”.
Ma… stanno davvero così le cose? Per
stabilirlo bisogna cercare di rispondere a tre domande.
1)
Qual’è il ruolo del consumo nella vita umana?
2) Davvero la
tecnologia mortifica l’uomo?
3) Davvero il mercato tende ad
omologare gli esseri umani, a ridurli ad “una sola
dimensione”?
L’uomo è consumatore, lo è, per usare
una terminologia un po’ antiquata, per essenza. Il consumo
caratterizza tutta la vita umana, sempre. La semplice riproduzione
della vita implica continui atti di consumo: respiriamo, beviamo e
mangiamo, quindi consumiamo, solo per sopravvivere. Vivere è
consumare energia e risorse esterne per ripristinare di continuo
l’energia consumata. Ma il consumo non è legato solo alle
caratteristiche puramente animali dell’uomo. Noi consumiamo anche,
forse soprattutto, quando ci dedichiamo alle nostre attività più
nobili, più specificamente umane. Elaborare teorie scientifiche e
filosofiche, comporre romanzi o sinfonie, dipingere o scolpire non
implica solo consumare energie fisiche e mentali, implica anche
consumare risorse che ci vengono dal mondo esterno. Un poeta ha
bisogno almeno di carta e penna per scrivere, un musicista di
strumenti musicali, uno scienziato di costose apparecchiature.
Pensare che il consumo riguardi solo la componente “inferiore”
dell’uomo è una sciocchezza, Più ci eleviamo più i nostri
consumi si differenziano, diventano raffinati e sofisticati,
superflui se vogliamo, nel senso che si tratta di consumi non legati
alla mera riproduzione materiale della vita. Il consumare è una
caratteristica ontologica dell’uomo. Consumiamo perché siamo
esseri razionali finiti, dipendenti dal mondo che ci circonda. L’uomo
consuma perché non è un essere autosufficiente, non è causa sui,
in una parola, non è Dio. A qualcuno la cosa non piace? Non
possiamo che dolercene.
Per consumare dobbiamo modificare
l’ambiente circostante. Dobbiamo farlo perché viviamo in un mondo
che non è fatto per noi, non si adatta alle nostre esigenze. E
perché è nella nostra natura andare oltre il semplice adattamento
al mondo che ci circonda. Una delle differenza fondamentali fra
l’uomo e gli altri animali sta tutta qui: l’uomo non accetta di
essere componente subordinata di qualche ecosistema. L’uomo è
l’animale che “va oltre”; siamo “naturalmente artificiali”,
se così non fosse ci saremmo con tutta probabilità estinti da
tempo, visto che la nostra capacità di adattamento è radicalmente
inferiore a quella di gran parte delle specie animali. Al massimo
saremmo ridotti a sparuti branchi di umanoidi assediati da pericolosi
predatori.
E’ qui che si innesta il discorso sulla tecnologia
e la “razionalità strumentale”. Da sempre l’uomo ha costruito
attrezzi che lo aiutino nella lotta per l’esistenza. Da sempre fra
uomo ed ambiente è esistito un medio costituito dalla tecnica. In
tutte le epoche storiche l’uomo ha sempre fatto ricorso alla
tecnica. Per cacciare come per coltivare la terra, per costruire
ripari come per vestirsi, per spostarsi come per combattere. La
tecnica è presente in tutte le attività umane, da quelle più
direttamente collegate alla vita materiale a quelle che riguardano le
nostre attività spirituali. La tecnica è presente in un dialogo
filosofico, nella composizione di una sinfonia, in una gara sportiva.
E non solo perché, tutte queste attività richiedono l’uso di un
certo numero di strumenti materiali ma anche, forse soprattutto,
perché il linguaggio, le regole della composizione musicale come
quelle della competizione sportiva sono esse stesse delle tecniche.
Poche cose quindi sono tanto radicalmente umane come la tecnica e la
connessa razionalità strumentale, quella che ci dice cosa dobbiamo
fare se vogliamo raggiungere un certo fine. Certo, esiste, nessuno lo
nega, il problema, enorme, dell’uso che si può fare della tecnica.
Come moltissime altre cose anche la tecnica può essere usata bene o
male. Per uccidere occorre usare certe tecniche, come occorre usarne
altre per salvare la vita ad una persona gravemente ammalata, ma
queste considerazioni del tutto ovvie nulla hanno a che vedere col
rifiuto della tecnica in quanto tale. Quando Heidegger equipara la
coltivazione industriale alle camere a gas fa invece proprio questo:
non distingue fra gli usi della tecnica. Coltivare razionalmente
grano che serve a sfamare gli esseri umani non è diverso che
introdurre gas mortali un una stanza ermeticamente chiusa e piena di
vittime innocenti.
Riassumendo: il consumo ha una
importanza centrale nella vita umana, a tutti i livelli. La tecnica,
ben lungi dall’essere un fattore di “alienazione” è qualcosa
di radicalmente, profondamente umano, se ne devono controllare gli
utilizzi ma non la si può rifiutare in quanto tale. Occorre ora
cercare di rispondere alla terza, fondamentale, domanda: il mercato è
fattore di “omologazione”? Cancella le differenze, ci riduce a
gregge? Gli scambi eliminano le nostre particolarità trasformandoci
in macchine per consumare? La società di mercato è davvero dominata
dal “feticismo della merce”?
L’accenno al feticismo della
merce ci rimanda a Marx, cioè ad un pensatore sicuramente profondo,
quale che possa essere la gravità dei suoi errori. Non è però il
caso, in questa sede di addentrarci in una analisi del suo pensiero.
Basta ricordare che in Marx il tema del feticismo della merce è
legato alla teoria del valore e che questa non trova oggi
praticamente alcun difensore.
Ben lungi dall’omologare gli
esseri umani, dal cancellare le differenze che li caratterizzano il
mercato esalta le differenze. In molti lo ripetono, un po’
papagallescamente: il mercato riduce tutto a quantità, trasforma gli
uomini in relazioni numeriche. E’ vero che il mercato è un insieme
di relazioni quantitative, ma ridurlo a questo è semplicemente una
idiozia. Agli estremi delle relazione quantitative stanno infatti i
venditori ed i compratori, esseri umani con le loro specificità
individuali, i loro gusti, esigenze, preferenze. Il mercato si basa
sul valore di scambio, ma il valore di scambio altro non è che la
relazione quantitativa fra valori d’uso. Tizio scambia con Caio tre
paia di scarpe contro un abito perché ha bisogno di abiti e non di
scarpe. Il fatto che un televisore abbia lo stesso prezzo di un
frigorifero o di un certo numero di libri non eguaglia libri,
frigorifero e televisore, meno che mai rende indistinguibili i
fruitori di questi beni. Trasformare la relazione quantitativa in un
fattore distruttivo delle particolarità qualitative è un po’ come
affermare che se mi trovo in una località equidistante fra la vetta
del Bianco ed il mare non esiste differenza fra le onde marine e la
vetta ghiacciata del Bianco, una idiozia, appunto. Il mercato non
annulla le differenze, le mette in relazione ed in questa relazione
ognuno può cercare di procurarsi i beni che, a suo parere, servono
meglio a soddisfare le esigenze per lui più importanti.
Qualcuno
potrebbe obbiettare che si tratta di cose di secondaria importanza.
Al di là delle differenze fra i carrelli della spesa di chi si reca
al supermercato resta il fatto che tutti coloro che spingono tali
carrelli sono consumatori, quindi identici in quanto consumatori,
omologati, alienati. Cosa rispondere ad una simile obiezione? Solo
che chi la fa ritiene il consumo qualcosa di non realmente umano,
pensa che consumando gli esseri umani diventino “ad una
dimensione”. Si è già risposto a simili considerazioni: gli
esseri umani sviluppano le loro peculiarità, la loro
multidimensionalità anche consumando, anche usufruendo di beni e
servizi. E tanto basta.
La critica alla omologazione che
sarebbe tipica dell’economia di mercato non riguarda però solo gli
individui, si estende alle culture ed alle civiltà. L’espansione
mondiale del mercato distrugge culture vecchie di secoli, cancella le
differenze fra i popoli, sminuisce il valore delle nazionalità, in
breve, impone al mondo una grigia uniformità, una sorta di notte in
cui tutte le vacche sono scure. Esiste del vero in queste critiche,
ma si tratta di un “vero” che va analizzato con molta cura, per
evitare che si trasformi in una serie di banalità se non di
grossolane mistificazioni.
In primo luogo, per amor di
precisione, va detto che certe critiche appaiono semplicemente
risibili se sostenute da persone che si rifanno alla filosofia
marxista. Qualcuno lo deve rivelare al professor Fusaro: Marx è
stato uno dei più mondialisti fra i filosofi contemporanei. Marx
considera un merito della borghesia la formazione di un mercato
globale, considera questo una conquista positiva e profondamente
rivoluzionaria, basta leggere il celeberrimo “manifesto del
partito comunista” per rendersene conto.
La
critica che Marx muove all’economia capitalistica è completamente
diversa da
quelle
strillate oggi da molti super critici del “turbo capitalismo”.
Per
Marx la borghesia capitalistica è incapace di portare a termine il
compito iniziato. Il Capitalismo non è in grado di superare la
ristrettezza dei confini nazionali e dare vita ad una autentica
società mondiale. Il mercato mondiale è conseguenza dell’enorme
sviluppo delle forze produttive ma i rapporti di produzione borghesi
sono diventati, per Marx, un ostacolo ad un loro
ulteriore sviluppo. Per
farla breve, Marx
sottopone a critica non l’universalismo ma la ristrettezza della
società borghese, non lo stimolo che essa garantisce allo sviluppo
economico, ma il limite a tale sviluppo, non la creazione del mercato
mondiale ma il suo carattere parziale e limitato.
C’è
della esagerazione in
molte espressioni di
Marx ma si può tranquillamente riconoscere che alcuni
aspetti della sua analisi sono condivisibili. In effetti contrapporre
alla apertura del mercato mondiale la chiusura nel localismo è
francamente
reazionario, come
lo è la pura e semplice accettazione di ogni caratteristica di
antiche culture e civiltà.
L’espansione
del mercato mondiale ha distrutto molti usi e costumi che non
possiamo certo ritenere accettabili solo perché caratteristici di
culture vecchie di secoli. Sostituire la scienza alla magia è
stato un progresso per il genere umano, come lo è poter leggere in
Italia le opere di Confucio e quelle di Aristotele in Cina. Anche se
le femministe radicali non lo sanno l’unificazione del mondo ha
contribuito moltissimo alla emancipazione della donna. Pensare che
sia da accettare tutto ciò che è parte di vecchie culture e civiltà
è solo
stupido.
Le
critiche al mondialismo condotte da un punto di vista marxista, a
parte il valore dei loro argomenti, poggiano quindi su basi teoriche
decisamente fragili, ma,
a parte i richiami al vecchio Marx, quali sono oggi le
caratteristiche di quello che comunemente si chiama
“mondialismo”? Si va davvero, in maniera ineluttabile, verso un
mondo privo di differenze culturali o nazionali o quanto meno in cui
queste differenze siano semplicemente qualcosa di residuale?
Soprattutto, l’economia di mercato tende
davvero,
in
forza delle sue
leggi immanenti, verso
un
mondo di questo tipo? La risposta è a mio parere NO.
A
livello concettuale esiste una differenza radicale fra l’idea stesa
di omologazione e quella di scambio. Lo scambio avviene perché i
vari attori dello stesso sono diversi l‘uno dall’altro, quindi
mai interamente omologabili. Lo scambio e l’economia di mercato
basata sullo scambio esistono perché esistono le diversità fra gli
esseri umani. Tizio scambia con Caio perché è diverso da Caio, ha
gusti, esigenze, aspettative di vita non coincidenti con le
sue.
E fa parte a pieno titolo di queste differenze la cultura di Tizio,
il suo appartenere ad una determinata civiltà, l’essere cittadino
di un certo paese, parte
di una certa nazione,
avere alle spalle una certa tradizione. A livello sovra individuale,
i vari paesi hanno fra loro rapporti di scambio perché sono soggetti
autonomi, relazionati agli altri ma non coincidenti con questi. Il
mercato mondiale relaziona individui, paesi, culture, civiltà e
nazioni diverse, ma relazionare non vuol dire eliminare le
differenze, vuol dire metterle in contatto. Studiare
la filosofia cinese è per un occidentale fonte di arricchimento
culturale, ma questo arricchimento smetterebbe di essere tale se la
filosofia cinese diventasse non distinguibile da quella occidentale.
Una cosa è leggere Aristotele e Confucio, cosa completamente diversa
mischiare i due, confondere le
tradizioni storico culturali che stanno dietro al greco ed al cinese.
Vale per i singoli come, fatte
le debite differenze,
per nazioni, culture e civiltà: Fra il relazionamento e
l’omologazione che annulla le differenze non esiste identità
alcuna, esiste al contrario una autentica
incompatibilità.
Precisazioni
a parte, esistono certamente oggi nel mondo, meglio, nell’occidente
in crisi, forze potenti che premono nel senso della eliminazione
delle differenze. Vanno in questo senso i no border, per i quali i
confini non avrebbero oggi alcun motivo di esistere ed interi popoli
avrebbero il diritto di spostarsi liberamente da uno stato o
addirittura da un continente all’altro, senza alcun limite, vincolo
o controllo. Vanno nello stesso senso i teorici del “gender” per
i quali il sesso non sarebbe più una caratteristica essenziale degli
esseri umani ma una “scelta” che può cambiare da un anno, o da
un mese all’altro ed i teorici della “cancell culture”
che vorrebbero imporci di gettare alle ortiche una tradizione
culturale millenaria e di enorme rilevanza. In una parola premono per
la riduzione del mondo ad area grigia indifferenziata tutti coloro
che seguono le varie teorie del politicamente corretto, e dietro
questi pseudo teorici ci sono forze economiche potenti, legate alle
grandi multinazionali industriali
e finanziarie.
Tutto questo è vero e difficilmente contestabile.
Ma
si tratta, appunto, di settori, parti dell’occidente. Potenti fin
che si vuole ma non invincibili, cui si oppongono non tanto gli
strenui difensori di un localismo ormai indifendibile ma tutti coloro
che non identificano l’apertura all’altro con una “inclusività”
che nei fatti elimina il concetto stesso di “altro” e riduce il
mondo in una sorta di notte in cui tutte le vacche sono
grigie.
Parlando
delle forze potenti che tendono alla mondializzazione occorre porsi
una domanda: si tratta di forze espresse dalla dinamica spontanea del
mercato e che agiscono conformemente a tale dinamica? O non si tratta
piuttosto di forze certamente inserite nell’economia di mercato che
agiscono però in larga misura seguendo logiche proprie, che col
mercato e le sue dinamiche non hanno troppo a che vedere?
In
realtà il legame fra certe multinazionali
e
le dinamiche di mercato è alquanto
labile. I settori che maggiormente spingono per la mondializzazione
hanno il loro punto di maggior forza non nel mercato me nei legami
col potere politico. Si è parlato di capitalismo di relazione, o di
“modello cinese” e già la terminologia lascia intendere quale
sia il
carattere di fondo
del mondialismo economico: non la logica dello scambio e dei rapporti
mercantili ma la pretesa di programmare il più possibile l’economia.
Più
che ad un risveglio del “liberismo” stiamo
assistendo al tentativo, forse il primo nella storia, di una
programmazione a livello mondiale di interi settori dell’economia.
Gli
esempi sono numerosi:
si
cerca di imporre all’economia mondiale, o quanto meno occidentale,
nientemeno che una globale transizione energetica. In passato le
grandi rivoluzioni tecniche ed industriali partivano e si misuravano
con esigenze e domande di mercato. Oggi gruppi di burocrati si
riuniscono e stabiliscono che entro un certo numero di anni in
tutta Europa, meglio in tutto l’occidente, meglio ancora in tutto
il mondo, si dovranno produrre solo
auto elettriche. La UE poi è scatenata in scelte di questo tipo.
Sembra
che ai massimi
livelli di questa istituzione ci siano persone davvero convinte che
si possa programmare nientemeno che il clima del pianeta.
Entro pochi anni tutte le case di civile abitazione europee dovranno
avere certe caratteristiche “energetiche”, si TUTTE,
non solo quelle di nuova costruzione.
Per carità di patria evito ogni commento sulle innumerevoli
direttive europee tendenti a stabilire il diametro della pizze,
l’inclinazione del gambo dei carciofi o la portata degli sciacquoni
nei bagni pubblici e privati. Per farla breve: una autentica orgia
programmatoria che col “liberismo”, quale che sia il giudizio che
se ne può dare, poco ha a che vedere. E nulla ha a che vedere col
pluralismo liberale, molto poco con la stessa democrazia.
Certo,
la pretesa di imporre ad interi popoli processi migratori
incontrollati ha un certo sapore di “liberismo” ed alcune
analogie con lo stesso liberalismo, ma si tratta di analogie
superficiali. L’economia di mercato prevede ed auspica, ovviamente,
la libertà di movimento negli e fra gli stati, ma nessuno dei grandi
teorici del mercato ha mai teorizzato la scomparsa degli stati
stessi, né la loro marginalizzazione. Lo scambio economico, val la
pena di ripeterlo, avviene fra soggetti caratterizzati tutti dalle
loro caratteristiche naturali e socio culturali; processi
migratori privi di controllo distruggono o stravolgono in maniera
violenta proprio queste caratteristiche distorcendo in profondità
gli stessi rapporti di scambio. Permettere a masse enormi di esseri
umani di spostarsi liberamente
da un continente all’altro nulla ha a che vedere con la libertà
liberale e con la stessa libertà degli scambi. Sarebbe come se il
governo per garantire la libertà degli scambi permettesse a tutti di
entrare ed uscire a loro piacere da casa mia. La libertà liberale
presuppone la garanzia delle caratteristiche dei soggetti dello
scambio, compresa la libertà fondamentale di riconoscersi in una
certa cultura, appartenere ad un certo gruppo nazionale. Se questa
garanzia viene a mancare tutto crolla. Non a caso le potenti forze
economiche che mirano al mondialismo si servono delle loro relazioni
con la politica per cercare di imporre ai popoli l’idea distopica
di processi migratori privi di vincoli, limiti e controlli. Dietro al
fenomeno di portata storica del trasferimento in Europa di milioni di
africani ci sono, molto
più che gli automatismo del mercato internazionale,
le scelte politiche degli stati e, spesso, l’azione della malavita
organizzata.
L’equiparazione
fra liberalismo e liberismo, cose diverse anche se non opposte, e
di entrambi con una omologazione che elimina ogni diversità è nel
migliore, e più raro, dei cosi, un grossolano equivoco, assai più
spesso deriva da un autentico odio verso l’idea stessa di libertà
individuale. Si tratta di una nuova forma di radicale antiliberalismo
che unisce, paradossalmente ma non troppo, settori della destra
reazionaria e della sinistra nostalgica del comunismo.
Libertà
personali, pluralismo, mercato, democrazia rappresentativa vengono
spacciate come rifiuto della dimensione sociale dell’uomo,
abbandono nichilista di ogni valore, trionfo di un individualismo
gretto che trasforma le persone in pure macchine per consumare,
gregge senz’anima controllato dei “padroni del vapore”. Un modo
di ragionare che rivela tutta la propria vacuità se si pensa che
libertà, pluralismo e democrazia sono essi stessi valori sulla cui
base sorgono molti rapporti sociali differenziati. Ed ancora più
strana appare l’equiparazione delle società libere al gregge da
parte di chi esalta esperienze come quelle della Unione Sovietica
staliniana o della Cina maoista (nessuno osa manifestare rimpianti
nei confronti della Germania hitleriana, ma dovrebbe farlo, se avesse
un minimo di coerenza logica). Gli stessi che, rifacendosi malamente
a Nietzsche, strillano contro il gregge o la “massificazione”
delle moderne società industriali non sprecano una parola di critica
nei confronti di esperienze
caratterizzate dal più totale disprezzo, teorico e pratico, nei
confronti dell’individuo. Certo, esistono
in occidente importanti fenomeni di massificazione, da combattere
senza esitazione alcuna. Ma si tratta della patologia, non della
fisiologia dell’occidente e nulla è tanto fuorviante quanto
opporre a tale patologia il fascino discreto di paesi come la Russia
di Putin, la Cina di
Xi Jin Ping o l’Iran o la Corea del nord.
Il fascino che paesi
simili esercitano su settori non maggioritari ma neppure residuali
della
pubblica opinione occidentale
è un termometro che attesta quanto sia grave la crisi della nostra
civiltà. Motivo in più per combatterlo, senza se e senza ma.
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