domenica 1 dicembre 2013

MAXIMILIEN ROBESPIERRE E I SUOI TARDI EPIGONI



Ritengo sia più che mai attuale esaminare il discorso che Maximilien Robespierre pronunciò alla Convenzione il 3 dicembre 1792.Oggetto del discorso: la sorte di Luigi  sedicesimo, o Luigi Capeto.

Luigi non è imputato” afferma l'incorruttibile, “e voi non siete dei giudici; voi siete e non potete essere altro che uomini di Stato e rappresentanti della nazione. Non dovete emettere una sentenza a favore o contro un uomo: dovete prendere una misura di salute pubblica, dovete compiere un atto di provvidenza nazionale

Il processo a Luigi Capeto non mira a stabilire la colpevolezza o la innocenza di un uomo. Non mira a stabilirla in relazione a nessuna legge, neppure alle leggi che la Francia rivoluzionaria si è data. Non si tratta di stabilire se Luigi sia colpevole di aver violato le leggi della Francia repubblicana, se abbia commesso qualcosa che i legislatori repubblicani hanno definito “crimine”. No, Luigi Capeto va eliminato perché la sua stessa esistenza è un pericolo per la nazione. Quello che si sta celebrando davanti alla convenzione non è un processo, è un atto di salute pubblica.
Prosegue Robespierre:

Luigi non può dunque essere giudicato: è già giudicato. O egli è già condannato, oppure la repubblica non è assoluta. Proporre di fare il processo a Luigi XVI in questa o quella maniera, vuol dire retrocedere verso il dispotismo monarchico e costituzionale; è un'idea controrivoluzionaria, poiché mette in discussione la rivoluzione stessa. In effetti se Luigi può essere ancora oggetto di un processo, Luigi può essere assolto; può essere innocente. Cosa dico? È supposto innocente fino a che non sia stato giudicato. Ma se Luigi viene assolto, se Luigi può essere supposto innocente, che ne è della rivoluzione? Se Luigi è innocente, tutti i difensori della libertà diventano dei calunniatori.

Se Luigi Capeto viene processato, può essere ritenuto innocente, anzi, deve essere ritenuto innocente sino al momento della eventuale condanna, così argomenta Robespierre, che, va notato, prende talmente sul serio la presunzione di innocenza da considerarla un pericolo per la rivoluzione. Ma se Luigi Capeto è innocente è la rivoluzione ad essere colpevole. Processandolo la rivoluzione processa se stessa e questo è assolutamente inammissibile; quindi Luigi Capeto non deve essere condannato, non deve esserlo perché non deve neppure essere processato, deve solo morire.
La logica di Robespierre è tagliente come la lama della ghigliottina che usò in maniera tanto massiccia. Però, la logica garantisce solo la coerenza, non la verità, meno che mai la moralità. “Tutti gli uomini sono immortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è immortale” è un sillogismo perfettamente coerente dal punto di vista logico, ma è anche falso. La logica di Robespierre è stringente, ma parte da una premessa assolutamente inaccettabile che inficia, radicalmente, tutto il suo discorso. Quale è questa premessa? Semplice: per Robespierre la rivoluzione è un assoluto, qualcosa che viene prima di tutto e non deve giustificarsi di fronte a nulla, neppure di fronte ai principi ed ai valori che essa stessa sostiene. Non è vero che la rivoluzione è buona perché sostiene ed applica certi valori che gli esseri umani considerano buoni: libertà, uguaglianza, fraternità, ad esempio. No, sono questi valori ad essere buoni perché la rivoluzione è buona.
La logica di Robespierre,  spietata, tagliente, è la tipica logica del fanatico, assolutamente convinto che tutto, ma proprio tutto, possa essere sacrificato alla realizzazione dell'assoluto in cui crede. La rivoluzione non è per lui un mezzo per realizzare certi fini, certi valori; è un fine, meglio, il fine supremo di fronte a cui tutti gli altri fini decadono al rango di semplici mezzi. Le stesse leggi emanate in nome della rivoluzione, la stessa costituzione rivoluzionaria, non contano nulla di fronte alle esigenze della “Rivoluzione”.

Io ho chiesto l'abolizione della pena di morte all'assemblea che chiamate ancora costituente” continua Robespierre, ”Ma quando si tratta di un re detronizzato nel cuore di una rivoluzione tutt'altro che consolidata dalle leggi, (...) questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essere imputata soltanto alla natura dei suoi delitti. Io pronuncio con rincrescimento questa fatale verità.

La pena di morte contraddice ai principi di cui la rivoluzione si è fatta sostenitrice, ma può essere applicata se si tratta di difendere la rivoluzione dai suoi nemici. E come può essere applicata? Stabilendo di volta in volta se Tizio, Caio o Sempronio sono colpevoli di qualcosa? Stabilendo almeno se sono “davvero” nemici della rivoluzione? No, perché cosi facendo la rivoluzione rischierebbe di mettere in gioco se stessa. Può essere applicata come strumento di salute pubblica. Sarà la forza, meglio, la pura e semplice violenza a stabilire chi dovrà morire perché la “rivoluzione“ viva. La rivoluzione diventa in questo modo una idea astratta, una sostanza metafisica del tutto scissa dalle esigenze, dai valori, dagli interessi degli esseri umani in carne ed ossa. Non è la rivoluzione a servire gli uomini, sono gli uomini a servire la rivoluzione. Ed in effetti nel corso della storia a questa idea astratta saranno sacrificate vite umane in quantità industriali.
Luigi Capeto, e dopo di lui Maria Antonietta,  verranno ghigliottinati perché le loro vite rappresentavano un “pericolo per la rivoluzione”. Ma ben presto saranno gli stessi rivoluzionari a diventare “pericolosi” per la "rivoluzione”.  I Girondini e gli arrabbiati, la destra e la sinistra estrema usciranno di scena a colpi di decapitazioni. Danton, Desmoulins, Hebert e tanti altri saliranno la scala che conduce alla fredda lama della ghigliottina. Alla fine sarà la testa dello stesso Robespierre ad essere troncata dal corpo.
Una volta che la rivoluzione sia stata sostantificata, e che il principio della responsabilità personale sia stato abbandonato e sostituito da quello della “oggettiva pericolosità sociale”, tutto è possibile; ogni arbitrio, ogni delitto possono diventare prassi quotidiana.
La tragica esperienza del comunismo ha portato alle estreme, parossistiche, conseguenze le affilate argomentazioni di Robespierre. La “giustizia rivoluzionaria” ha distrutto interi strati sociali, etnie, popolazioni che collettivamente costituivano “pericoli” per la rivoluzione. E gli individui di volta in volta identificati come “pericolosi” non sono stati solo uccisi. La loro morte morale ha preceduto quella fisica. Danton è salito al patibolo a testa alta, la leggenda dice che abbia pronunciato la frase “tu mi seguirai Robespierre” mentre passava di fronte alla casa dell'incorruttibile. Per i vari esponenti della vecchia guardia bolscevica fatti massacrare da Stalin il destino è stato ben diverso. Prima di essere ammazzati hanno “confessato” crimini nefandi, si sono “volontariamente” cosparsi di fango. Hanno perso la dignità prima della vita. Anche questo era necessario alla “Rivoluzione”.

Italia, 30 Ottobre 2011. Antonio Ingroia, magistrato, interviene al congresso del Partito comunista d'Italia. Che un magistrato in carica intervenga al congresso di un partito politico, a maggior ragione di un partito che si dichiara nemico dell'ordine costituito, lo stesso che la legge deve tutelare, è fatto abbastanza anomalo, quanto meno nei paesi in cui il diritto è una cosa seria. In quella occasione  Ingroia disse: “Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni,  e non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti e certe stanze del potere lo è, ma io confesso, non mi sento del tutto imparziale, anzi, mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Anpi, ma sopratutto perché sono un partigiano della  Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”.
Ingroia qui non afferma di essere partigiano come privato cittadino, tutti abbiamo diritto, come privati cittadini, di essere “di parte”, si riferisce, al suo ruolo di magistrato, polemizza addirittura con “certa magistratura” che frequentando le stanze del potere, è parziale, per lui, dalla parte sbagliata. Il magistrato però, in quanto magistrato, deve solo applicare le leggi. Se Tizio è accusato di furto il magistrato deve esaminare i fatti ed appurare se esistono a carico di Tizio prove sufficienti a farlo condannare. Che Tizio ami la costituzione o non la ami, che sia un politico che vorrebbe modificarla radicalmente o uno che non vorrebbe cambiarne neppure una virgola, non deve avere alcuna rilevanza quando si  tratta di stabilire se Tizio è o non è colpevole di furto. Dalle parole di Ingroia emerge invece una concezione ben diversa del ruolo del magistrato. Ben prima di appurare i fatti e valutare le prove compito del magistrato è “difendere la costituzione”. Una volta che il magistrato abbia stabilito, a suo insindacabile giudizio, che Tizio è un “nemico della costituzione” egli, a piena ragione, non è più imparziale nei suoi confronti, lo considera uno che vorrebbe “violare, violentare, stravolgere” la costituzione “più bella del mondo”, quindi un nemico della democrazia. Se un magistrato che si dichiara “partigiano” e il cui compito è la “difesa della costituzione”, si trova a dover decidere se Tizio, nemico della costituzione, è o non è un ladro, in base a cosa deciderà? In base allo prove relative al furto, o in base alla sua dichiarata partigianeria politica? E' o non è lecito sospettare che un simile magistrato userà l'indagine sul furto come un'arma per colpire chi considera un nemico della costituzione, quindi della democrazia, della giustizia, e chi più ne ha più ne metta? La domanda è piuttosto retorica, lo ammetto.

Dalle parole di Ingroia emerge la stessa concezione di Maximilien Robespierre. Il giudice non è chiamato ad appurare imparzialmente le responsabilità personali di Tizio o Caio, ma ha il compito di colpire i nemici di un certo ordinamento, di una certa costituzione. Nel processo a Luigi Capeto Robespierre assolve a questa funzione direttamente: non accusa Luigi di furto o corruzione, dice chiaramente che va eliminato perché è stato re. Ma già con Danton si comporta diversamente. Danton sarà accusato di “corruzione” (guarda un po'...)  e mandato alla ghigliottina dopo un processo farsa in cui però il grande oratore aizzerà la folla contro i suoi giudici partigiani, mettendoli spesso in difficoltà. L'accusa di corruzione era un mero pretesto, ovviamente, anche se in effetti pare che Danton amasse gli agi del bel vivere.
E, esattamente come Robespierre viola i principi della rivoluzione francese in nome della “difesa della rivoluzione”, Ingroia, teorizzando la parzialità del giudice, viola i principi di quella costituzione di cui pensa di essere il più strenuo difensore. Il secondo comma l'articolo 111 della costituzione dichiara infatti: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.” Non si potrebbe concepire qualcosa di più lontano dalla teorizzazione della partigianeria del magistrato. Ma, tutto questo non preoccupa un “magistrato partigiano”: se violare la costituzione serve a difenderla egli non avrà dubbio alcuno sulla scelta da fare.

Antonio Ingroia non è affatto una eccezione, è diverso da tanti altri perché ha, se non altro, l'onestà di esporre chiaramente il suo pensiero. C'è chi ha affermato che ogni confronto fra il giustizialismo diffusissimo nel nostro paese e il giacobinismo è insensato. Col giacobinismo il potere politico  usava ai suoi fini i magistrati, i magistrati italiani invece rivendicano con forza la loro autonomia dal potere politico. C'è un pizzico di verità in questa affermazione. Nella Francia giacobina il potere politico si sostituiva ai magistrati, nella Italia di oggi la magistratura tenta di sostituirsi (con ottimo successo) al potere politico. L'essenza del giacobinismo però non è costituita, come fanno finta di credere i giustizialisti meno stupidi, dalle “pressioni” politiche sulla magistratura. Questa essenza è costituita dalla politicizzazione della giustizia, e per politicizzazione della giustizia non deve intendersi solo il fatto che la giustizia favorisca questo o quel partito. No, la giustizia si politicizza quando si pretende di risolvere giudiziariamente i problemi generali della società, quando inchieste, processi e carcere servono non per punire i reati eventualmente commessi da Tizio e Caio, ma, come ebbe a dire tempo fa un noto magistrato di "mani pulite", per "rivoltare la società come un calzino". Che ad usare la giustizia a fini politici siano i politici  o gli stessi magistrati è tutto sommato la cosa meno importante.

Indipendentemente da ogni ulteriore considerazione sul ruolo politico della magistratura, ad impressionare è il numero sempre maggiore di novelli Robespierre che circolano oggi nel nostro povero paese. Siamo letteralmente circondati da branchi di fanatici pronti a presentare le proprie idee, o i valori in cui credono, come nuovi, indiscutibili assoluti. Che si tratti di ecologisti mistici o di strenui difensori del sacro dovere di pagare le tasse, di fanatici dell'onestà o di angioletti che, traboccanti bontà, son pronti ad accogliere nel nostro paese tutti gli sventurati del pianeta, la musica non cambia: la affermazione di certi ideali e di certi valori è il fine supremo, da realizzare senza guardare in faccia nessuno, costi quel che costi. E chi, timidamente, invita a tener conto anche di altre esigenze, di altri valori, a valutare le conseguenze di una applicazione estremistica di certe visioni del mondo, viene subito bollato come un essere malvagio, un uomo egoista, che pensa solo al suo miserevole tornaconto personale, in breve un uomo da isolare, controllare, reprimere. E se anche la stragrande maggioranza degli esseri umani fosse composta da malvagi di tal fatta le cose non cambierebbero affatto. Perché, come per Robespierre, per i nuovi fanatici, idee e concezioni del mondo non servono agli uomini, ma gli uomini servono alle idee ed alle concezioni del mondo. Ed esattamente come accadeva per la giacobina “virtù rivoluzionaria”  ai nuovi ideali assoluti si possono sacrificare gli esseri umani, senza riguardo alcuno. 
In una cosa però i nuovi fanatici differiscono da Maximilien Robespierre. Non hanno la tragica, cupa grandezza dell'incorruttibile, non ne posseggono la logica spietata, la coerenza, il coraggio. Sono, insomma degli uomini piccoli, come piccoli sono, in fin dei conti, i loro ideali. Libertè, egalitè, fraternitè sono state sostituite da: pagare le tasse! Consumare meno acqua! Presentare tutte le ricevute per i rimborsi elettorali! Arrestare Berlusconi! La virtù rivoluzionaria si è trasformata in radicalismo da salotto, buonismo ipocrita, odio livido nei confronti di un uomo. Robespierre suscitava terrore, i vari Santoro, Flores D'arcais, Travaglio solo uno scoramento infinito, ed un certo senso di nausea.

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