venerdì 2 maggio 2014

DALLI ALL'UNTORE!



C'è la crisi? La colpa è di certo di qualche oscuro speculatore, magari un finanziere ebreo, o del “pregiudicato”. Non si trova lavoro? Il lavoro c'è, ma non ce lo vogliono dare. Una epidemia si diffonde? Colpa delle multinazionali del farmaco che vogliono far profitti sulle sofferenze del popolo. Il terrorismo islamico genera morte e distruzione? Tutte palle! I responsabili di quelle morti sono i grandi petrolieri, la Cia ed i sionisti. Di tutto occorre trovare i responsabili. Non interessano le cause, le eventuali responsabilità politiche, i grandi movimenti di massa, spesso fanatici. No, interessa scovare i responsabili giuridici: pochi individui perversi che organizzano complotti per ingrassare sulle spalle della povera gente.
Non è una novità. E' molto più facile strillare contro pochi mascalzoni che comprendere i meccanismi di una crisi economica, o il perché di comportamenti irrazionali che coinvolgono milioni e milioni di persone.
Nel 1630 scoppiò a Milano una terribile epidemia di peste che dimezzò, o  ridusse di oltre due terzi, la popolazione della città.  Capirne le cause reali era molto difficile, ma fu subito trovata una “causa” ad hoc: i malefici “untori”. Così alle vittime della peste si aggiunsero quelle dei linciaggi e delle esecuzioni capitali decise in fretta e furia al termine di processi farsa. 
Ecco alcuni brani del capitolo dei “promessi sposi” in cui il Manzoni descrive splendidamente questa follia. Frammenti di altissima letteratura, fuori moda ai giorni nostri, eppure di tragica attualità.  Se si ascoltano con un minimo di attenzione le farneticazioni di un Grillo ci si rende subito conto che altro non sono se non la riproposizione del manzoniano “dalli all'untore!”.

Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d'averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell'uno e dell'altro era stato pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. "Quel vecchio unge le panche!" gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. "Io lo vidi mentre lo strascinavan così," dice il Ripamonti: "e non ne seppi piu altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento."
L'altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de' contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giú per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d'un ragazzo, si sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento.
(...)
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de' vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su' davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l'accompagnavano con le loro preci. L'altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all'occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su' muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell'altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d'Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de' vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. "Vide pertanto," dice uno scrittore contemporaneo, "l'istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l'empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l'acquisto." Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co' fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, "per le diligenze fatte o, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila." Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de' morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da' registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.
(...)
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l'era peste, e s'attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell'unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n'erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, "che sino al far del giorno vi dimororno."
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d'osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d'idee possa essere scompigliata da un'altra serie d'idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.
(…)
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l'impiegarono a cercar di questi untori. (...)
I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d'un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Ché, per tacere dell'antichità, e accennar solo qualcosa de' tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l'affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors'anche il più osservabile; o, almeno, c'è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici.

Nessun commento:

Posta un commento