E’ assai nota una critica che Karl Marx muoveva al modo di produzione capitalistico. Par Marx il capitalismo era incapace di assicurare lo sviluppo delle forze produttive. La contraddizione fondamentale del capitalismo era per Marx quella fra sviluppo delle forze produttive sociali e rapporti di produzione borghesi. I rapporti di produzione borghesi impedivano il pieno dispiegamento della capacità produttiva dell’uomo, costituivano un limite allo sviluppo economico, scientifico e tecnologico. Questo, per Marx, rendeva il capitalismo un sistema socio economico storicamente provvisorio. La classe operaia nella sua lotta contro il capitalismo era portatrice di interessi universali perché, distruggendo i rapporti di produzione borghesi, avrebbe eliminato il limite fondamentale che impediva la crescita economica.
Se
paragoniamo la concezione di Marx a quelle che vanno oggi per la
maggiore in vaste aree politiche e sociali (non solo di estrema
sinistra) assistiamo ad un autentico capovolgimento di paradigma.
L’economia di mercato ora non è più accusata di essere un, anzi,
il limite dello sviluppo ma di non rispettare limite alcuno.
L’economia capitalistica, affamata di profitto, persegue uno
sviluppo insensato e distruttore. Il mercato impone agli esseri umani "modelli di
consumo alienanti", distrugge senza ritegno le risorse naturali e
l’ambiente, elimina la biodiversità. Insomma, è lo sviluppo,
non la sua assenza ad essere imputato con sempre maggiore insistenza
all’economia di mercato. Certo, le cose non sono sempre tanto
semplici. Gli stessi che accusano il capitalismo di non rispettare
limite alcuno sono poi i primi a protestare quando l’economia entra
in recessione e l’occupazione ristagna o decresce. Al di la di tutti
i contorcimenti dialettici, i sofismi e le contraddizioni, il
mutamento di paradigma è però abbastanza evidente. Era stato
inaugurato nel secolo scorso dalla scuola di
Francoforte ed ora si è solo banalizzato, guadagnando in estensione
ciò che ha perso in rigore.
L’economia
di mercato dunque non conosce né rispetta limite alcuno. Sempre a
caccia di profitti è pronta a distruggere il pianeta pur di far
crescere dello 0,01% gli utili delle imprese. E’ corretta questa
concezione? L’ideologia ambientalista si è sviluppata, è
cresciuta ed ha ottenuto dei risultati (sulla cui bontà non mi
pronuncio) nelle aree capitalistiche classiche, è stata invece del
tutto assente nei paesi ex comunisti o in quelli in via di sviluppo.
Inoltre è sorto e si è sviluppato nei paesi capitalistici un
autentico business ecologico. Fior di imprese capitalistiche
producono pannelli solari, impianti eolici o depuratori o alimenti
biologici. Il richiamo alla natura domina la pubblicità, vette
incontaminate e mari cristallini sono le offerte più gettonate di
innumerevoli agenzie turistiche. Forse il capitale distrugge
l’ambiente, ma l’ambiente si sta dimostrando un ottimo affare per
molti capitalisti. Questi semplici fatti dovrebbero indurre quanto
meno alcuni dubbi in certe menti troppo dogmatiche.
Il
capitale ha per fine il profitto ma possono ottenere profitti sia le grandi imprese industriali che quelle che, nel settore dei servizi, producono beni immateriali. Fa profitti l’impresa che costruisce impianti colossali come quella che si specializza nella miniaturizzazione, fanno profitti sia
l’agenzia turistica che si rivolge ad un pubblico di massa sia quella che organizza gite in parchi ecologici in cui non si può
neppure cogliere un fiore. Equiparare la crescita economica ad
inquinamento e distruzione dell’ambiente significa avere, nella
migliore delle ipotesi, una visione unilaterale della realtà.
Grazie allo sviluppo tecnologico oggi è possibile produrre quantità enormi di beni utilizzando una quantità di materie prime molto minore che in passato. Per la costruzione della HMS Victory , un vascello a tre ponti della regia marina britannica, furono necessari, nel 1760, oltre 6000 alberi, querce per il 90% e per il resto olmi, pini e abeti. Oggi è possibile costruire navi più grandi, enormemente più sicure e veloci utilizzando quantità molto inferiori di materie prime. Non solo si risparmia il legno ma molti materiali con cui sono costruite navi, auto ed aerei sono fabbricati in laboratorio (si pensi alle plastiche o alle resine in fibrovetro) con impatto ambientale nettamente inferiore che in passato. I paesi più inquinati del mondo sono quelli meno sviluppati: il Gange è molto più inquinato del Tamigi. Quando le vetture a trazione animale non erano ancora state sostituite dalle auto le strade della grandi città erano letteralmente intasate dai rifiuti organici animali, Londra era simile ad una fogna a cielo aperto. E’ stato il sistema fognario, figlio dello sviluppo industriale, a rendere meno inquinate e più salubri le città. Gli esempi potrebbero continuare. Il tempo andato ci appare bello solo perché non ci viviamo.
Grazie allo sviluppo tecnologico oggi è possibile produrre quantità enormi di beni utilizzando una quantità di materie prime molto minore che in passato. Per la costruzione della HMS Victory , un vascello a tre ponti della regia marina britannica, furono necessari, nel 1760, oltre 6000 alberi, querce per il 90% e per il resto olmi, pini e abeti. Oggi è possibile costruire navi più grandi, enormemente più sicure e veloci utilizzando quantità molto inferiori di materie prime. Non solo si risparmia il legno ma molti materiali con cui sono costruite navi, auto ed aerei sono fabbricati in laboratorio (si pensi alle plastiche o alle resine in fibrovetro) con impatto ambientale nettamente inferiore che in passato. I paesi più inquinati del mondo sono quelli meno sviluppati: il Gange è molto più inquinato del Tamigi. Quando le vetture a trazione animale non erano ancora state sostituite dalle auto le strade della grandi città erano letteralmente intasate dai rifiuti organici animali, Londra era simile ad una fogna a cielo aperto. E’ stato il sistema fognario, figlio dello sviluppo industriale, a rendere meno inquinate e più salubri le città. Gli esempi potrebbero continuare. Il tempo andato ci appare bello solo perché non ci viviamo.
Equiparare sviluppo e distruzione ambientale significa avere una
concezione puramente quantitativa dello sviluppo, concezione che
ignora del tutto la tecnologia. Sviluppo economico non vuol dire solo
produrre più beni, vuol dire produrre più beni in maniera più
efficiente, con minor consumo di risorse, quindi con minore impatto
ambientale. Questo significa che tutto va bene, che non esiste un
problema di gestione razionale di risorse scarse ed esauribili? No,
ovviamente. Vuol dire solo che occorre evitare di affrontare in
maniera superficiale e propagandistica certi temi.
Una
economia capitalistica senza incremento della produzione del resto è
perfettamente ipotizzabile, lo stesso Marx ne ha parlato affrontando
il problema della riproduzione semplice. Una economia di mercato in
cui tutti i profitti siano consumati e quindi non reinvestiti, o in
cui le imprese non conseguano alcun profitto, ed il capitalista debba
“accontentarsi” della remunerazione che gli spetta per il suo
lavoro di coordinamento e direzione, è perfettamente concepibile,
così com’è concepibile una economia capitalista in cui la
produzione globale invece di crescere si contragga. Si tratta di
modelli puramente teorici? No, purtroppo. Si tratta della realtà
delle economie capitalistiche nelle fasi di stagnazione o di
recessione. Non è la sete di profitto a determinare lo sviluppo
economico, per lo meno non è solo quella. L’economia si sviluppa
se gli imprenditori fanno gli investimenti giusti, se i beni che
immettono sul mercato trovano acquirenti in grado di comprarli, se
esiste una domanda solvibile.
E come può esistere un capitalismo senza incremento dello sviluppo
può esistere, anzi, esiste ed è esistita una economia centralmente
pianificata letteralmente pervasa dalla frenesia di uno sviluppo
senza limiti. I piani quinquennali di Stalin, il gran balzo in avanti
di Mao sono esempi clamorosi di economie pianificate impegnate in
progetti di crescita economica incuranti di ogni limite. Il
volontarismo sfrenato di uno Stalin o di un Mao, il loro ripudio di
ogni vincolo, il disprezzo per l’oggettività delle leggi
economiche hanno portato a drammi storici di immane portata al cui
confronto impallidiscono i costi umani e sociali della accumulazione
originaria capitalistica.
Per
molti critici dell’economia di mercato la razionalità
capitalistica sarebbe concentrata solo sul processo produttivo.
Attenta a calcolare i costi ed i ricavi dell’attività produttiva
la razionalità “borghese” non darebbe la minima importanza a
tutto ciò che sta a monte o a valle di questa attività. A monte
della produzione stanno le risorse naturali alla cui conservazione il
capitalismo non sarebbe minimamente interessato, a valle stanno i
bisogni degli esseri umani che non interesserebbero minimamente la
produzione capitalista.
Si tratta però di uno schema profondamente errato. In realtà non
è possibile organizzare razionalmente il processo produttivo se non
si presta la massima attenzione a tutto ciò che sta a monte ed a valle dello stesso.
Davvero si può pensare che all’imprenditore non interessino i
bisogni degli esseri umani? Ma è da questi bisogni che dipendono i
suoi profitti! Ciò che distingue il buon imprenditore è
precisamente la capacità di capire “come spira il vento”, di
intuire che certi beni possono avere una buona accoglienza sul
mercato, che certi altri si avviano invece verso una rapida, o meno
rapida, obsolescenza. Caso mai è il burocrate pianificatore che può
disinteressarsi dei bisogni della gente. Se una burocrazia politica
controlla la totalità delle forze produttive può fare le scelte che
vuole senza alcun timore. Dove lo stato decide, lui solo, cosa, quanto e come produrre i consumatori non hanno scelta: o consumano ciò che lo stato offre loro o non consumano. La loro scelta, quale che sia, non guasta i sonni del burocrate.
E, allo stesso modo, è davvero possibile ipotizzare che una classe
imprenditoriale degna di questo nome non si interessi della scarsità o
dell’abbondanza di certe risorse, o sia del tutto indifferente all'impatto ambientale della sua attività? Sarebbe razionale investire fior
di miliardi in una attività legata a materie prime in via di
esaurimento? Sarebbe un buon l’imprenditore chi
si disinteressasse del problema del reperimento di fonti di energia
abbondanti e a buon mercato? Se le città fossero sommerse dai
rifiuti a qualche imprenditore del settore verrebbe mai in mente di
aprire in queste città una catena di ristoranti?
Certo, esistono imprenditori che hanno una visione molto ristretta
del loro ruolo, mirano solo all’utile immediato, nella smania di
arraffare più che possono vendono prodotti scadenti o pericolosi e
non si preoccupano affatto dell’impatto della loro attività
sull’ambiente e la salute. L’imprenditore è un uomo, un uomo
certamente assai sensibile al profumo del denaro. E’ anche per
questo che esistono le leggi, le regole del gioco, la politica.
Tutte
le considerazioni fatte finora si prestano ad una obiezione che può
essere formulata più o meno in questi termini: “Il capitalismo, il
capitalismo sano, non quello che attraversa fasi di recessione o
stagnazione, mira allo sviluppo, alla crescita economica. Ma lo
sviluppo, anche se efficiente e razionale, anche se attento all’uso
ottimale delle risorse, consuma risorse, le consuma sempre e
comunque. Le risorse però sono limitate. Una crescita
economica che prosegua indefinitamente è quindi inevitabilmente
destinata a scontrarsi con i limiti che madre natura pone all’agire
dell’uomo. Se vogliamo salvarci dall’auto distruzione dobbiamo
rallentare prima e bloccare poi lo sviluppo economico, quindi
superare il capitalismo”.
Anche se sono in pochi a parlare tanto chiaro, una simile posizione è
sottintesa praticamente in tutte le analisi dell’ecologismo
radicale: ad essere messo sotto accusa è lo sviluppo in quanto tale.
Il capitalismo deve essere condannato perché mira allo sviluppo, ma
allo stesso modo vanno condannate più o meno tutte le ideologie
“sviluppiste”, comprese quelle socialiste. Andando ancora più a
fondo ci si rende conto che la critica riguarda la stessa natura
umana, almeno così come essa si è storicamente manifestata. La
tendenza dell’uomo ad andare costantemente oltre la propria
situazione data, a non adattarsi all’ambiente, il rifiuto,
tipicamente umano, di essere una semplice componente di qualche
eco-sistema sono alla base di un’azione insensata che porta alla
distruzione e all’auto distruzione. A parte ogni considerazione su
quelli che sarebbero i risultati di una coerente messa in pratica di
simili concezioni, occorre vedere se esse sono davvero fondate e per
far questo occorre analizzare il concetto stesso di limite.
A
prima vista può sembrare che un limite costituisca una sorta di
barriera contro cui inevitabilmente deve scontrarsi chi va in una
certa direzione non curandosi del fatto che il limite esiste. Il
limite impedisce che qualcosa possa espandersi indefinitamente,
la presenza di un limite ha come sua inevitabile conseguenza che
qualcosa debba essere bloccato se non vuol cozzare contro quel
limite. Il limite è compatibile con uno stato stazionario ed è
incompatibile con uno stato indefinitamente dinamico.
Questa concezione del limite però, assai rozza e primitiva, vale
solo in un numero limitato di casi. Se io corro in auto incurante del
fatto che di fronte a me c'è un muro faccio di certo una brutta
fine. Però la presenza di un muro in una certa direzione non mi impedisce di continuare a
correre in altre direzioni. Teoricamente potrei correre in auto tutta
la vita senza mai scontrare contro il muro, il limite che esso
costituisce non mi impedisce di proseguire indefinitamente la mia
attività di guidatore. Ed ancora, la terra è limitata eppure ci si
può muovere all’infinito sulla terra senza incontrare limite
alcuno. Se parto dal punto X diretto verso oriente e continuo a
muovermi dopo un po’ di tempo mi ritrovo nel punto X. Lo spazio che
ho percorso è limitato, ma io posso continuare illimitatamente a
muovermi nella stessa direzione. La concezione matematica di limite
dal canto suo ci dice che i valori di una funzione con X che tende ad
infinito si avvicinano indefinitamente ad un certo valore (il limite,
appunto) senza mai raggiungerlo. Insomma, l’idea secondo cui
esisterebbe una incompatibilità assoluta fra presenza del limite e
crescita dinamica si basa su una concezione del tutto inadeguata di
ciò che è un limite. Non è vero che il limite è compatibile
solo con stati stazionari, esso è del tutto compatibile anche con
stati dinamici.
Abbandoniamo
le considerazioni di carattere generale per affrontare più da vicino
il problema di cui stiamo discutendo.
Di che tipo può essere un limite all’attività umana, più
precisamente il limite che la scarsità delle risorse pone
all’attività umana? Si possono a mio parere individuare tre tipi
di limiti di questo genere, per brevità li chiameremo limite A,
limite B e limite C.
Limite A. Poniamo che un uomo di 40, impossibilitato a lavorare, anni abbia a disposizione, per far fronte
alle sue necessità da oggi alla fine dei suoi giorni, la cifra di duecentomila euro, che non può in alcun modo investire e far fruttare. Si tratta di un limite stringente che lo obbliga,
se non vuole morire di fame, ad uno stile di vita estremamente
"sobrio", diciamo pure assai povero. Se davvero il soddisfacimento dei suoi desideri fosse condizionato da un simile limite qualsiasi
miglioramento del suo stile di vita sarebbe impossibile. Un simile limite lo obbligherebbe ad un
livello di consumo stazionario o decrescente.
Limite B. Poniamo che la somma a disposizione di quest'uomo non sia non
di duecentomila ma di duececento miliardi di euro. Anche in questo
caso il limite esisterebbe, ma a tutti gli effetti pratici sarebbe
come se non esistesse. La somma a sua disposizione sarebbe tanto
elevata che la sua attività di consumatore, anche se voracissima, non incontrerebbe
limite alcuno.
Limite C. Il nostro amico dispone dei suoi duecento di
miliardi di euro, fa una vita piuttosto bella e gradevole, anzi,
diciamo pure che se la spassa. Il fatto che la somma a sua
disposizione sia limitata non gli da alcun pensiero. Però.. però
deve morire, prima o poi. Tutti i suoi divertimenti finiranno un
giorno, non si scappa. Siamo di fronte ad un terzo tipo di limite che
non ha relazione col livello dei consumi e con le risorse a disposizione di ognuno di noi. Si tratta di un limite esterno alla vita terrena,
un limite che delinea l’area al cui interno ha senso parlare di
consumi e risorse, ricchezza e povertà, limiti.
L’uomo ha sempre a che fare con tutti e tre questi limiti. Certe risorse sono molto limitate e ci impongono un loro uso estremamente oculato e parsimonioso. Certe altre sono talmente abbondanti da potersi considerare praticamente illimitate. Infine, quale che sia il nostro rapporto col mondo e le sue risorse, siamo comunque limitati, oberati da una limitatezza che nessuna tecnologia, nessuna razionalità scientifica potranno riuscire ad eliminare. Il limite fa parte della nostra essenza di esseri razionali finiti. Ci piaccia o non ci piaccia siamo mortali e nessuno sviluppo, nessun progresso potrà renderci uguali o simili a Dio. Ma non potrà renderci uguali o simili a Dio neppure alcun “ritorno alle origini”, alcuna regressione a mera componente di qualche ecosistema, parte di un tutto armonioso che ci sovrasta. L’assoluto è al di fuori della nostra portata, sempre, in tutti i casi.
Il
limite C delimita il campo della nostra azione ma non
impedisce che questa sia dinamica. La crescita economica non ci farà
mai superare la nostra finitezza, ma la finitezza non costituisce un
vincolo contro cui la crescita economica possa o debba scontrarsi. Io
posso passare tutta la vita seduto a guardare il nulla o occupato in
una miriade di attività diverse. Morirò comunque e il fatto che
debba morire non ha nulla a che fare col modo in cui ho speso la mia
vita.
Il discorso è del tutto diverso nel caso dei limiti A e B.
Qui il limite non è limite alla vita e al mondo, ma nella vita e nel mondo, non
delimita l’area del nostro agire ma sorge in quest’area.
I limiti A e B ci obbligano alla stagnazione? Rendono
irrazionale la ricerca di una costante crescita economica? Le
considerazioni fatte in precedenza non possono che spingerci ad una
risposta negativa. E’ chiaro che il limite di tipo B nei fatti non
è un limite per noi, ma anche il limite di tipo A non impone alcun
blocco assoluto allo sviluppo. L’inventiva umana. La scoperta e
l’innovazione, la tecnologia consentono di utilizzare meglio, in maniera sempre più efficiente e
razionale le risorse, consentono anche di passare dall’utilizzo di una risorsa
a quello di un’altra. Grazie alla sua attività l’uomo può
trasformare molti limiti di tipo A in limiti di tipo B. La
risorsa A è molto scarsa se ce ne occorre moltissima per produrre
certi beni, ma se grazie all’innovazione tecnologica, riusciamo a
produrre questi beni con quantità decrescenti di A tale risorsa
diventa abbondante. Inoltre si può passare dall’utilizzo di A
all’utilizzo di B, dall’utilizzo di B a quello di C e questo
molto tempo prima che A o B siano esauriti. L’età della
pietra non è finita quando non ci sono state più pietre a
disposizione degli esseri umani, ma quando è stato possibile
costruire con altre materie prime una serie di utensili. Se alcune
risorse sono limitate nel senso A, tutte insieme possono considerarsi
limitate in senso B, a condizione naturalmente che ci si rapporti
alle risorse disponibili in maniera intelligente e responsabile, che
si faccia ricorso alla ricerca ed alla innovazione tecnologica.
Tornando per un attimo all’esempio di limite in senso A che
si è fatto in precedenza, è chiaro che chi dovesse vivere il resto dei suoi giorni con duecentomila euro a disposizione sarebbe condannato
alla povertà, dato l’attuale livello dei prezzi, l’attuale
volume della produzione e della ricchezza disponibile. Un altro
livello di ricchezza sociale, un altro livello dei prezzi
trasformerebbero invece quei duecentomila euro in due milioni di euro
e forse più. Il limite, che esiste sempre, non è mai totale ed
assoluto, è sempre variabile, relativo.
Il senso di quello che si è detto è molto semplice in fondo.
Occorre tenere conto dei limiti e questa è la condizione
indispensabile affinché questi limiti non ci impediscano di
svilupparci, non si trasformino in freni assoluti al nostro operare.
E’ possibile migliorare costantemente il nostro tenore di vita
anche in presenza di risorse limitate. Non è un paradosso, è la
storia del genere umano.
Un
grosso scimmione osserva un mucchio di ossa. Le sfiora con la mano
pelosa, poi afferra un osso, un osso grosso, robusto. Lo agita, lo
guarda. Colpisce con il grosso osso che tiene in mano un altro osso,
lì, per terra. Lo colpisce di nuovo e poi ancora di nuovo. I colpi
sempre più forti frantumano le ossa che giacciono ai piedi
dello scimmione. Lo scimmione è felice, salta in preda all’euforia,
emette suoni gutturali…
E’ una delle scene centrali del capolavoro di Stanley Kubrick
“2001 odissea nello spazio”. Tutti la ricordano, penso, e ricordano
anche come prosegue il film. Lo scimmione usa l’osso per cacciare,
affronta con la sua arma un altro scimmione e lo uccide. Esaltato
dalla vittoria getta in aria l’osso. L’osso vola in alto,
sempre più in alto e.. si trasforma in una astronave.
La scena è splendida non solo per la assoluta maestria con cui è
girata, o per il magnifico accompagnamento musicale. Ciò che
colpisce nella scena è il pensiero che molto probabilmente qualcosa
di simile è davvero accaduto, da qualche parte nel mondo, tantissimo
tempo fa.
Un niente separa l’osso dall’astronave, lo scimmione dall’uomo
super tecnologico che è il protagonista del resto del film. Il vero
salto di qualità nella storia del genere umano lo fa lui, lo
scimmione, quando afferra l’osso e “capisce” che quello non è
solo un osso da spolpare o da triturate coi denti.
Quell’osso può essere qualcosa di diverso, può essere un’arma,
può dare allo scimmione semi intelligente un vantaggio decisivo
nella lotta per la sopravvivenza. Usando l’osso come un’arma lo
scimmione compie una operazione tecnologica fondamentale: smette di consumare semplicemente gli oggetti che lo circondano, inizia ad usarli per soddisfare le proprie esigenze; smette in
qualche modo di essere uno scimmione, inizia a diventare uomo.
L’uomo non è solo un animale razionale, e simbolico, e politico,
è anche un animale tecnologico. Tutti quelli cha accusano la
tecnologia di “alienare “ l’uomo dimenticano la banalissima
verità che l’impulso a modificare il mondo, a compiere operazioni
tecnologiche, è parte essenziale della natura umana. A qualcuno non piace tutto questo? Preferirebbe che tutti noi fossimo mere
componenti di un ecosistema? Considera vuota arroganza la pretesa di
modificare a nostri fini l’ambiente in cui viviamo? Liberissimo di
pensarla in questo modo. Solo, non se la prenda col capitalismo, con
la scienza o con la società dei consumi. Se la prenda con la natura,
metta sul banco degli imputati una selezione naturale durata milioni
di anni.
Le
concezioni contro cui si è polemizzato in questo scritto hanno
almeno tre aspetti molto negativi e pericolosi.
In primo luogo è sottesa ad esse una visione profondamente
totalitaria della vita e dell’uomo. In nome di un preteso ritorno
all’armonia con la natura si vorrebbero imporre agli esseri umani
determinati stili di vita. Il sacrosanto diritto di ognuno a
scegliere come condurre la propria esistenza viene oggi sempre più
messo in discussione. Non si tratta dei limiti che
ogni convivenza civile pone alla libertà di ognuno, si tratta del
tentativo di limitare in maniera drastica la nostra libertà per
imporre a tutti un modo di vivere indicato surrettiziamente come
l’unico compatibile con la sopravvivenza del pianeta. Guardando i
telegiornali a volte si ha la sensazione di ascoltare le
raccomandazione della figlia di Homer Simpson: “Se nessuno usasse
l’auto”..”se nessuno prendesse l’aereo”.. “se ci
lavassimo di meno”.. “se non usassimo lo sciacquone nel bagno”
.. “se non dimenticassimo accese le luci di casa”.. “se non
mangiassimo carne”. Molti guru dell’ecologismo radicale, che dal
canto loro consumano quantità enormi di energia, viaggiano in aerei
privati, hanno ville con megapiscine riscaldate ecc. (ogni accenno ad
Al Gore è voluto), molti di questi guru dicevo, considerano ottimale
un determinato rapporto fra uomo e natura e vorrebbero che tutti si
comportassero in un certo modo affinché questo rapporto potesse
affermarsi. Il loro astratto modello di armonia ecologica conta per
questi signori molto di più della libertà per ognuno di noi.
In secondo luogo certe concezioni ignorano del tutto, malgrado le
belle parole, il dramma della fame e del sottosviluppo. Certo, ci si
sciacqua molto la bocca, oggi, con formule magiche tipo “sviluppo
sostenibile”, ma cosa significano in concreto queste formule?
Davvero si può pensare di dare da mangiare a centinaia di milioni di
affamati con l’agricoltura biologica? A parte il fatto che fior di
scienziati (ad esempio Veronesi) hanno denunciato i rischi per la
salute del biologico, qualcuno ha mai notato quanto costano frutta e verdura biologiche? Ed ancora, lo sviluppo dell’Africa,
naturalmente sostenibile, prevede la costruzione di navi, auto,
aerei, treni? Contempla le centrali elettriche, la costruzione di
case e strade? Insomma sarà uno sviluppo che consuma risorse e
modifica l’ambiente o, in nome del rispetto della diversità
culturale e dell’equilibrio fra uomo e natura, gli africani saranno
condannati a vivere ancora per chissà quanto delle nostre elemosine?
Infine, tutte queste concezioni hanno una visione ridicola della
natura. La natura è bella e terribile, affascinante e spietata.
Ormai invece questa enorme forza primordiale è stata banalizzata,
ridicolizzata, trasformata in un cartone animato, con gli animali
ridotti a ridicoli pupazzi di peluche. Da teatro di una spietata, e per molti
versi affascinante, lotta per l’esistenza la natura è diventata un
noioso film di amore e di armonia, uno zuccheroso fotoromanzo o un fumetto per bambini poco intelligenti.
La natura va amata e rispettata per quello che è, banalizzarla, umanizzarla, farle perdere la dimensione tragica e spietata significa non comprenderla, non conoscerla, non amarla.
La natura va amata e rispettata per quello che è, banalizzarla, umanizzarla, farle perdere la dimensione tragica e spietata significa non comprenderla, non conoscerla, non amarla.
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